Un romanzo per raccontare l’incomprensione tra le culture - recensione di Nadia Davini
Mbacke Gadji ha 39 anni, è nato a Nguith, in Senegal e si è scoperto scrittore dieci anni fa, quando è approdato in Italia dopo essere vissuto già otto anni in Francia. Kelefa La prova del pozzo è il suo quarto titolo, dopo Numbelan: il regno degli animali, Lo spirito delle sabbie gialle e Pap, Ngagne, Yatt e gli altri. Libri che tessono leggende, ariose o cupe, del suo Senegal, con il tema fondamentale dello straniamento e del confronto tra culture, sviluppato con la sensibilità di chi si pone come mediatore tra due mondi diversi con il timore di essere estraneo a entrambi. “Cerco di essere un interprete” spiega infatti Gadji. È partito dal suo paese natale con un diploma di maturità in tasca, in Francia ha preso una laurea breve in economia e qui, in Italia, ha cominciato a scrivere, mosso da un sentimento/risentimento, dalla voglia di tornare alle sue origini e informare su idee e affetti che nel nostro paese talvolta sembrano non essere capiti o peggio accettati.
Kelefa La prova del pozzo è la conferma della frustrazione del patrimonio culturale di una generazione: Kelefa Sane è il nome di una famiglia che ha avuto una grande importanza nella vita delle popolazioni del Senegal meridionale. Un passato glorioso rispetto al quale gli esponenti del mondo attuale reagiscono in modi diversi: disinteresse o passione; indifferenza o fastidio, negando oppure cercando nel recupero delle tradizioni un radicamento più profondo perché, come afferma uno dei personaggi, “ la storia e il passato dell’umanità devono avere uno spazio nella nostra vita, non sono né da rimuovere né da riscrivere, vorrei tanto che potessimo pescare in questo patrimonio per fronteggiare i nostri problemi di esistenza”. Così cultura e tradizione si scontrano con il mito del progresso creando una lacerazione profonda e conflitti sulle possibili prospettive di sviluppo.
La prova del pozzo non è solo un ritorno al passato alla riscoperta di antenati e di verità, ma può essere letta anche come una metafora che coinvolge tutto il libro dalle prime descrizioni. Infatti, gli abitanti dei luoghi descritti dall’ Autore vivono ammassati gli uni ridosso agli altri come se fossero racchiusi dentro a un pozzo. Le nostre certezze (banalmente un distributore, una rete autostradale) spesso sono messe in discussione perché sulle strade africane è dai carretti dei bambini, dagli asini e dalle pecore, dalle buche profondissime, dal caldo impossibile che devi guardarti e soprattutto abbandonarti.
Non sono scivolati via i lunghi anni di colonialismo che ancora oggi, anche se in modo non diretto, influenzano la vita di queste persone fino a far apparire il modello occidentale come l’unico possibile. Per questo spesso l’obiettivo diventa la migrazione, la ricerca di fortuna da parte di almeno un membro della famiglia, capace poi, attraverso il lavoro e il nuovo status non sempre ottenuto facilmente, di contribuire al mantenimento di tutti. Ma tutto questo ha un costo: si cambia e spesso non si è riconosciuti dalla nuova comunità di appartenenza e neppure né da quella d’origine.
Il romanzo documenta anche questo. Racconta di come ciò che era è stato perso, e ciò che è sia lontanissimo da quello che si è diventati per necessità e sopravvivenza. Ecco la difficoltà, ma anche l’interesse, che può suscitare la lettura di un libro scritto da un autore senegalese, immigrato da molti anni, con il cruccio di tornare, prima o poi, a vivere nel suo Senegal.
Il libro è pervaso da un senso nostalgico nei confronti della tradizione: si valorizza più l’investitura di un re su un trono fittizio e un regno frantumato in mille pezzi piuttosto che accertare la potabilità dell’acqua o impegnarsi a limitare le povertà diffuse in ogni angolo del paese. Di grande interesse la descrizione del percorso quasi rituale, attraverso il quale il lettore sperimenta e comprende la sensazione di spaesamento, di perdita di punti di riferimento che l’immigrato sconta nel momento in cui si confronta con un paese diverso e così distante dal suo e al quale spesso non può tornare. Ci si può adattare senza perdere i propri valori? Si può rimanere ancora intimamente legati alla propria terra, pur permeati dalla cultura occidentale? Si rifletta sulle parole del protagonista del libro: “se moderno è rimuovere la storia e sviluppo è fare solo ciò che produce ricchezza, io mi astengo dalla creazione di una tale società”.
In grandi città come Roma o Bologna, libri come La prova del pozzo vengono venduti per strada, senza passare per l’intermediazione della libreria, dagli stessi immigrati che si trasformano in piccoli imprenditori: comprano uno stock di copie della casa editrice al cinquanta per cento del prezzo di copertina e alla vendita guadagnano l’altro cinquanta per cento. Insomma, con sei euro e novanta, abbiamo comprato un bel libro, sostenuto un modo originale di praticare l’ editoria e fatto guadagnare tre euro e quarantacinque centesimi al “libraio” senegalese. Che, prima di uscire per strada a proporre la sua merce, i romanzi di Mbacke Gadji se li deve leggere e meditare: perché, forse, sono stati scritti proprio per lui.
Nadia Davini
Mbacke Gadji, Kelefa, La prova del pozzo, Edizioni dell’Arco-Marna, Milano 2003, pp.125, Euro 6,90.
22 dicembre 2005
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