L’infinito sulla costa
la sostanza
lirica della poesia
di Paolo Bertolani
“Sedetti e vidi le navi
scivolare
sul
luminoso e vastissimo mare,
come carrozze dello
spirito, alate,
sopra
più sereni elementi iniziate”
Shelley
“Come
una musicale frana
divalla il suono, s’allontana.
Con
questo si disperdono le accolte
voci dalle volute
aride
dei crepacci;
il gemito delle pendìe,
là
tra le vite che i lacci
delle radici stringono.”
Montale
Una
volta, io lo so,
qui c’è stata la gioia.
L’aria
ne trema ancora.
Ancora non si è spento lo stupore
della valle
a vedersela un giorno andar via
Roberto Pazzi
I. Presenze, voci e palinsesti:
Bertolani e le figure della tradizione lirica italiana
Chiunque decida di intraprendere un viaggio
sul terreno misterioso e insondabile della creatività artistica - a prescindere
dalla forma espressiva (pittura, musica, parola, cinema) - il dialogo con le
voci e le opere del passato diviene un fatale ‘contrappasso’, un confronto
dialettico in perpetuo bilico tra positività e negatività; tra edonismo e
masochismo, risarcimento e frustrazione; tra registri di temperamento diversi,
per gusto individuale e fondale storico. Eliot descriveva questo processo come il rapporto tra talento
individuale e tradizione. Nel caso specifico del poeta, l’atto di voltarsi
indietro, verso gli snodi capitali della tradizione poetica, si fa emblema
stesso di una civiltà intesa,
metaforicamente, quale ‘coro’ di voci inanellate, intreccio di presenze fuse le
une nelle altre.
Di
questo complesso statuto della poesia, Paolo Bertolani, come altre potenti voci
liriche del regionalismo italiano, ha vissuto gli effetti sia su larga scala (subendo l’ombra lunga di autori egemoni
e canonizzati come Montale, Ungaretti e Saba, e, in seguito, l’ondata della
generazione postmontaliana di Caproni, Zanzotto, Sereni, Bertolucci, i primi
che capirono la grandezza del loro collega appartato), che su scala ridotta:
dalla cattiva lettura che della sua poesia fecero i conterranei, facili alla
mescolanza dell’uomo con il poeta, dell’io empirico -.biografico con l’io
lirico-trascendentale (che Proust, in una celebre affermazione, ci invita a
tenere distinti), fino alla miopia degli studiosi locali, che, dal canto loro,
decisero di non accogliere Bertolani nella rosa aurea della letteratura ligure,
almeno fino all’oggi.
Uno
dei luoghi comuni più resistenti intorno alla poesia di Bertolani è l’etichetta
di scrittore istintivo, naif. La sua
origine provinciale, l’infanzia e la giovinezza trascorse nell’aria stagnante
del paese, la sua tumultuosa cultura di autodidatta, l’estrazione familiare
chiusa in una dimensione di rurale arcaicità, i luoghi stessi della sua poesia,
come delle sue pagine narrative legate a figure e situazioni di un confine tra
campagnolo e suburbano, hanno accreditato l’idea di un autore ‘ingenuo’ che
giunge per forza d’istinto e senza mediazioni a riversare sulla pagina scritta
i grumi, gli umori e le angosce dell’esperienza biografica. Una simile tesi
presuppone in origine uno scambio acritico tra il temperamento dell’uomo e il
significato della sua opera, con l’avallo del resto di una fama locale che si è
subito mossa per creare intorno a Bertolani il mito del poeta istintivo, che ‘scrive come sente’. Oggi, che
di Bertolani sopravvive l’abbondante vena delle raccolte in versi e in prosa,
le spigolature aneddotiche e le ‘occasioni’ biografiche sono state finalmente
abbandonate, superando certa immagine di maniera, ora agiografica ora
folkloristica, di outsider paesano.
Così, alle confezionate micro-schede delle antologie di glorie locali siamo
passati alle analisi critiche e sistematiche provenienti dal milieu accademico.
