Aldo Bandini, o la
pittura
come vocazione alla chiarezza
“i pochissimi pittori che hanno il cervello a
posto e gli
occhi puliti si accingono a ritornare
alla scienza pittorica secondo i principi e gli
insegnamenti dei nostri maestri antichi.”
(Giorgio De Chirico, Ritorno al mestiere)
di Davide Pugnana
Ci sono artisti la cui opera acquista senso e valore alla
luce della distanza storica. Gli occhi della generazione contemporanea, che la
vede nascere e crescere, spesso non è pronta ad intenderne la portata. Ci
vogliono decenni, talvolta secoli per una buona messa a fuoco. Sono scatti di
accelerazione espressiva che conosciamo bene e che la storia dell’arte, al
volgere di ogni secolo, ci racconta mostrandoci un ‘caso’ esemplare. Lotto,
Caravaggio e Van Gogh, per dire i primi che vengono alla mente, sono lì a
dimostrarcelo. La comprensione delle loro poetiche ha richiesto tempo e fatica.
Eppure non sempre il prezzo dell’impopolarità al cospetto del proprio presente
si sconta imboccando la via della rivoluzione. A generare esclusione e silenzio
può talora contribuire la fedeltà ad una scelta d’origine; una sorta di atto di
coscienza talmente risoluto da decidere la linea destinale di un’intera
carriera. Ne è un esempio il patto di fedeltà verso uno status creativo come quello della pittura figurativa che ha
contraddistinto la ricerca di artisti nati nella seconda metà del Novecento. Per
molto tempo, in Italia, ci sono state personalità il cui profilo e la cui
operosità sono stati oscurati dalla luce potentemente sperimentale dell’arte
d’avanguardia. Il frutto di questa eclisse dentro il secolo è quella “città
sotterranea” che Vittorio Sgarbi ha descritto con grande esattezza nel saggio
che apre i contributi raccolti ne La
stanza dipinta e che porta l’eloquente
titolo di Arte segreta. Vale la pena
porre mente ad alcuni passaggi, utili per introdurre l’attività pittorica di Aldo
Bandini. Eccone il passo saliente: “Così è sorta una città sotterranea, dove si
sono rifugiati orgogliosi e imperturbabili, artisti di sicuro talento, e dove
giungono, come naufraghi sopra una terra insperata, alcuni temerari che non
hanno piegato le vele nella direzione del vento favorevole e hanno affrontato
tempesta e bonaccia per arrivare a un luogo di cui avevano sentito parlare, ma
della cui esistenza non erano neppure certi fino in fondo. Si è trattato per
molti, fin dalla prima generazione di questo secolo, di scavalcare le
avanguardie, di attraversarle ignorandole, di riagganciarsi all’ultimo gesto
della mano con il pennello o con la pietra, di ricominciare dove il discorso si
era interrotto. Per molti è stata una testarda coerenza, una polemica ragione
di vita, nell’isolamento e nel silenzio; per altri, e soprattutto ora, è una
dimostrazione di riscatto. C’è un intero arcipelago, ancora in buona parte
sommerso o inesplorato, di cui l’unico iceberg emerso, universale e quasi
sprezzante nell’affermazione di un valore non comparabile con la moneta
corrente, è Balthus. Al suo fianco e nella sua direzione e nell’opposta, ma con
lo stesso metodo di paziente e pensata elaborazione dell’immagine, ci sono
altri, anche grandi; e non saprei dirvi dove poterli incontrare, se non nei
loro studi, in qualche rara mostra: certo non nei templi consacrati all’arte.”
Un luogo sconsacrato e la rara mostra di un rappresentante di
questo “arcipelago” di pittori figurativi descritto da Sgarbi è possibile
averli sotto gli occhi, proprio in questi giorni, a Carrara, con la personale
di Aldo Bandini, un pittore dall’operosità silenziosa, lontano dall’assordante
clamore della notorietà e dalle vetrine delle gallerie. La recente produzione
trova uno spazio d’eccezione nella vasta sala espositiva della bottega Vezzi d’arte.
