22 gennaio 2015

“I mobili” di Angelica D’agliano





foto Gianni Quilici

E quando sono entrata in un negozio di mobili ho visto prima di tutto il continuo di un grande discorso tra molti professionisti, andato avanti per molto tempo. Idee sagomate nel metallo, nelle resine, nel legno impiallacciato, nelle paste sintetiche, nei tessuti industriali. E tutte parlavano, avevano un programma molto chiaro di "funzione ", di cosa è consentito e cosa no, un'opinione arguta e severa circa la scansione dello spazio. E sopra ancora al piacere dell'oggetto e a ciò che è consentito dalle necessità c'era la congettura orgogliosa (superiore? laterale ? posteriore?) di un marchio e il piacere , questo l'avevo compreso, o l'aspettativa di piacere di riconoscere e riconoscersi in quell'interpretazione particolare di tempo e di spazio, forse anche un po' l'ignorare fiduciosamente le strade attraverso le quali un disegno - di credenza, di libreria, di armadio - un disegno a predizione del futuro e del presente fosse divenuto un oggetto concreto.

Ma a me piacciono gli imprevisti. Mi piace toccare un pezzo di legno e sentirlo ispido. Toh, potrei abituarlo a me. Potrei provare con la carta , potrei metterlo su un paio di caprette. E poi potremmo mangiare insieme, io e il mio pezzo di legno. Potrebbe aiutarmi a sostenere un piatto , il fresco della tovaglia e forse una pianta ancora timida per un vaso più grande. E poi potrei cogliere della ceramica e disegnare fiori e uccelli, e incollarla sopra un lavabo di pietra.

Mi piace che di un mobile possa dire: le vedi quelle cicatrici, le ha fatte un cucciolo che era piccolo e brutto. Poi è diventato un lupo, è stato con me tanti anni e quando è morto gli toccavo la testa. Lo vedi quel piatto? Ci do da bere alle farfalle. È scheggiato così ci posso appoggiare un bastoncino e loro non annegano. E a quel punto se posso faccio una barchetta di carta e la regalo chi mi ascolta. La volta più bella fu quando una persona cara la prese e andammo insieme a vedere il mare.    

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