Eppure quel
luogo comune che discende da una sospetta equazione tra la biografia e l’opera,
contiene un aspetto positivo, se corretto con strumenti di analisi metodologica
che sollevino la mera scoria autobiografica a livello di elaborazione
artistica. Con ciò intendo dire che della vita vissuta di un autore filtrano
nell'opera quegli eventi e quegli istanti privilegiati portatori di verità
conoscitiva. A noi interessa il passo successivo: la messa in opera di questo
‘materiale’; il suo trasferimento dall’informe della vita alla perfezione
dell’organismo formale. Ci interessa la particolare angolatura di
trasformazione stilistica del dato reale di partenza, i modi e il significato
del suo trapasso entro le maglie della macchina artistica.
È da questo
punto di avvio che la poesia di Bertolani – come quella di qualsiasi altro
poeta che scrive con continuità, forte di un’acquisita identità d’artista e
cosciente di aprire una personale direzione di scavo e di ricerca – oltrepassa
lo spazio autobiografico per creare una rete sottile di interferenze, di
prestiti, di interscambi, di palinsesti che innervano di linfe sempre nuove il
suo laboratorio di poeta. È a quest’altezza che entra in gioco la presenza forte
della tradizione lirica italiana. Basterebbe un diagramma delle fonti e dei
modelli della poesia di Bertolani per sollevarlo definitivamente dall’etichetta
di autore naif. Nell’intero arco
della sua ricerca letteraria, la tradizione è costante presenza: esplicita
nelle dediche poste in limine ai
componimenti, o abilmente metabolizzata nelle trame del proprio testo.
Bertolani
sapeva bene che il dialogo con le voci della tradizione lirica non doveva
essere ‘imitativo’, né poteva trasformarsi in un ampio serbatoio da cui
liberamente attingere. Ma da artista di talento aveva capito che la tradizione
non va intesa come un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare; chi
vuole impossessarsene, chi vuole interiorizzare le molteplici ‘lezioni’ dei
maestri, deve attraversare un apprendistato di grande fatica.
Se apriamo una
delle più belle raccolte in lingua di Paolo Bertolani, Piccolo cabotaggio(2004), l’immagine della ‘navigazione’ non si fa
solo emblema di un incessante cercare, quanto di un attraversamento delle letture e dei classici di cui sono intrise le
ore e i giorni di una vita di meditazione. Quale luogo occupano, dunque, i nomi
della tradizione letteraria nella poesia di Bertolani? Abitano il luogo sacro
per eccellenza del testo: la ‘soglia’,
con tutte le sue valenze simboliche: ‘piccolo
congedo’ trova la sua molla
ispirativa ‘leggendo Proust’, e
dall’autore della Recherche il poeta
si stacca per svolgere una intensa riflessione lirica sulla polarità
amore/dolore, sull’amore che, immerso nelle categorie di spazio e tempo, si
trasforma, muta, si colora di tristezza e dolore, e, improvviso, sa mostrare
all’interiorità la sostanza del vivere attraverso quel meraviglioso strumento
conoscitivo che è il corpo, o meglio i sensi, aperte bocche sul mondo (“se amando è per sempre assicurato/ uno spazio al dolore/…se è vero che l’amore/ è
spazio e tempo resi sensibili al cuore”).
Nel cuore
della raccolta si apre un’intera sezione sotto il segno del resistente modello
dannunziano: (d’annunzianine) è il
titolo complessivo di un vero e proprio ‘ciclo’ di sei testi nei quali l’io
lirico si rivolge ad un ‘tu’ femminile assente, lo richiama dal di dentro,
dalle stanze della memoria, e assieme a lei costruisce un itinerario lungo cui
il soggetto che ama e il fantasma amato toccano la sostanza della vitalità e
della gioia indolente della giovinezza trascorsa (“dicevo/a te ridente scomposta/nei tuoi vent’anni/ nei tuoi occhi nella
tua bocca infiniti”); il seducente erotismo velato di metafore (“mentre il ricordo di occhi/ voce mani
dell’angolo più/ tenero tra l’inguine e quella/ specie di rondine giù/ mi
trapassa a freccia la gola?”); l’annullamento di sé nell’altro (“per sempre/ sparire dal fondo del tuo
orecchio diligente/ o volgere altrove la voce o soltanto inseguire/ una sola
carezza”); la simbiosi assoluta e
totalizzante nel segno della ‘coppia’, nel cui gioco due vite si mescolano
seppur disgiunte, e, a distanza di anni, si scoprono ancora intrecciate a nodi
affettivi indissolubili, come nella quarta poesia, dove l’io lirico ritorna a
un presente di solitudine, un tempo in cui la presenza fantasmatica della donna
è tassello dell’interiorità:
tu venga o no
di ricomporre un numero,
verrai
dentro di me comunque sempre
perché nulla
di te in me si smembri
e non incappi
in secche irremovibile
la vita
Nel ciclo si
trova poi un testo particolarmente felice nel riecheggiamento di un modello
illustre come Montale, una figura di maestro che permea di sé la storia e la
ricerca poetica di Bertolani fin dai suoi esordi (montaliano è infatti il
titolo di gruppo di versi appartenente alla aurorale produzione del poeta, Vecchi versi, del 1950, conglobati poi
nella leggera architettura della raccolta d’esordio Le trombe di carta del 1960). Leggiamolo per intero:
già caduta la sera
il sogno che
avevamo,
il barlume che
a stento si fa strada
nella crescente foschia
si
direbbe da un’isola lontana: Capraia
o Gorgona
o l’Elba,
all’occhio più lunga da qui,
più distesa. O da che sperso faro?