Le note che seguono sono lontane dal voler restituire un
quadro complessivo della ricerca pittorica di Aldo Bandini. Esse non sono che glosse
sparse, suscettibili di ripensamenti e di ampliamenti, depositate in margine ad
una produzione la cui complessità è lungi dal mostrarsi docile ad un immediato
addomesticamento storico-critico. Una collocazione dell’opera di Bandini nel
contesto di una storia della pittura tra fine Novecento e nuovo millennio, alla
luce dell’evoluzione di un certo tipo di figurazione, è ancora una sfida
aperta. Tanto più che tra le buone maniere della critica figura quella che
raccomanda di aver gettato uno sguardo sull’intera produzione dell’artista, di
averne classificata tutta l’opera. Condizione che, nel caso di Aldo Bandini, si
annuncia da subito come difficile impresa, dal momento che le sue tele vivono
disseminate in varie collezioni private, in banche, in chiese, in uffici, in
studi di avvocati, in case di industriali, e una cernita, anche parziale della
sua produzione, richiederebbe molto tempo e un sereno piglio sistematico.
Quando si intende parlare dell’opera pittorica di Aldo Bandini
si deve mettere da parte la veste complicata del linguaggio critico, il suo
tecnicismo, la sua oscurità spesso inaccessibile, e lasciare che le parole
scorrano con eloquente semplicità sulla sua pittura. Occorre verificare, per
quanto possibile, che ogni vocabolo sia aderente al fatto figurativo che
intende descrivere. Qualsiasi intervento critico sulla sua ricerca pittorica
non può che essere, a sua volta, una professione di chiarezza. Chiarezza di
pennello come chiarezza di pensiero. Un’equazione sacra che muove da sempre la
ricerca espressiva di Bandini. Non c’è spaccatura tra la figurazione e le forme
del reale. Nella sua pittura, la chiarezza è non solo l’assenza di retorica, di
letteratura e di facili cenciate; è il senso del mestiere e della tecnica messi
al servizio dell’espressione. Il fine artistico che Bandini persegue è quello
di una pittura non tradisca se stessa e il suo statuto; che non si allontani
dal suo midollo. E certo, in questo suo procedere, Bandini trova in Raffaello
Borghini, scrittore d’arte attivo nell’ultimo ventennio del Cinquecento, un’equivalente
sponda teorica. È proprio il Borghini a sostenere che la figurazione trova il suo
motore immobile ne “l’abito intellettivo” della pittura.
E a chi salga alla bocca, di fronte alle opere in mostra, il
nome di Brueghel, di Bocklin e di De Chirico, di certo realismo novecentesco, certo
non sbaglia nell’intuire i referenti stilistici verso i quali Bandini si volge;
ma è bene esser coscienti che questa suggestione non è che il punto di partenza.
