di Carmen De Stasio
In
una fluida narrativa per evidenze, «Romanzo per la mano sinistra» di
Giancarlo Micheli consolida l’impressione di continuità antidiegetica propria
del territorio umano. Nella
flessione severa degli eventi, la scrittura paratattica si affida a gesti
dinamici, a vasti significati intrinseci, mediante i quali Micheli giunge come
sfida alla lacerazione quale esperienza capace di aggregare tanto l’intimità
dei personaggi, che la loro concretezza, in una figuratività in continuo bilico
tra presenza decisa e dissolvenza. Con animo critico l’autore intervista la storia nelle sue
puntualità intellettuali, senza mai trascendere in una solarizzazione
emozionale suggestiva, pur nell’aleggiante senso di privazione che ivi alberga
in un tempo totalmente dominato da una precarietà tuttavia inadatta a sgominare
la speranza.
[Stefan scrive
nella lettera al figlio Bruno] (…) Spero ciò ti sia viatico affinché tu giunga,
in un giorno che tardi abbastanza perché non ti capiti di rimpiangere
prematuramente il tempo che pure perderai vivendo, a fare la felice esperienza
in cui le tue parole toccheranno l’anima di un altro, un tuo simile, grazie al
cui libero ascolto esse prendano il loro senso, proprio e particolare, tale da
renderle fulgide di tutta la luce che un’esistenza umana getta sul mondo, dal
suo principio alla sua fine attraverso le epoche e le generazioni.[1]
Dalla commistione dei casi – ritratti di
circostanze dall’apparenza talora fortuita, che tracciano la rotta (sovente
involontaria) intrapresa dai componenti il medesimo nucleo familiare
(personaggi portanti sono Stefan Bauer, Adele Ascarelli, sua moglie, e il
figlio Bruno) – si penetra l’intimità di un’epopea che scansiona le
protuberanze territoriali, per evolvere in una sorta di unicità simultanea che
dilania le diversità dei luoghi nel loro valore astrattivo. Pur provenendo da
realtà diverse anche dal punto di vista sociale (Stefan è austriaco, Adele ha
le sue radici in una prestigiosa stirpe industriale napoletana), ciascuna
porzione minimale trasporta i segni delle tante storie che, sebbene stagliate
su orizzonti dall’improbabile legame, confluiscono in un intreccio di verità e
invenzione dagli effetti sapienziali e svolte interlocutorie, e dirigono una
prospettiva sottoposta a incessanti (ri)elaborazioni, perché diventino centri
di diffusione di una meta-vicenda che, svoltando da una situazione unifamiliare
e adiabatica, valica luoghi, tempi e situazioni, in una convergenza che
s’arricchisce di particolari e che, infine, coinvolge integralmente il lettore.
L’addensamento dei frammenti in un’irrisolvibile
maieutica comporta tanto la co-agenza di personalità realmente vissute, che il
loro riferimento (spesso indiretto) ad ambienti e posizioni, se si vuole,
dissociati tra loro. Distolti dalla dimenticanza e (…) spronati a
partecipare ad un epocale rinnovamento dello spirito e delle fondamenta
concrete dell’esistenza[2], ciascuno compare in un’identità
a encausto, epperò tendente a una conclusione retriva rispetto al principio di
evoluzione che, d’altro canto, dovrebbe assicurare l’immanenza dell’individuo. Va a stabilirsi così un rapporto reale in continuo accadimento dal carattere eponimico, che si dilata e si
restringe in misura delle situazioni in una perturbabilità mnemonica
comprensiva.
Nella possente natura antonimica, le scoperte
sconvolgono, sedimentano tracciati moltiplicabili e mai collaterali, per
ritrovarsi in una conclusione predestinata a una nuova, esclusiva estensione,
che pure vaga in un’eterna e prodromica provvisorietà, il cui segno
asfittico è nell’aforisma strindberghiano
per cui l’inferno non sia altro se non il mondo in cui viviamo?».[3] In quanto documentale e sfuggendo alla
tendenziosità, l’opera calibra una struttura investigativa che riempie spazi
oscurati dalla sottrazione sconveniente; riconquista identità (La verità non può essere consuetudinaria) e, anche quando l’identità appare grama e
improvvida, continua in un’intelaiatura di fatti dalle temperature
mutevoli, collocate in un giogo di estremizzazioni che non lascia tregua al
ristoro, né però converge in disperazione.
