di Nadia Davini
La parola è molto più ricca di quanto appaia. Ogni parola è una sinfonia di suoni, reca potenti depositi storici e racchiude un intero mondo di concetti. Il suo vero significato ci appare nello momento stesso in cui la pronunciamo. È l’apice della maturità di ogni processo, il grado ultimo della soggettività e il primo dell’oggettività. I nomi propri hanno perfino una natura metafisica, si presentano con un’energia intrinseca e, dal punto di vista ontologico, con un essere proprio: perciò occorre che il nome acquisti fama e gloria.
Sulla storia di ogni parola si potrebbe scrivere un libro.
Questo è ciò che fa Giuseppe Cecconi, nato nel 1947, nome datogli dal padre forse in onore di Stalin, oppure per riconoscenza nei confronti di un frate camaldolese che gli salvò la vita, aiutandolo a ottenere una provvidenziale licenza, mentre era sul fronte iugoslavo nella seconda guerra mondiale.
La sua raccolta di storie dei senegalesi in Italia: Le parole per guardarle è un romanzo che racchiude in ogni sua espressione, in ogni sua singola parola, un mondo vastissimo, colorato e pieno di vita benché grande sia il disagio per l’ambientazione in un nuovo paese.
È un sapiente, Eraclito l’Oscuro che si proclama scopritore e possessore di una legge divina che incatena gli oggetti mutevoli dell’apparenza e lui, per primo, dà il nome di logos a questa legge.
Stando agli studi di Ivan Illich ( Nella vigna del testo) questo intreccio tra il fisico e il metafisico continuerà fino al 1128, quando il teologo Ugo da San Vittore, compilò il suo Didascalicon con il sottotitolo De studio legendi ( Le disciplina del leggere).
Per lui la pagina non era la registrazione della parola, ma la rappresentazione visiva di un pensiero e la lettura era una forma di pellegrinaggio, un atto di incarnazione anziché di astrazione. Il libro, a quel tempo, veniva portato solennemente in processione, come un oggetto di culto o una reliquia degna di adorazione. Durante la liturgia lo si illuminava con un cero particolare e era onorato con l’incenso. Ugo, però, si trova alla fine di una tradizione di lettura mormorata, meditativa, gustativa, che ha inizio con i Padri della Chiesa, specialmente con Agostino. Anche se fu proprio lui che una notte fece la scoperta che era possibile leggere in silenzio. Dopo Ugo cessò l’epoca della lettura borbottata dei libri, quando il denso del discorso restava nascosto nella pagina come dentro uno spartito musicale, finché non diventava fiato e suoni. Il libro che in precedenza si poteva leggerlo solo dall’inizio alla fine, ora diventa accessibile in qualsiasi punto e chi legge si sente spinto talvolta a abbreviare i passaggi. Così la scrittura perde la sacralità e si degrada a comunicazione.
Perciò, ogni qual volta che le parole sono di nuovo composte per essere mostrate e divengono cioè parole da guardare, è come se riacquistassero mille significati e profumi.
Nel libro di Cecconi, le parole da guardare sono quelle che il vecchio e saggio Kèbè (un personaggio del libro), scriveva sulla sabbia per suo nipote Tala, quando questi ripartiva dal Senegal per tornare a fare l’immigrato in Italia. Si tratta di alcune importanti frasi del Corano che chi parte deve fissare con gli occhi, un istante prima di andarsene, per essere sicuro di far ritorno a casa. Dunque Tala scrutò quei segni tracciati per terra, quasi specchiandocisi, poi, in ottemperanza agli antichi dettami, li saltò a piè pari e partì per mondi sconosciuti. Per questo ragazzo, mentre è in procinto di partire, la parola torna a essere un oggetto contemplato, egli può sorvolare sul suo contenuto specifico che è una traduzione diretta e perciò frammentaria e impropria dell’inesprimibile. Il tratto vale ormai l’espressione e basta soltanto un’occhiata che penetri lo scritto nel suo significato primario di ricordo e ammonimento, a fargli scoprire la trama nascosta delle cose; quell’occhiata cantata da Pindaro come il più diretto consigliere che tutto conosce e che nessuno può ingannare né con opere, né con disegni. D’altronde, secondo Pasolini, le impressioni visive hanno perlomeno la stessa dignità scientifica del sogno linguistico e per dimostrarlo, egli porta l’esempio personale del primo ricordo della sua vita: una tenda bianca e trasparente che pende da una finestra, sopra un vicolo triste e scuro. Secondo il punto di vista dello scrittore, quell’immagine stampata in modo indelebile nella sua mente, riassumeva alla perfezione, senza infingimenti o censure, l’universo borghese della sua casa natale di Bologna e la cultura perbenista della sua famiglia.
Guardare la figura un istante, senza leggere sarà stato quello che ha fatto Tala al momento della partenza. Lui per tutto questo tempo era stato zitto, lì in piedi accanto al nonno, e ha avuto quindi la possibilità di vedere le parole che, stando piegato a capo chino, quello vergava per terra.
E, mentre le guardava, chissà come avrà sgranato gli occhi.
Giuseppe Cecconi, Le parole per guardarle. Storie dei senegalesi in Italia, Bandecchi & Vivaldi Editori, Pontedera 2004, pp. 97, Euro 9,00.
22 dicembre 2005
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