Il Novecento ha custodito un continente di pittori la cui tensione espressiva
nasceva dal girare le spalle a Duchamp e Burri, e che ancora Vittorio Sgarbi
raggruppa sotto la categoria di “pittura permanente”. Ossia una pittura di
valore e di qualità che intende resistere nel tempo, incurante delle
generazioni e delle mode. Se è vero che la tensione figurativa di molti maestri
è stata, da un lato, straordinaria pittura, e dall’altro ha generato infiniti
seguaci di una debolezza senza appello, per Bandini quella vocazione alla
chiarezza di visione e di stile funge da cifra di autenticità. Anzitutto,
perché Bandini è un pittore che la sa lunga: conosce Brueghel, conosce Rubens;
sa quale abisso di pensiero pittorico passa tra Piero della Francesca e Cosmé
Tura; dalla linea Tiziano Veronese Delacroix ha appreso cosa sia il colore;
mentre da quella Rembrandt-Velàzquez gli è arrivato il libero miracolo del
tocco. Sa come imitarli, piegando l’assimilato alla sua personalità; guardando
a procedimenti e soluzioni espressive senza per questo contaminarsi coi loro
cascami ‘accademici’, anzi uscendone al momento giusto, per rientrarvi d’improvviso
e rinnovarli. Pittore da sempre, quasi per consanguinea appartenenza, Bandini
sa cosa vuol dire essere figurativi, e non ha mai temuto di misurarsi col linguaggio
pittorico che una tradizione così impegnativa reca in sé. Detto ciò, Bandini sa
altrettanto bene di perdere terreno rifiutando la stendhaliana conversione
della sua arte all’uniforme del secolo; ma sa anche benissimo di guadagnarne
sia presso i figurativi di razza, sia in seno alla tradizione stessa,
risvegliando efficacemente il prestigio della pittura, ridonandole
l’imbattibile solidità dei suoi valori. A guardare quel suo piccolo medaglione
ovale, finalmente sotto gli occhi di tutti, ci occorre subito marcare il motivo
più schietto della sua pittura: quel dipingere chiaro, sempre teso alla verità
delle cose. Ebbene, non solo la sua ma tutta la pittura figurativa, ieri come
oggi, è ferma nell’affermazione che il peccato imperdonabile, la menda carica
di gravità mortale, è l’opacizzazione del Vero. Per questo, sulle tele di
Bandini, tutto si scopre; tutto gioca a manifestarsi in modo da non lasciar
dubbi nel rapporto tra cosa e pittura.
Non è facile essere figurativi. È vero. Misurarsi col
realismo, categoria senza tempo, significa possedere mestiere, immaginazione,
senso delle cose e delle forme, potenza percettiva. Su questo terreno è facile
scivolare e farsi male. Per un artista figurativo le imperizie e le lacune espressive sono sempre in
agguato, pronte ad esplodere sulla tela come oscenità. Se si sceglie, come ha
fatto Bandini adolescente, la via della figurazione, bisogna essere coscienti
che il viaggio sarà difficile e carico di responsabilità. In questo senso,
fermarsi a meditare sulla recente produzione in mostra significa non tanto chinarsi
a descrivere temi e tecniche; ma dare voce ad una concezione della Pittura che,
tela dopo tela, vediamo prendere corpo. Bandini risolleva il primato della
figurazione là dove gli era stato tolto. Ricomincia, ogni volta, laddove la
Modernità l’aveva dimenticata. Il suo gesto è quello liturgico della mano con
il pennello, ossia di ostinata fedeltà agli strumenti. Il suo mondo figurativo
senza crepuscoli o gesti d’effetto, lontano dagli ismi, è l’incontro di una
pittura vasta, pacata, intellettiva, con un lavoro sodo tutto teso all’onestà
di visione. Se potessimo assimilare o calare in un luogo ideale il suo pensare artistico esso sarebbe in tutto simile
ad un tempio o ad una corte, due spazi profondamente umanistici. Un pensiero
pittorico, quello di Bandini, severamente limpido e in perenne continuità con
la tradizione storica della grande pittura europea. Possiamo verificarlo in
presa diretta sulle opere esposte. Vediamo che la tenuta di questo abito
mentale si riflette nella coerenza di unità stilistica delle tele; nel
passaggio, tutt’altro che scontato, dal medio al piccolo formato – quello
riservato ai bozzetti o ai rapidi appunti visivi. La mostra carrarese
testimonia la serrata unitarietà della poetica di Bandini, attraverso il
dispiegarsi dei generi artistici, dal ritratto alla natura morta, passando per
il paesaggio e il nudo.