La verità non può essere consuetudinaria.
In natura, la totalità dell’esistenza è fondata sulla metamorfosi, l’inesausto
mutamento delle forme e delle sostanze. Discipline quali la matematica, o
perfino il diritto positivo, stanno a dimostrare come la coscienza umana abbia
nutrita in sé la salubre ambizione ad emanciparsi da parvenze ed efferatezze,
(…)[4]
Diversamente da come ci si attenderebbe,
espandendosi all’indietro come memoria di memoria, le immagini mobili
consentono l’accesso alla rilevanza situazionale, tanto da misurare la modalità
di lettura in un equilibrio di ineluttabilità e circostanza, palesate in
effetti prodromici che, in ogni caso, dissipano la velatura costrittiva. Il meccanismo così
organato dà modo di accedere a un continuo giro di vite, in cui confluiscono
tanto i dati risaputi (e convenzionalizzati), che quelli potenziali, adattati
secondo una tecnica che, infine, ripiana le alterazioni procurate non già da un
torbido progetto di avvilimento, quanto dall’egemonica attrattiva dell’economia
di sintesi, della quale responsabile sembra essere l’impoverimento di una collettività
in conseguenza di un progressivo indebolimento linguistico. Su questa linea il romanzo pare avvalersi
di una struttura filo-scientifica giacché Se un libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo?[5]
Si accede così a un
macro-mosaico di parole quali vere e proprie molteplicità problematizzanti in una forma austera che si appella alla
corrispondenza tra antico e moderno all’interno di un frammento di ricordi dai
contenuti precisi, dalle cui sonorità quasi solo accennate l’articolazione
narrativa apre agli accadimenti con un lessico autorevole, autentico, maieutico, in grado di scavare nelle
segrete stanze che risorgono nelle trame esteriorizzate delle intenzioni. Una storia molteplice, come già scritto, e
che, pur raccontata al passato, pare emendare un’attualità complessificante e
tutt’altro che congestionata; che avvicina e distanzia, a un tempo, con movenze
perfettamente equilibrate. Ed è all’insegna dell’innocente
inconsapevolezza la conferma alla definizione attribuita dall’autore al
protagonista principale – Stefan Bauer – eroe
sensibile alla prospettiva di una risoluzione finale dal tratto edenico,
benevolo (incosciente di quella antitetica Endlösung
– la soluzione finale hitleriana) alla maniera di Giuseppe in Egitto.
«Quando, due estati fa, leggevo Joseph
in Ägypten sul balconcino dell’appartamento che avevamo in affitto a
Padova, non avrei mai immaginato di dover presto attingere le stesse mete delle
perigliose peregrinazioni del protagonista» [6]
Ma
la letteratura è un inganno se pensata come solutoria nel sogno-aspirazione,
all’insegna (e in conseguenza) del quale Stefan – giovane psichiatra coinvolto
nelle sue letture e nella ricerca (pericolosa in un periodo di persecuzione
razziale) sulle potenzialità oscene di una mente malata – resiste in una
particolarissima realtà evocativa come una panoplia collettanea di tante parti
(psichiatra a Leopoli, impiegato a Cinecittà, compagno con incarico alla sede
del Partito Comunista a Milano, incarcerato e pure accusato di tradimento).