Nell’estesa solitudine
al buio nel silenzio ormai stabiliti
sentirmi chiamare – voce felpata dal cuore
del freddo, della neve
Chi conosca da
studioso, o chi almeno da lettore trattenga qualcosa della musicalità dei versi
montaliani, ritrova in questo testo di Bertolani una raffinata simmetria con alcune
figurazioni del Montale degli Ossi di
seppia, e in parte delle Occasioni (soprattutto
nella presenza del ‘barlume’ come istante conoscitivo privilegiato). Prendiamo,
per un rapido confronto, un testo come Casa
sul mare, in cui Montale vagheggia il ritorno alla casa dell’infanzia a
Monterosso: dopo aver chiamato ‘viaggio’ questo cammino dell’esistenza che
ritorna ai luoghi topici e alle radici del proprio vissuto, dopo aver
ricomposto le tessere del quadro d’origine, con il ruotare monotono della pompa,
i moti del mare ‘assidui e lenti’, le striature violacee e caliginose dei
‘pigri fumi’, troviamo uno slargo paesaggistico fra i più belli della
letteratura ligure:
ed è raro che appaia
nella
bonaccia muta,
tra l’isole
dall’aria migrabonde
la Corsica
dorsuta o la Capraia.
Tralasciando
il genio linguistico montaliano, versato nel conio di neologismi almeno quanto
Dante (bastino, nel giro di questa strofe, lemmi come: ‘migrabonde’ in luogo dell’oscillazione apparente delle isole
nell’aria e ‘dorsuta’, per la
singolare postura aggobbita della Corsica), il recupero discreto di Bertolani è
solo apparentemente ‘mimetico’: nel suo testo, intonato sulle corde di dialogo
dell’io con il suo fantasma muliebre, il paesaggio della costa si stempera nei
fumi azzurri dell’orizzonte; affiorano isole ‘nella crescente foschia’ e
l’occhio tenta di indovinarne il nome. Così, la Capraia e la Gorgona non rimangono
decorazioni sulla superficie di linee e colori; ma da entità puramente iconiche
o da semplici elementi dea scenario del ricordo, esse innescano la struggente
fantasticheria nel declinare di un giorno che si fa sera; nostalgia del ‘sogno
che avevamo’ diventato ora ‘barlume che a stento si fa strada’, in una
ragnatela di nebbia che crea ingannevoli suggestioni, in mezzo alle quali solo
lo ‘sperso faro’ è presenza animata da interrogativi simili a intermittenti
bagliori. Bertolani richiama Montale, accoglie immagini degli Ossi di seppia, ma non li ricicla, non
ne mima la scabra musicalità; egli si pone dinanzi allo stesso soggetto per
investirlo della sua ‘visione’, per ricrearlo secondo il suo stile e il suo vocabolario espressivo.