La grande limpidezza visiva fa di Bandini un artista lontano
da un approccio intellettualistico, criptico o capzioso. Se c’è una posizione
da occupare dentro la storia della pittura, questa non può che essere quel
bilico singolare che fa di Bandini un temperamento artistico insieme di
cerniera e di frontiera. Questo bifrontismo dialettico finisce per incarnare il
secondo punto di forza. Si è detto della vocazione alla chiarezza pittorica
come profondità di pensiero, da un lato; va aggiunto, dall’altro, il senso di
continuità e rinnovamento del vocabolario espressivo, a contatto con un
continuo aggiornamento e studio della tradizione figurativa europea. Nel mezzo,
si situa l’ossessiva passione per la regola dell’immagine. Bandini è un artista
che crede alla bellezza della pittura. Ed è una fede nella quale la pittura è
vissuta non tanto come forma di terapia (come, spesso, afferma la vulgata); ma è
qualcosa da praticare come una scienza. Lo stesso mito romantico
dell’ispirazione non trova spazio e viene sostituito dal dialogo con la storia
delle forme e con il recupero del mestiere. L’osservazione della realtà deve
essere esatta, permeata da quella particolare forma di esattezza che per il
pittore figurativo è il grado di interpretazione, il realismo e l’intensità
lirico-visionaria dello sguardo.
Parliamo di pittura, insomma. Cioè: di luce, di colore, di
composizione, di movimento, di scatole prospettiche, di bellezza di disegno, di
trasfigurazione individuale della realtà. Se ci mettiamo di fronte al dipinto
dei Viandanti sulla neve ne riceviamo
il primo sentore. Di fronte al passo felpato dei due viandanti-guerrieri siamo
portati nel cuore di una narrazione dilatata, dove il tempo è quello circolare
ed immobile della fiaba. Sopra quelle teste, coperte da elmi e cappelli,
spiccano alberi e rami: grossi, minuti, scheggiati, spruzzolati di neve si alzano
e crescono assieme a tutta la complessa macchina del paesaggio, fino ad
incidersi in un’aria di perla, dove la luce che nuota nel cielo è quella
argentea della luna, arcana e stupenda sopra la chiostra di fiumi e colline a
loro volta lunari. Come è possibile non intendere una visione come questa? E
c’è poi quell’inconfondibile pasta pittorica che vibra di stesure condotte
senza mai scadere su effetti di porcellanea compattezza; sono impasti risolti
con una fittissima tessitura di pennellate, con un colore avaro e ridotto ad
una timbrica essenziale di bruni, ocre e bianchi, al limite del monocromo; un
colore usato come disegno nella resa di una gestione dello spazio che,
magistralmente, incastra due scatole spaziali, sovrappone due linee
d’orizzonte, conferendo all’insieme della composizione un moto di mistica
ascensionalità.
Chi è, dunque, Aldo Bandini? Viareggino di nascita. Carrarese,
per carriera scolastica e per docenza all’Accademia di Belle Arti. Sembrerebbe
che tutto torni su questo tavolo esistenziale con le carte da gioco ordinate ed
in regola. Ma Aldo Bandini è un artista che ha svolto il suo decisivo romanzo
di formazione direttamente a contatto con il panorama europeo dei maestri. Alcuni
li abbiamo già ricordati. Né viareggina, né carrarese, la sua pittura ha un
respiro intrinsecamente nordico ed europeo. Le sue profonde molle generatrici
risentono solo in parte delle ragioni biografiche e geografiche. Il loro humus è quella vertiginosa cultura
figurativa che, fin dagli esordi, Bandini ha studiato e assimilato attraverso
l’apprendimento delle tecniche e degli stili: in un primo tempo da studente
(con una copia della Gioconda della
quale ancora si mantiene intatta memoria al Liceo Artistico Artemisia
Gentileschi); approfondendo la sua iconografia con fonti filosofiche e
letterarie (dalle Vite di Plutarco ai
romanzieri russi; da Fulcanelli a Guénon; da Platone all’amato Shakespeare); arrivando,
alle soglie della maturità, a mutare un’attività di meccanica riproduzione
dell’immagine, come quella di copista per mestiere, in una forma di studio
matto e disperatissimo della scienza pittorica antica, procedendo cioè ad uno
scavo quasi chirurgico del processo creativo dei maestri che andava a
riprodurre, imparandone i segreti di bottega. Anche in questo caso, Bandini non
si è contentato di apprendere un procedimento, ma ha sentito di doversi
spingere nel sottopelle del fatto figurativo. Anche lui, a suo modo, ha
grattato le lacche di Tiziano.
