06 maggio 2014

“Scenografi e scenografia” di Sara Martin




di Mimmo Mastrangelo

 Uno dei mestieri più affascinanti e importanti  nel cinema è senza alcun dubbio quello dello scenografo al quale spetta il compito di individuare e creare il giusto adattamento ambientale ed atmosferico dell’opera.

Lo scenografo è quello che inventa la sostanza plastica ed architettonica di un film, contribuisce “al risultato estetico, traduce visivamente il tono dell’opera, connota il genere o lo stile e intrattiene uno stretto legame con gli altri elementi della rappresentazione”, il suo lavoro serve, insomma, a costruire i personaggi  e l’azione che li lega.

Come dimostra  Sara Martin nel suo volumetto “Scenografia e scenografi” (Il Castoro Editore) il cinema italiano è stato una grandissima scuola di architetti dell’ambientazione, si pensi ad Alfredo Manzi (“Assunta Spina”), Italo Tomassi che ha lavorato in più trecentocinquanta produzioni (sua è la ricostruzione del Colosseo in “Roma” di Fellini   e la sagoma del transatlantico in “Amarcord”, altro capolavoro felliniano), Virgino Marchi ( “La macchina ammazza cattivi”, “Europa 51” ), Gianni Polidori, Piero Gherardi, Mario Garbuglia, Giulio Bongini, Carlo Simi (inventore degli immaginari degli spaghetti western) Enrico Job, Lino Fiorito, l’hollywoodiano Ferdinando Scarfiotti e, naturalmente, il maestro-dei-maestri Dante Ferretti, celebratissimo in tutto il mondo per il suo genio creativo attento, soprattutto, ad esaltare i  dettagli di un interno o un esterno.

E’ interessante  il libro della Martin, in quanto  permette di sfogliare velocemente pezzi di storia del  cinema, seguendo il lavoro  degli scenografi che oggi,  sempre più, si appoggia alla tecnologia digitale. Ma,  sicuramente, le  pagine che  più appassionano sono quelle in cui vengono esaminati scenograficamente i film  “Cabiria” (1914) di Giovanni Pastrone, “Germania anno zero” (1948) di Roberto Rossellini, il peplum “Ulisse” (1954) di Mario Camerini, “La dolce vita (1960) di Fellini, “Il gattopardo” (1963), ma ancora più avvincente è la lettura  in parallelo dal lato scenografico di due capolavori del cinema italiano, entrambi girati cinquant’anni fa: “Il deserto rosso”  di Michelangelo Antonioni e il pasoliniano  “Il vangelo secondo Matteo”.

Nel primo film lo scenografo Piero Poletti  esplora “soluzioni inedite e sperimentali” e, in particolare, punta ad una manipolazione del colore e degli esterni tale da rendere  visibile  una certa “volontà di interiorizzare lo spazio”. Nel “Vangelo” Luigi Scaccianoce e Dante Ferretti, nell’assecondare la volontà di Pasolini, costruiscono le scene per intercettare riferimenti cinematografici (Dreyer, Mizoguchi, Godard) ed evocare  temi pittorici e musicali a tutti i livelli: si pensi da una parte a  Piero della Francesca, Masaccio, Giotto e dall’altra a Bach, Weber,  Mozart, alla messa Massonica.

Nel Vangelo  “il potenziale  dello spazio è rappresentato  dalla contaminazione magmatica tra la sacralità dell’oggetto narrato e la quotidianità dei luoghi resi sacri  dell’autore. I collaboratori di Pasolini manipolano lo spazio , l’ambiente, il colore in funzione dei personaggi,  potenziati ed addirittura sacralizzati dello spazio in cui si muovono .

Scrive ancora  Sara Martin: “Pasolini si allontana dalla rappresentazione canonica del Vangelo e si serve di spazi architettonici (i Sassi di Matera) che hanno un’eccedenza di significato autonomo rispetto  all’universo narrativo  che l’autore intende  rappresentare. I Sassi sono riconoscibili e mantengono residui di significati propri,  nel caso del Vangelo , non solo costituiscono un’eccedenza ingombrante in senso negativo , ma al contrario  producono un arricchimento reciproco tra il film  e l’oggetto architettonico , coinvolgendo la forma  e il senso di entrambi”.

Sara Martin. “Scenografi e scenografia”. Il Castoro. Pag.155 Euro 15,50.



                                   

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