Autodidatta di genio apprende da solo il greco, il latino e si impadronisce delle lingue straniere: il tedesco, il francese ed è tra i pochi in quegli anni ad avere consuetudine con l’inglese traducendo Byron e Sterne. Sue traduzioni appaiono in maniera anonima sull’“Indicatore livornese”, che aveva contribuito a fondare e che annoverava tra le sue firme anche i giovani Mazzini e Guerrazzi. Sorprende, però, il disincanto con cui il Bini riguarda all’esperienza di quelle pagine per cui elabora anche articoli di varia umanità che trattando di scienze, lettere e arti si adoperavano per infondere nella ‘meglio gioventù’ di allora amor di patria, di libertà, di riforme civili: “L’ Indicatore livornese” egli scrive ”è un povero foglio bianco, annerito da pochi giovani qua e là dispersi, i quali alla meglio si schermiscono, e cercano mantenergli la vita: ma poco è il numero, poco l’ingegno, poca la dottrina; hanno la buona volontà, ma questa così sola non è cibo che lusinghi il palato di molti. E qui cadrebbe in acconcio, che la crescente gioventù, animata di poetica ispirazione, adoprasse l’estro un po’ meglio, e desse spinta alla barca: altrimenti ho gran paura non si rimanga in secco”. Cosa che puntualmente avvenne nel 1833, quando la polizia granducale interruppe la breve esperienza del foglio labronico e Bini e Guerrazzi passarono tre mesi in prigione, dal settembre al dicembre, nel Forte della Stella a Portoferraio. Forse, più che l’attività giornalistica, agli organi preposti alla tranquillità politica del Granducato aveva dato fastidio l’intensa attività di propaganda e proselitismo che il Bini conduceva proprio dalla sua bottega e le sue frequentazioni con gli ambienti più umili della città, i giovani della plebe, gli operai del porto, i navicellai di cui spesso assumeva le abitudini poco formali e sregolate tra le bettole e le taverne dei quartieri poveri. La sua adesione a questo mondo plebeo e anche violento arrivò al punto che Carlo Bini compromise seriamente le sue già precarie condizioni di salute prendendo parte nel 1827 a una rissa furibonda che gli procurò gravi ferite.
Fu proprio un articolo del Bini che convinse la censura leopoldina a sopprimere la nuova rivista. Arrestato nel 1833 insieme a Guerrazzi, Carlo Guitera, il conte Alamanno degli Agostini e altri democratici toscani, perché sospettati di appartenere alla “Giovane Italia” e ai “Veri Italiani”, nei tre mesi di detenzione Bini compose tutte le sue opere principali: Manoscritto di un prigioniero, Il Forte della Stella e L'anniversario della nascita, scritti che rivelano una grande capacità stilistica e una notevole profondità di contenuto, sempre ravvivati da un sottile umorismo. Nei ventidue capitoli del Manoscritto, che è considerata la sua opera principale, vengono affrontati argomenti di vario genere: giustizia sociale, genio, sventura, noia, suicidio, sentimento religioso, materialismo filosofico, i rapporti tra scienza e fede, l'emancipazione della donna, il diritto alla libertà nell'amore contro il contratto nuziale stabilito in perpetuo: gli influssi sansimoniani sono evidenti.
Alcuni critici hanno notato che nel Bini, malgrado l'indiscutibile matrice mazziniana, è evidente, rispetto al Guerrazzi, una maggiore sensibilità per i problemi sociali della gente al punto che egli può essere considerato un precursore di Carlo Pisacane e degli emergenti princìpi socialisti. Sul giovane letterato livornese così si espresse Giuseppe Mazzini, che lo conobbe a Livorno nel 1829 e che, dopo la sua prematura scomparsa avvenuta nel novembre 1842 a Carrara, fu curatore e prefatore dei suoi scritti: “Anima buona e candida, serbatasi incontaminata a traverso a una gioventù passata trai rozzi e rissosi popolani della Venezia, ingegno potente, ma che imprigionato fra le cure mercantili, e fatto indolente da un profondo scetticismo non di principj, ma degli uomini, e delle cose d’allora, non poté rivelarsi che a lampi. Una immensa rettitudine d’animo e una immensa capacità di sacrificio tanto più meritevole, quanto meno ei credea nel successo, erano doti immedesimate con lui. Ei rideva con me delle formalità e del simbolismo dei Carbonari, ma credeva, com’io credeva, nell’importanza d’ordinarci, sotto qualunque forma si fosse, all’azione”. Le sue pagine, sebbene frammentarie e per tanti aspetti ancora ‘in bozza’, colpirono anche uno dei massimi letterati pre-quarantotteschi italiani, Giuseppe Giusti: “Il Bini aveva molto ingegno, molto acume, molta lettura; aveva quella quieta malinconia che fa vedere le cose per un lato che molti non vedono, e che invece di maledire si contenta di piangere…”
Ai già ricordati lavori di Carlo Bini si aggiunga, oltre a una dolente Lettera al Padre, anche un epistolario amoroso giudicato dalla critica inferiore solo a quello del Foscolo: nelle 78 Lettere all'Adele, raccolte con molta difficoltà e pubblicate solo nella prima metà del secolo scorso, si raccontano “gli sfoghi, le gelosie, gli scoramenti della relazione intrattenuta per pochi mesi tra il 1837 e il 1838 con Adele Perfetti De Witt, una ricca signora dell’alta borghesia livornese, adultera guardinga e tiepida amante, prematuramente deceduta il 9 dicembre 1838… Stupisce non poco sorprendere l’umorista autoironico del Manoscritto e l’austero estensore della lettera al padre del 28 luglio 1836 nella posa incantata dell’innamorato acceso e implorante, intento ad autoglorificare gli atletici palpiti del ‘cuore’ con il soccorso di una prosa un po’ invereconda esposta ai tipici peccati dell’incontinenza cardiopatica” (Tellini). D’altra siamo nel pieno dell’età romantica e il Bini ne è tutto intriso: “Il mio carattere è forte, severo, passionato, disprezza le forme esterne delle cose, attende solo allo spirito; non si contenta che del vero, e aborre mortalmente la civetteria d’ogni specie. Il mio carattere è al tempo stesso cavalleresco; la donna non ha nulla a temere da me; il culto della donna è per me santo, solenne; e quando io non potessi più amarla, né stimarla, saprei pur sempre compatirla sinceramente”.
Democratico e romantico, materialista e pessimista, scrittore antiletterario per scelta e vocazione, Carlo Bini, anche in tempi di anniversari e manifestazioni, continua a essere trascurato e ignoto ai più: sembra quasi che il destino di isolamento ed emarginazione che gli era toccato in sorte nel corso della sua breve esistenza si prolunghi negli anni, da un secolo all’altro, indipendentemente dai meriti che la critica letteraria più aggiornata è ormai disposta unanimemente ad attribuirgli. Eppure, non sarebbe male leggerlo o tornare a leggerlo: in tempi, come i nostri, di così evidente catastrofe etica e culturale se ne potrebbero ricavare utili e impensate lezioni di coerenza intellettuale, di rigore morale, di ‘ragionevole passione’politica.
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