Nata dalla relazione tra Giulia Campana, cortigiana romana conosciuta come la Ferrarese forse perché nativa di Adria e Luigi d’Aragona, di sangue reale e cardinale tra i più in vista durante il primo pontificato di Leone X, Tullia d’Aragona fu un’autentica figlia del Rinascimento, colto e naturalistico. Raccontano che nel suo primo soggiorno romano, durato sino al 1531, abbia distribuito largamente i piaceri della sua alcova con una particolare predilezione per gli intellettuali: il letterato Ludovico Martelli, il poeta Claudio Tolomei, il poeta latino e libertino impenitente Francesco Maria Molza, senza trascurare i ricchissimi e altrettanto prodigali aristocratici Filippo Strozzi e Paolo Emilio Orsini… Tullia, alta, bionda, due splendidi, grandi occhi non affidava le sue capacità di seduzione al solo aspetto fisico, ma a esso aggiungeva il dono di una voce morbida e ben intonata e la capacità di far versi: piuttosto convenzionali nel loro rigido modello di stampo petrarchesco secondo il parere dei critici, ma sempre tali da distinguerla dalle altre cortigiane concorrenti. Musa e insieme venditrice d’amore – una notte con lei poteva arrivare a costare l’iperbolica cifra di cento scudi! - Tullia seppe raccogliere il parere favorevole anche di una lingua tagliente e spietata come quella dell’Aretino che non poté esimersi dal giudicarla ‘una vera regina’. Personaggio inquieto, espressione di un’epoca di difficile transizione, alla perenne ricerca di un prestigio sociale che le derivasse non solo dalla bellezza e dalle maniere seduttive, ma anche dall’abilità letteraria, questa cortigiana con né piccole né poche aspirazioni intellettuali preferì spostare a Ferrara il proprio salotto ben accolta in principio dall’ammirazione e dall’amicizia di poeti come Giulio Camillo, Girolamo Muzio, Ercole Bentivoglio e, soprattutto, Bernardo Tasso, il padre di Torquato, che non le lesinarono ammirazione e amicizia (1531). Al suo fascino non rimase insensibile neppure Giambattista Giraldi Cinzio (1504 – 1574), interessante teorico del teatro dell’orrido e autore di testi cupi e truculenti conosciuti dallo stesso Shakespeare, che forse perché tenuto troppo a lungo in stand by finì per maturare un profondo astio nei confronti della donna. E, come si usava allora negli ambienti dotti, non esitò a porre mano alla penna per tentare di oscurare il mito di Tullia nella raffinata città di Ercole II d’Este e Renata di Francia. Non contento di averne messa in discussione la bellezza – “oltre la bocca larga e le labbra sottili (il viso) era disordinato da un naso lungo, gibbuto e nella estrema parte grosso, e atto a porre sommo difetto in ogni bella faccia s’egli tra le guance vi fosse posto” – Giraldi Cinzio ebbe buon gioco a gettare lunghe ombre sull’origine incerta e la discutibile moralità della donna: “Questa di casa d’Aragona si fa chiamare, quantunque io intenda che di madre vilissima e di quella medesima vita che ella è, in alcune paludi sia nata senza che la madre le abbia mai saputo dire chi suo padre si fosse. Venuta dunque nella nostra città, ove le pari a lei, per lo mal costume del nostro secolo, sono in più abbondanza che non si converrebbe, si dié a fare guadagno di sé disonestamente, allettando i giovani … E non pure traeva costei a sé i giovani con simili arti, i quali per lo più sono di poca levatura, ma così toglieva ella il senno ad alcuni uomini maturi e scienziati, che col promettere loro di lasciarli godere di lei, qualunque volta danzassero mentre ella toccava il leuto, facevano scalzi la rosina, o la pavana, o quale altra sorta di ballo più l’era grato e poscia beffandoli li lasciava del promesso scherniti.” La partenza di Bernardo Tasso, il suo principale estimatore e protettore che andava a mettersi al servizio del principe Ferrante di Sanseverino, la sorda ostilità del Giraldi Cinzio e versi malevoli che circolavano per Ferrara e la presentavano esclusivamente come una prostituta d’alto bordo – Tullia de l’altre vuol esser maggiore / E vuol fantesche e paggi e nane, e sfoggia / E fa con tutti i giovani l’amore. – la amareggiarono al punto da convincerla a trasferirsi a Venezia.