Nel tempo, il suo dialogo ininterrotto con la lezione della
pittura europea è diventato un luogo di appartenenza e di identità. In questa
dialettica Bandini è del tutto simile ad un altro toscano d’eccezione: Niccolò
Machiavelli. Li lega la concezione umanistica del colloquio con gli antichi e
un culto interiore per l’aristocrazia dello spirito. Nelle serate dell’esilio
alla tenuta dell’Albergaccio, dopo una giornata passata ad ingaglioffirsi tra
boscaioli, beccai, mugnai, fornai e un’indistinta fauna di avventori d’osteria,
Machiavelli rientrava a casa e, spogliatosi dai panni maculati “di fango et di loto”,
si ritirava nel suo scrittoio fasciato di libri e di voci illustri. Lì, incapsulato
per quattro ore in un dorato spazio senza tempo, inviava struggenti interrogativi
ai pensatori classici: “e rivestito condecentemente entro nelle antique corti
degli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel
cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare
con loro, e domandarli della ragione delle loro actioni; e quelli per loro
humanità mi rispondono, e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia,
sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte:
tucto mi transferisco in loro.”
Non credo esistano, nel nostro Umanesimo, parole più esatte
di questa confessione di Machiavelli all’amico Francesco Vettori per restituire
la dinamica del rapporto di Aldo Bandini con i maestri dell’illustre genealogia
pittorica. Quante volte, negli ormai dieci anni della nostra amicizia, ho visto
Aldo togliere da una scaffale o sollevare da terra una monografia e avvicinare
il naso ad un dipinto di Holbein o di Franz Hals, seguire un panneggio in
iscorcio del Guercino o fermarsi a considerare un colpo di luce di Vermeer, sorridendo
e tenendo la pagina sospesa a pochi centimetri dalle stesse lenti con le quali,
poco dopo, e non prima di avermi congedato, avrebbe dipinto gli alberi, gli
scudi, le torri e le nuvole del notturno sotto la neve; i riflessi sul vetro di
un’ampolla e le curve della clessidra; il pane indurito e gli acini d’uva di
una natura morta adagiata su di un panno pesante; o per portare a finitura le
minute rugosità del carnato di Enea. Come Machiavelli, anche Bandini ha
talmente frequentato i suoi autori che il loro dialogo quotidiano ha fatto della
distanza storica e cronologica un mero accidente. Ciò che veniva assorbito in
quelle lenti da pittore era molto più che un’immagine da citare o un carattere
riflesso della lezione pittorica dei maestri. Vi rimaneva impressa la sintesi
di una domanda che chiedeva “ragione” di un rovello estetico che, forse da
anni, giaceva irrisolto o da risolvere. Nell’accostamento tra Machiavelli e
Bandini il trait d’union rimane,
insomma, quel pensiero umanistico che non conosce il dolore della frustrazione
competitiva o della vergogna; ma trasforma la forza del dubbio critico in curiositas, e, infine, in identificazione
vitale. In quei momenti di silenziosa interrogazione dello sguardo, avevo
l’impressione che Aldo davvero tutto si trasferisse in loro.
Ma le analogie con Machiavelli non si arrestano al colloquio
con gli spiriti magni. C’è una sorte da esiliati che accomuna i due toscani. L’uno
per funeste ragioni politiche; l’altro per ragioni, almeno in parte, di rifiuto
del mercato. Se andiamo a cercare cataloghi, monografie, articoli critici,
curriculum che ci diano lumi sull’opera di Bandini rimarremo delusi. Delle
numerose mostre, tra Viareggio, Lecco e Milano, ad esempio, non rimane traccia
documentaria che non sia il prezioso album di fotografie conservato dall’artista.
