Te lo ricordi il Sessantotto?
di Luciano Luciani
Te
lo ricordi ancora il ’68? Quando un’intera generazione “voleva tutto”, o meglio
voleva cambiare tutto?
In primis la scuola e l’università, individuate l’una e l’altra
come gli apparati di riproduzione di un sapere irrimediabilmente invecchiato e
di un consenso a un sistema ingiusto.
Poi,
la società: perché quella generazione, i figli del dopoguerra, credeva di aver
svelato l’imbroglio nascosto in un benessere raggiunto da poco, a fatica e
soprattutto sulla pelle di nuovi sfruttati. Pretesero, quei giovani, magari con
qualche arroganza ma in buona fede, di mettere in crisi poteri e autorità,
ruoli e istituzioni, origini sociali e relazioni…
Milioni
di adolescenti o poco più, ragazzi e ragazze, in quell’anno formidabile e in
pochi altri che seguirono, agirono collettivamente in nome di una cultura
diversa, di una politica nuova, di una società più giusta: un vero e proprio “assalto
al cielo”, il loro, che sperimentò anche differenti, originali modi di vivere,
lavorare, comunicare, abitare, amare alla ricerca di un “uomo nuovo” che fosse
all’altezza di quella straordinaria presa di coscienza, adeguato al sogno di
un’armonia insieme sociale e personale, di un’esistenza non dissociata ma
coerente tra valori e fatti, teoria e prassi. Un impegno titanico, prometeico,
che dalla vecchia Europa alle Americhe, dall’Asia all’Africa delle giovani
indipendenze, durò oltre ogni aspettativa. In esso si consumò la parte migliore
di una generazione di giovani, in lotta non solo contro i poteri forti
dell’economia e della politica, ma anche, e forse soprattutto, contro se stessi
per tentare di diventare cittadini e uomini migliori dei propri padri…
I
risultati? Modesti, anche se un bilancio compiuto ancora non è stato realizzato.
Sì,
anche il ‘68 come tutti i movimenti non era destinato a durare nel tempo: a
contrastarlo arrivò ben presto, dall’esterno, la reazione feroce e forsennata
dei poteri messi in discussione e, dall’interno, la gelata delle ideologie. Poi,
la progressiva deriva della violenza, del terrorismo e un nuovo inedito,
subdolo avversario: la diffusione della droga, facile via di fuga per i più
incerti, i più fragili, i delusi, gli impazienti.
A
seguire, per un paio di generazioni, una progressiva perdita di memoria e di
senso che ci ha resi oggi tutti delusi e risentiti verso le speranze del
passato, mentre tanti segnali quotidiani ci avvisano dell’approssimarsi di un
baratro, le cui forme non riusciamo neppure a immaginare. Ai nostri giorni la
maggioranza dei protagonisti di allora vive la malinconica condizione di adulti
maturi “più disingannati che rinsaviti”; molti ripensano a quel “bagliore di
democrazia” come a un “calore di fiamma lontana” capace, comunque, di scaldare
ancora, almeno in parte; altri, non pochi, sulle rovine dei sogni di allora
hanno costruito rilevanti fortune personali.
Come
è stato possibile che quel sogno si sia rovesciato nell’incubo di un presente
dove riescono a fiorire solo vecchi razzismi e nuovi fondamentalismi, dove
tornano a ripullulare antiche ingiustizie e nuove, impudenti, forme di dominio?
A
darci ragione di quanto avvenuto, poco ci ha aiutato la storiografia, ormai monopolio
di riconfermati e vendicativi poteri accademici. Meglio, allora, ricorrere
all’invenzione narrativa. È quello che fa Stefano Carlo Vecoli con il suo terzo
romanzo, Crescevano sogni, fiorivano eskimi, anche questo come i primi
due storia di una delusione storica e amara riflessione esistenziale, proiettando
quegli anni, i suoi protagonisti e le loro vicende nella dimensione ristretta
della provincia toscana, dove non furono meno acute le tensioni politiche e
sociali, né meno rovinose le conseguenze di quegli avvenimenti.
Romanzo
di formazione ambientato negli anni dell’agire collettivo è anche il racconto
di un’amicizia. Giulio e Cesare, legati a filo doppio sin dai giochi
dell’infanzia, nel delicato discrimine tra l’adolescenza e l’età adulta si
trovano a militare su versanti opposti della stessa lotta al sistema: l’uno
“rosso”, l’altro “nero”, ambedue sinceri e conseguenti nella loro scelta
vissuta con spontanea radicalità. Entrambi generosi e ingenui, tutti e due
impotenti di fronte alla degenerazione violenta del movimento, facile preda di
minoranze tanto furbe quanto agguerrite e organizzate. E il prezzo da pagare sarà
alto, altissimo…
Vecoli
racconta bene il crescendo dell’euforia rivoluzionaria, la sensazione
rassicurante di sentirsi parte di un tutto destinato a cambiare la storia, lo
stato d’animo di chi crede di essere sempre e comunque dalla parte giusta,
l’esaltazione degli slogan, il primato della politica in ogni aspetto della
vita quotidiana: dalle letture alla musica, dal modo di vestire all’amore,
divenuto d’improvviso esperienza facile e disinibita. Non tace l’Autore le
contraddizioni e le ambiguità di quella esperienza: la paura del compromesso,
la mancanza di realismo, le reticenze che alimentarono, a poco a poco,
stanchezze e disinganni, frustrazioni e sconforto. Fino alle pagine finali,
cupe e liberatorie assieme come risulta essere sempre la perdita dell’innocenza
e l’ingresso nel mondo adulto.
Narrazione
sempre in equilibrio tra elementi autobiografici e invenzione letteraria, Crescevano
sogni, fiorivano eskimi, con una chiarezza maggiore a quella di tanta
saggistica interessata, ripercorrendo con sincerità le strade della memoria e
del cuore, ci aiuta a trovare una spiegazione, ancora problematica ma plausibile,
su questioni di stringente attualità: da quale storia recente veniamo? Cosa siamo
diventati, oggi? Perché il nostro presente risulta tanto avvelenato, limaccioso,
inabitabile?
Un
romanzo forse non “politicamente corretto”, ma “politicamente utile”: da
criticare, magari; da restituire al mittente, se credete; ma assolutamente da
leggere.
Stefano Carlo Vecoli, Crescevano sogni, fiorivano eskimi,
disponibile nel web in ebook, http://www.lulu.com/spotlight/stefanocarlovecoli
www.stefanocarlovecoli
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