Venezia, Siena, Firenze
Della Serenissima Repubblica l’attirava la fama di città splendida, galante e soprattutto tollerante nei confronti delle cortigiane attorno alle quali scorrevano fiumi di denaro. Ma, forse, proprio a causa di tale notorietà l’offerta risultava di parecchio superiore alla domanda e, anche nei piani alti della prostituzione la concorrenza era forte e non conosceva esclusione di colpi: per esempio, quella di Zufolina o di Angela Zaffetta, circondata dallo splendore della prima giovinezza, mentre la nostra Tullia si avvicinava ormai ai trent’anni… Insomma, le sue rivali erano ben agguerrite e per niente disposte a farsi da parte per lasciare spazio a una venuta da fuori. In più, ci si mise anche quello spirito bizzarro di Lorenzo Venier (1510 – 1556), poeta amico dell’Aretino e autore di poemi osceni, che, in una sorta di guida in versi delle ‘mamole’ veneziane, indicate per nome e per prezzo, - una vera e propria borsa valori cortigianesca -, assegnò a Tullia solo l’ottavo posto… E allora via, via da Venezia ! Anche se il dottissimo letterato Sperone Speroni (1500 – 1588) la riconosce, unica donna tra tanti spiriti magni maschili, degna di essere citata nel suo Dialogo delle lingue e il pittore Moretto da Brescia la omaggia con un ritratto arrivato sino ai nostri giorni, Tullia lasciò la città dei Dogi nella primavera del 1537 per non farvi mai più ritorno.
L’aspettava un decennio movimentato che la vide cambiare più volte città: di nuovo Ferrara, poi Siena, quindi Firenze, raccogliendo, come suo solito, favori e consensi, ma anche inimicizie e guai. A Siena, per esempio, si sposò con il ferrarese Silvestro Guicciardi, ma fu anche accusata di magia dal letterato fiorentino Agnolo Firenzuola (1493 – 1543) che, non contento di quella imputazione pesante e pericolosa per la donna, ne mette in dubbio la moralità facendo dire a un personaggio femminile di una sua novella, una moglie che rimprovera il marito, “Tu meriteresti una femmina com’è la Tullia che si pascesse di adulteri, lasciando morire di fame il marito.” Amante riconosciuta di Ottaviano Tondi, uno dei più influenti membri del governo senese dei Nove, alle turbolenze politiche della città del Palio che l’avevano coinvolta anche personalmente, Tullia pensò bene di preferire il più tranquillo ambiente della vicina Firenze. Qui, però, nonostante l’amicizia e l’apprezzamento, non sempre disinteressato per la verità, di Benedetto Varchi, Niccolò Martelli, Alessandro Arrighi, Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, il filosofo Simone Porzio, non riuscì a trovare l’ambiente tranquillo e gratificante a cui aspirava e di cui aveva sempre più necessità. La sua fama di donna galante la perseguitava e le impediva di godere sino in fondo del favore pubblico: il resto lo facevano le malelingue che non esitavano a definirla “cortigiana degli Accademici” quando non l’accusavano di servirsi della giovanissima sorella Penelope per garantire il successo al suo cenacolo erotico – filosofico- letterario. Così, anche il soggiorno fiorentino finì male e il come e il quando l’abbiamo già sommariamente raccontato (p.3).