Queste stesse note non sono supportate da una pur minima storiografia
precedente. Eppure chiamare in causa le ragioni dell’esilio volontario dalle
logiche del mercato dell’arte non sembra lasciarci pienamente soddisfatti. Se
gli chiedessimo spiegazioni sulla sua marginalità, credo che Aldo ci
risponderebbe che il sistema dell’arte contemporanea è, per lui, quello della buona pittura e che la sola forma di
immoralità è un quadro dipinto male, cioè con cattiva coscienza. Oltre al
primato della Pittura, c’è, però, in Bandini l’idea che a parlare sia l’opera e
nessun’altro. Se l’artista è lo stile e non l’uomo, questo assunto è tanto più
vero davanti al suo caso. Bandini, pittore di opere e non di biografia. Su
questo asse non si incrocia solo il nome di Proust, che, nel cuore della sua
celebre teorizzazione contro il metodo biografico di Saint-Beuve, teneva
distinti l’io biografico e l’io artistico; quanto, più vicino a noi, ci viene
alla mente il gesto risoluto di Balthus, allorché, durante una retrospettiva
alla Tate Gallery , gli venne chiesto di cedere qualche informazione sulla sua
vita e sulla sua poetica; l’allora più che settantenne pittore liquidò i
curatori con la celebre frase: “Balthus è un pittore di cui non si sa nulla e
adesso guardiamo i dipinti.”
Questo sferzante epigramma balthusiano si offre come il
miglior viatico alla mostra personale di Aldo Bandini. Popolata di eroi, di
amici e di brani di natura, la mostra, allestita nell’ampia sala espositiva di Vezzi d’arte, è la sintesi poderosa di
un immaginario figurativo e, nel contempo, un’antologia visiva dell’iconografia
e delle forme che, da decenni, permeano la ricerca pittorica di Aldo Bandini. Una
ricerca che non si sottrae alla molteplicità dei generi artistici. Contro le
pareti bianche si squaderna una figurazione attraversata da una pluralità di
temi e di tempi storici; talvolta, sono scenari poeticamente atemporali laddove
l’immaginazione indugia nella narrazione di una bolla notturna con le impronte
dei viaggiatori che marcano sulla neve il pellegrinaggio verso un’ideale,
tolkieniana Gerusalemme. Oppure, è il ciclo di disegni a matita e acquerello
che con timbro elegiaco ci raccontano gli enigmi speculativi delle ammantate e solitarie
figure, stagliate contro rovine, abbandonate su strapiombi e campagne che hanno
il sapore delle visioni severe di un Piranesi, corrette appena da uno stupore
leopardiano mutuato da Friedrich, a sua volta, qua e là toccato dalla bellezza
misteriosa da dettagli alla Max Klinger. All’opposto, racchiusi nel piccolo formato
quadrato, i nudi femminili acquistano diverse polarità. Uno, sorpreso da tergo
con sguardo voyeuristico, posa nella penombra di una stanza, come una Susanna
nell’atto di concedersi un bagno, ma sbracata e tutta domestica, e dove anche i
vecchioni barbuti sono ridotti alla stregua di maschere ghignanti da commedia
dell’arte; il secondo nudo evoca, all’apparenza, l’iconografia dei San Giorgio
e il drago, ma non manca di introdurre un’esile vena metafisica, con
un’aggiunta d’ironia che assimila la figura del santo ad una statua classica e
la donna ad una Eva/Venere insidiata dal serpente. Se cerchiamo una prova di
genere ritrattistico come esplorazione psichica prima che omaggio alla
verosimiglianza, essa è affidata al mirabile Ritratto di Enea, l’amico viaggiatore. Un’opera che rappresenta il
perfetto equilibrio di sintesi tra contenuto e forma, ossia tra analisi
fisiognomica, risolta a partire dal fuoco compositivo del corrugamento della
fronte e dello sguardo fermato nell’acuta ricerca della lontananza, e da una
lenticolare descrizione del carnato, sul quale si effonde la resa plastica del dosaggio chiaroscurale, mediante l’uso di
una tecnica vicina a quella dell’affresco. Un discorso a parte merita il
piccolo capolavoro ovale della donna con gatto. Ma ci torneremo sopra tra poco.