Nella sua panoplia, Stefan si avvia verso la prospettiva della salvezza
propria, della sua famiglia e di tutta una collettività stordita e genuflessa
da un’incomprensibile umiliazione. Di
fatto, nelle sue tribolazioni Stefan incarna l’eroe del sogno che trova
nutrimento nei modelli percorribili della cultura che appaga la pura velleità
di conciliare la sua esistenza (fortemente instabile in un tempo
assolutamente destabilizzato) con il tragitto svolto da Joseph in Ägypten di Thomas Mann nell’illusione giovanile. Ma la realtà è grama e il tempo non è quello
auspicato dall’impegno intellettuale: sulla sciabola dell’orizzonte torna
fremente l’appartenenza ebraica a decretare il destino, sicché le parole
deviano verso i frantumi di un’umanità che, pur vitale, appare dissacrata,
sebbene non ancora impedita a sperare. In questo senso, le parole stravolgono e
travolgono; cadenzano le movenze degli scenari, ricomponendone schemi di
complessità radicali; favoriscono la ricomposizione netta del quadro storico,
attraverso corrispondenze intimizzate di personalità di diversa provenienza e
la cui presenza assume un valore particolare nella continua biforcazione: l’una
rigettata nello stolto non-vedere; l’altra disposta all’affaticante conquista
di un’identità all’interno di uno schema degenerativo plutocratico e
tecnocratico. In tutte le sue forme, il totalitarismo è figura pleocroica e
suasiva. Nessun tempo e nessun luogo ne sono immuni: tutti (…) protagonisti
sia pur appena larvate speculazioni sul tema del sosia o del doppio qual era
premeditato dall’ormai classica dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno (…).[7] Tali parvenze possono essere almeno
smascherate nell’interpretazione maieutica di una condizione di eterno e
diffuso amore, che via via s’ingigantisce in inopinata ierofania, contendendo
agli spazi costantemente rigenerati di rivelarsi nel diaframma documentaristico
di modelli di reciprocità in sospensione del mal-animo: a loro Micheli si
affida per valorizzare l’esistenza tattile di un’irrefrenabile, umana
convergenza metonimica, inspiegabilmente defraudata della sua interezza.
Scavalcando
la crono-storia, Giancarlo Micheli sollecita a penetrare i vari luoghi di
Stefan per il tramite delle missive indirizzate al figlio Bruno e che Bruno
legge in una simultanea sceneggiatura di corrispondenza tassonomica tra le
parti, all’interno delle quali echeggia un fondamentale proposito: pensare al
romanzo non già come luogo di concludente inizio e fine, ma come metatesi
crescente e formativa, realizzata da più individualità in un’inclinazione
meta-storica tentacolare, dalla variegata e sofferta ricercatività, in grado di
sostituire alla fissità un montaggio complesso di tipo cinematografico in una
ricombinazione di non-separabilità. Il romanzo-montaggio va così a investire
tanto la molteplicità degli stili di conduzione scritturale – epistolare,
naturalistica, cerebrale, neo-realistica, positivista e immaginativa – che la
molteplicità (e moltiplicabilità proiettiva) dei linguaggi al di fuori di
qualsiasi volume monotetico e distrattivo. Nutrite e corpose, le tematiche si
dipartono da un unico punto luce, per proseguire senza rallentamenti lungo
determinanti deviazioni, implicando a un tempo i presenti individuali
attraverso le rotte della rappresentazione ambientale, che rifulge di stupore
nella narrazione in flashback e che, in una maniera particolare, disturba la linearità da una posizione
diafasica, perturbabile e che ben presto accarezza il lembo minimale di
comprensione: il progresso della
conoscenza non tollera rigidità (S. Freud). Questi cenni non sarebbero
bastanti senza l’intervento diretto dei protagonisti tutti dell’intera trama,
organata secondo una tassonomia fluida, dirompente, mai evasiva; carica di tale
tensione che – nella metafora di una composizione priva di interruzioni –
squarcia l’oscurità e spalanca a una memoria generativa priva di cesure e
censura. Lascia, dunque, Micheli al lettore conscio la probabile e
aucostruttiva conciliazione di tutte le porosità in una prospettiva a largo
respiro, che giammai indugia su virtuosismo, né su anacoluti diversivi.
Tutt’altro: l’autore sottopone la traiettoria a repentini e significativi
cambiamenti, riuscendo a scavalcare la consuetudine per il tramite di una
centralità continuamente spostata e tendente ad evolversi in una nemesi
incessante.
[1]
G. Micheli, «Romanzo per la mano sinistra», Manni Ed., Lecce, 2017, Chi vuol vivere e star sano, dai parenti
stia lontano, p. 37
[2]
Ibi, La pena è zoppa, ma pure arriva,
p. 86
[3]
G. Micheli, «Romanzo per la mano sinistra», op. cit., La saetta non cade in luoghi bassi, p. 595
[4] Ibi, Bisogna
fare di necessità virtù, p. 488
[5]
F. Kafka, lettera a Oskar Pollak,
1904
[6]
G. Micheli, «Romanzo per la mano sinistra», op. cit., Amico di ventura, molto briga e poco dura, p. 249
[7]
Ibi, p. 90
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