Tullia torna a Roma
Rientrata a Roma solo nel 1548, Tullia non riuscì ad adattarsi al nuovo severo clima culturale controriformista ormai dominante nel centro della cristianità. Qui, nella città che aveva visto sorgere e affermarsi l’astro della su bellezza e della sua fama, non le venne risparmiata nessuna umiliazione: la qualifica, ora infamante di cortigiana sanzionata da una tassa proporzionale all’affitto della casa in cui abitava, palazzo Carpi nella parrocchia di sant’Agostino e la reticella di colore giallo in testa, una consuetudine restaurata a partire da Paolo III Farnese (1534 – 1549) ed estesa da Paolo IV Carafa anche agli ebrei da lui ristretti nel ghetto. Non era più tempo di anacronistici sussulti di dignità. Lo dimostrò la dura punizione inflitta a un’altra famosa cortigiana romana, Isabella di Luna, alla quale il governatore di Roma fece infliggere sulla pubblica piazza cinquanta frustate sulle natiche nude: uno spettacolo a cui metà del popolo romano non rinunciò ad assistere.
La morte della madre Giulia e della sorella Penelope dettero il colpo di grazia a Tullia che si ridusse a vivere in Trastevere in casa di un oste dove la morte la colse il 14 marzo 1556. Anche lei, comunque, aveva risparmiato abbastanza da potersi permettere una bella tomba in Sant’Agostino, insieme alla madre e vicino a quella di Fiammetta. Un piccolo legato ai frati della chiesa stabilì che ogni anno nell’anniversario della morte venisse accesa una candela accanto alla sua tomba e venisse celebrata una messa in memoriam di una delle più famose donne d’amore del Rinascimento.
Tracce di Tullia
Qualche traccia di Tullia è rimasta nella storia letteraria. Per esempio, un Dialogo della infinità d’amore (1547), appartenente al genere della trattatistica erotica. Piacque all’Aretino, che, velenoso come suo solito, scrisse in proposito che “la Tullia ha guadagnato un tesoro che, per sempre spenderlo mai non iscemerà, e l’impudicizia sua per sì fatto onore può meritamente essere invidiata e dalle più pudiche e dalle più fortunate”. Fu questa la sua opera più nota e meglio accolta. Sempre nel 1547 e per i tipi dello stesso raffinato tipografo veneziano, Gabriel Giolito, uscì il volume delle Rime, dedicato alla sua protettrice Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo I de’ Medici. Si tratta, però, di versi troppo esposti all’imitazione petrarchesca e appesantiti dalla vicinanza del letterato Benedetto Varchi (1503 . 1565), uno dei suoi amanti fiorentini, che non contribuirono più di tanto a consolidare la fama letteraria a cui Tullia nell’ultima parte della sua esistenza teneva sempre di più. Né miglior fortuna le derivò dal Guerin Meschino, un poema in ottave di ben trentasei canti, tradotto da un’edizione spagnola e pubblicato postumo nel 1560: un’operazione sbagliata, sia per le preoccupazioni moralistiche che percorrono le strofe, sia per i contenuti troppo spesso contraddittori rispetto alle intenzioni.
Se la sua fama di cortigiana resse all’usura del tempo, sulla letterata scese l’oblio. Rotto, però, nel 1957 da un poeta dello spessore di Salvatore Quasimodo che nella raccolta da lui curata, Lirica d’amore italiana, volle riservare un piccolo spazio a un sonetto di Tullia d’Aragona. Uno solo, Amore un tempo in così lento foco:
Amore un tempo in così lento foco
arse mia vita, e sì colmo di doglia
struggesi il cor, che qual altro si voglia
martir fora ver lei dolcezza e gioco.
Poscia sdegno e pietate, a poco a poco
spenser la fiamma; ond’io più ch’altra soglia
libera da sì lunga e fiera voglia
giva lieta cantando in ciascun loco.
Ma il ciel né sazio ancor, lassa, né stanco
de’ danni miei, perché sempre sospiri,
mi riconduce a la mia antica sorte;
e con sì acuto spron mi punge il fianco,
ch’io temo sotto i primi empi martiri
cadere, e per men mal bramar la morte.