Se, fino a questo momento, il primo e più facile dei pregiudizi è quello
dell’accusa di anacronismo o di realismo fotografico, questo piccolo ritratto
femminile tutto d’invenzione è la risposta, e direi l’antidoto, alla sbrigativa
superficialità dei giudizi estetici di gusto.
A quest’altezza è giunto il momento di recuperare le due
direttrici del nostro discorso critico: la ricerca di un’idea di Pittura come
vocazione alla chiarezza; e la tensione conoscitiva che fa di Bandini un
pittore di cerniera (nel senso chiarito dall’esempio di Machiavelli) e di
frontiera (per la sua incessante sperimentazione dentro la grande pittura). Gli
stessi assunti potrebbero essere utilizzati per spiegare il caso pittorico di
Pietro Annigoni. Ma se in quest’ultimo la meditazione sui massimi sistemi
verteva spesso sulla testiera metafisica ed esistenziale (pensiamo all’Ecce homo, come manifesto dei valori e
di pensiero e pittura, e al riuso del manichino), in Bandini ogni presenza
sulla tela è un’emanazione della memoria. Non di una memoria comune, ma di un
tipo particolare di memoria che potremo
definire sentimento dello sguardo. Quegli
eroi solitari calati in struggenti prospettive bucoliche, prossime a misurarsi
con l’infinito; quelle figure femminili immerse negli interni o figlie delle
favole mitologiche; le pieghe nel viso di Enea; la luce lunare che tace
immobile sul muscolo geologico di case e sull’incedere dei viandanti; la vita
silente degli oggetti sparsi come amuleti, torno torno la figura di bellissima
Venere moderna con gatto, sono tutt’altro che copie della realtà. Il Vero è una
categoria messa in crisi dallo sguardo pittorico di Bandini. Ho scritto
sguardo, ma avrei dovuto dire memoria. Nella sua officina, Bandini lavora
dentro le sue immagini. Ogni suo gesto conoscitivo è motivato dalla tensione di
portare a chiarezza immagini che sono concetti della sua interiorità. La
tecnica stessa, la linea, il colore, la luce non hanno bisogno di modelli dal
vero. La forme di Bandini sono oggetti del suo mondo interno: squarci
paesistici, marine, volti, sguardi, stoffe, reveries
di gusto mitologico o biblico, foglie, melograni, acini d’uva, sono elementi
che, in un dato giorno ed ora lontani, sono entrati nel suo campo visivo, sono accaduti dentro di lui, e hanno poi macerato nelle maglie della sua memoria,
incontrandosi, o fondendosi, con le immagini dipinte dai maestri della grande
tradizione figurativa. Fedele ad una materia alimentata da forme della memoria
intrise di un palpito di luce nuova, Bandini annulla il pericolo della
fotografia e dell’eccesso di verosimiglianza, per misurarsi con la pittura,
ossia con l’interpretazione individuale, nella sua singolare declinazione di sentimento dello sguardo. Così, scopriamo
che ogni tela è una camuffata autobiografia dello sguardo pittorico, pronta a
restituisce gli oggetti visti e interiorizzati, e, ora, ri-composti da una
tecnica pittorica lirica e sofisticata, antiretorica nella sua visione
sfrondata, ripulita e sapiente. Una pittura costruita nei suoi valori di
materia e di luminosità, di plasticità e di vibrante nitore, e venata di
afflati anche minimi di poesia e realismo.
