“ Metti una sera a cena” di Patroni Griffi (1969), “Il pranzo di Babette” di Axel (1987) o “La grande abbuffata” di Ferreri (1973) sono tre esempi di una filmografia che si ispira al valore simbolico della cucina. Il cinema infatti si è spesso soffermato sul rito del pranzo, ma anche la letteratura, non c’è dubbio.
Ne è un esempio questo piccolo volume di racconti (sei, per la precisione): cinque storie di donne, più una da uomo. In esse manicaretti e bevande accostano e mettono a confronto personaggi diversi anche per estrazione sociale. Il cibo , diventa così un pretesto per spiare istinti, desideri e passioni e la tavola, che sia frugale o fastosa, finisce per essere lo specchio dell’anima. Ma al di là delle caratteristiche specifiche, nel leggere questi brani ho colto alcune affinità che li legano.
È decisamente nevrotica la colazione di Francesca Caminoli, sulle tracce , in piena notte, di una cugina gallese: l’intreccio di abitudini e stili di vita diversi porta a mescolare anche gusti e sapori, la pizza del bar dell’aeroporto con il cappuccino, per esempio. E poi la corsa a riempire il carrello del supermercato di tutto un po’ formaggi, marmellate yogurt miele: d’altra parte il breakfast è il pasto più importante per gli inglesi e costituisce il prototipo della cucina internazionale, da sempre, ancor prima dell’Unità Europea. L’effetto è discutibile, per noi italiani, specialmente se pensiamo a un bella fetta di pane casalingo con burro e marmellata tuffata nel caffellatte, ma il fine giustifica il sacrificio!
Altrettanto nevrotico è l’episodio narrato da Aurora Borselli, un aperitivo veramente ansiogeno. Nell’attesa frenetica di un’importante incontro di lavoro, la narrazione si snoda frizzante attraverso una serie di errori imperdonabili, dal Campari scambiato per analcolico, al tavolo sbagliato , alla persona sbagliata. Ma alla facile ironia che sempre accompagna la commedia degli equivoci, qui si sostituisce una pietosa solidarietà per la protagonista, bella e brava, ma sfortunata e sottovalutata. E difficile oggi trovare un lavoro appagante e ben retribuito per chi è giovane e per di più donna!
Decisamente diversa è l’ambientazione e lo spaccato sociale che ci propone il racconto di Liliana Di Ponte. Qui la protagonista Giovanna affida a un suntuoso pranzo di compleanno una scelta importante: la conquista dell’autonomia dalla famiglia e dal marito. Sessanta anni dunque per lei rappresentano una svolta, una rottura con quella routine che, per tutta la vita, in nome del dovere, le ha imposto troppe rinunce. Ora o mai più è il momento di recuperare e Giovanna, quasi per indorare la pillola , da perfetta padrona di casa, quale è sempre stata, imbandisce un pranzo raffinato, durante il quale , su piatti d’argento e tovaglia ricamata, spara le sue sorprese: vacanze separate, un corso di fotografia a Londra, un corso di vela a Caprera, l’affitto della casa a Ventotene E a fine pasto la sua immediata, ma preparata partenza . Siamo veramente al caffè, verrebbe da dire! La descrizione minuziosa mette in evidenza il ceto sociale alto borghese di questa agiata famiglia: casa accogliente e ben arredata, abiti raffinati, biancheria e stoviglie di lusso. Perfino il menù, comprensivo dei vini pregiati è degno di un ristorante a cinque stelle da guida Michelin. Ma nonostante tutto questo ben di dio, Giovanna se ne va: la libertà non ha prezzo!
Sulla stessa lunghezza d’onda mi è sembrato il brano di Margherita Loy. Qui l’ambiente sociale, pur essendo sempre d’alto livello, presenta tuttavia caratteristiche diverse. Siamo letteralmente immersi nel mondo stravagante, multiculturale e poliglotta degli artisti intellettuali esponenti della borghesia europea. Ancora un compleanno il trentatreesimo del giovane pittore padrone di casa, un vecchio casale immerso nella campagna toscana: per festeggiarlo la sua donna organizza una festa, invitando a prendere il tè -una merenda molto british- le persone più disparate, dal suocero rigido esemplare della buona società tedesca a un variopinto campionario di amici e vicini di casa, anticonformisti e fuori dagli schemi, con qualche predisposizione agli eccessi alcoolici. Il racconto dunque sottolinea, attraverso un dialogo misto di linguaggi differenti la difficoltà di comunicazione tra soggetti così diversi e così tenacemente attaccati alla propria individualità. Di tale condizione sono vittime anche i due protagonisti, Michele ed Emma. Insicuri e fragili allo stesso modo, tanto nei confronti di un ospite ingombrante quanto del figlio che sta per nascere.
Di tutt’altro tenore è la cena di Natale che ci racconta Marisa Cecchetti: ci troviamo infatti all’interno di una casa come tante, in provincia , decorosa, ma senza sfarzo, dove il rito della Vigilia è diventato nel tempo una regola per una famiglia allargata. La padrona di casa infatti è solita accogliere a braccia aperte tutti quelli che passano a salutarla per farle gli auguri, i vicini di casa, gli amici, i lontani parenti. Ma quella cena davanti a un tavolo ornato di candeline natalizie, a cui si aggiunge un altro tavolino improvvisato alla buona, si porta dietro il ricordo di tanti Natali precedenti; così si rafforza il ricordo di chi non è più con noi, ma è rimasto dentro di noi; così si ravviva l’affetto per chi ha preso una strada diversa. E un sottile filo di malinconia si insinua nel bel mezzo della festa.
Chiude il cerchio, suggellandolo il brano di Alessandro Trasciatti, l’unico maschio che è anche l’editore del volume. A me sembra che solo in questo episodio il cibo non sia un pretesto: anzi se ne sta lì a occupare il suo spazio degnamente corposo nello stomaco e nella mente. Si tratta infatti di un vero e proprio attacco di bulimia notturna, tanto normale, per chi, forzatamente o per passione è abituato a tirar tardi. La classica spaghettata di mazzanotte e oltre, che ad Alessandro ricorda i lunghi turni alle Poste, quando era circondato da colleghi di lavoro più anziani e più attrezzati di lui, muniti di tegami, pentoloni e fiaschi di vino. Le conseguenze di tali bisbocce, da soli o in compagnia, sono sempre e comunque le stesse: sonnolenza, cerchio alla testa e peso allo stomaco, senza contare i centimetri in più che si accumulano sul giro vita. Ma che importa :” è la ciccia che mi piace” diceva il suo compagno Eugenio alle Poste!
Particolarmente curata la veste grafica che volutamente, credo, ha scelto il rosa per la copertina, a ribadire il carattere principalmente femminile dell’argomento trattato. Su di essa, come nell’interno, all’inizio di ogni racconto spiccano i disegni dell’amica Simonetta Melani, rigorosamente in bianco e nero. Con la loro sobrietà e la scelta del carattere in negativo sottolineano puntualmente e causticamente il contenuto delle storie, disvelandone proditoriamente il lato comico.
Borselli, Caminoli, Cecchetti, Di Ponte, Loy, Trasciatti, Parole apparecchiate, Tavole di Simonetta Melani, Trasciatti Editore, Euro 10,00 .
Nessun commento:
Posta un commento