Eccoci tornati di fronte al capolavoro in mostra: il ritratto
ovale, dove cogliamo la sintesi suprema di questa concezione pittorica. Lungo
pochi centimetri di tela, Bandini racchiude una summa della sua poetica, della sua vocazione alla chiarezza, dalla
sua memoria come sentimento dello sguardo e del suo mestiere. Due tendaggi di
bellissimo carminio, sbrecciati e mossi dal vento, aprono su un cielo nordico
gonfio di nubi minacciose. Le nubi sono avvitate a vortice e quasi assorbite nel
gorgo di un occhio da ciclope, che fissa, nel centro, una fenditura di luce,
dove sembra prossimo a manifestarsi la presenza di un evento divino. In primo
piano, in un’invisibile forma piramidale, una donna dal volto felino ci sorride
guardandoci dritta negli occhi, e trattenendo nelle braccia un gatto nato dalla
sua stessa sostanza cromatica. Lentamente, attraverso la veste di questa
apparizione spettrale, si compone nel nostro sguardo un paesaggio che, per
nitore e realismo visionario, richiama gli sfondi di Piero della Francesca e di
Bocklin. Affiora e si snoda silente un fiume, bloccato in una trasparenza di
quarzo; ai suoi lati si profila un paesaggio altrettanto immobile, addolcito da
un dolce sentore di campagna toscana negli alberelli e nelle case. Al centro del
fiume serrato tra colline e isolette, la sola presenza umana è il barcaiolo
sospeso su uno specchio equoreo di silenzioso cristallo, ottenuto per velature
fitte e finissime sopra solidi impasti.
Quest’opera ci dimostra prima di tutto un aspetto
fondamentale. Come quella di Balthus, di Annigoni, dei fratelli Bueno e degli
altri pittori dell’arcipelago figurativo, anche la pittura di Bandini segue una
via che non è quella dell’illustrazione, della narrazione di genere o del
citazionismo. La direzione ostinata e contraria della sua figurazione non è –
secondo la distinzione di Campigli – arte ‘applicata’. Il suo versante è all’opposto,
verso l’arte ‘implicata’. Implicata per quel suo viscerale ficcarsi dentro le
immagini; per il lavorio della doppia memoria, quella del vissuto personale e
quella della cultura visiva educata sulla tradizione. Per quel percorso di
costruzione che ha al centro lo stile. In pittori della tempra di Bandini, il
dipinto non è mai un corpo sul quale i tormenti, la nausea, il pessimismo, il
male di vivere possano incidersi. Il mondo pittorico di Bandini non proviene
dal basso. Non è figlio della moderna disperazione esistenziale. Non sappiamo
nulla dei fardelli biografici dell’uomo.
E di questa forma di discrezione gli siamo grati. La sola percezione
nella quale siamo immessi è la poesia visiva della memoria: quel distillato di
esperienze, di osservazioni, di conoscenza della realtà che, fluida, trapassa
sulla tela. Di fronte ad una concezione di questo tipo non possiamo fare a meno
di pensare ad un’altra celebre risposta, questa volta di Nabokov: ciò che conta
in un artista è la “biografia dello stile”.
Giunti su questa soglia, che è anche quella della mostra
carrarese, si spalancano i valori della pittura: un decalogo stratificato, dove
si intrecciano fantasia, senso eroico, sentimento, acume, lirismo, memoria,
facoltà di assimilazione della tradizione e di asservire l’assimilato alla
propria personalità. Ma Aldo sa bene che una tela, per quanto autonoma sia, non
va lontana. Lo pensa da tutta la vita. La buona
pittura è un “abito intellettivo” che non conosce fine, e che per esistere
ha bisogno della buona materia pittorica.
Occorre che una tela ben fatta sia seguita da altre che ne continuino il
discorso, lo sviluppino e soprattutto siano d’accordo con la sua verità
profonda. Solo allora, sentiamo che proprio lì dobbiamo tornare pienamente.
Mostra personale di Aldo Bandini, con la presenza dello scultore
Gabriele Vicari. Vezzi D’Arte, via
E.Chiesa, 1/f, Carrara. Ingresso Libero. Aperto tutto i giorni. Apertura:
Venerdì 12 luglio 2013, ore 18-30
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