In Piccolo cabotaggio le voci e i
palinsesti della tradizione lirica italiana proseguono e via via si
infittiscono: troviamo, a mo’ d’epigrafe, un verso del Purgatorio di Dante che
fissa ‘Lerice e Turbia’ come ‘diserta, rotta
ruina’ e il controcanto di Bertolani che sposta l’aspra immagine dantesca
alla ‘piana del Magra, prima del mare’, osservata dal ‘belvedere’ (uno dei
luoghi topici dell’ispirazione bertolaniana); un verso di una lirica di Goethe
sulla visione di una rosa; e un testo complesso e ricco di risonanze, dal
titolo (leopardiana), in cui del
poeta recantese Bertolani schizza una
sintesi magistrale di motivi, quasi arrivando ad una forma di identificazione
del suo spazio ligure con quello del ‘selvaggio borgo natio’: coglie la vita
che scorre in ‘una quiete antica’, immersa
in un ‘silenzio’ che rivela aspetti
nuovi del ritmo quotidiano, della natura carpita dal ‘davanzale’, dell’ ‘esercito
mite degli uccelli’ ; sente come il ‘dolore’
s’allarga nell’aria immobile; come nella notte ‘sfioriscono i profili/ delle cose’
e rimane un ‘usignolo,/ là nella macchia’ e la realtà è pronta a ‘denudarsi/ per l’ultima verità’.
Un ultimo
riferimento ai modelli illustri, richiamati nella raccolta, ci proviene da un
amico di Bertolani, un autore della levatura di Vittorio Sereni, che usava
passare le sue estati di vacanza a Bocca di Magra. A lui - che fu tra i primi a
riconoscere l’originalità di timbro e la portata della poesia di Bertolani –
sono dedicati due testi di Piccolo
cabotaggio, sui quali tornerò in seguito, trattando della ‘geografia’,
fisica e spirituale, dell’universo poetico bertolaniano.
La presenza
delle voci della grande lirica italiana, da Dante ai contemporanei, si
accompagna alle presenze dei modelli europei, che non potevano mancare nel
gusto di un lettore d’eccezione, colto e sensibile, come Bertolani – lo abbiamo
visto nella sostanza viva dei suoi testi – ha saputo essere.
Con molti poeti, scrittori, filosofi del
passato mi sarebbe piaciuto conversare, sedere dimenticando il cadere
silenzioso del tempo, fra le pareti di una stanza ovattata contro i rumori
del mondo, come quella impenetrabile di
Proust e quella ‘tutta per sé’ di Virginia Woolf. Lasciare che lo spazio sia
invaso dalla conversazione come da un’onda musicale, dalla quale suoni diversi
si stacchino come foglie d’oro. E in questa deliziosa scia d’oppio cogliere un
pensiero, afferrare un‘immagine, accompagnarla all’infinito, variarla su mille
flauti, scoprire pensieri che non sapevamo di nascondere, portarli alla luce da
gorghi felici di idee e fonderli con le parole dell’altro. La bellezza della
conversazione è questa sua inarrestabile fluidità e mutevolezza: le parole sono
mobili, leggere, passano e corrono via, procedono, si spostano nell’aria, si
trasformano nell’ebbrezza dialogica come il piombo in oro nelle fiale
dell’alchimista. E il gioco non finisce mai. Non finisce mai il piacere di
modellare le parole con la bocca e le mani, di gettarle in aria, di farle
scomparire dietro le tende, poi di riprenderle a volo e di tutto non conservare
nulla, possedere l’arte folle dell’improvvisazione e lasciare che la
conversazione si accenda per una somma di brillii, di scintille di fuoco, di
rapide intuizioni subito dimenticate; che cresca sulla capacità dei caratteri
di disegnarsi nel loro contrasto, nella loro voce variegata e contraddittoria,
nella loro versatilità di pettegoli come nella loro sottigliezza psicologica.
Così, dalle
mie prime letture ‘con coscienza’ fino ad oggi – oggi, che Bertolani per un
soffio se ne andato - la sensazione di nostalgia, di assenza-presenza, di impasse anagrafica mi accompagna e
impedisce quel ‘sogno di conversazione’, pura e disinteressata, che avrebbe
potuto essere e non sarà mai. Averlo conosciuto attraverso quel medium magico che è la parola
letteraria; averlo letto in tutte le sue sfumature di lirico vero, averne
condiviso la visione intensa e cristallina del mondo; aver imparato a guardare
il paesaggio con occhio ‘estetico’ sensibile a istanti epifanici, attenti a
rubare nel brivido di un’alga insinuata dalla corrente o in uno stelo incurvo
dal vento il massimo del soffio poetico, tutto questo è bastato ad insinuare in
me il desiderio di parlare con lui, di passeggiare una volta su sentieri ricchi
di sole e ulivi, di cogliere in una donna che passa una creatura d’aria e di
luce. Di questo ‘tempo perduto’ non rimane che un amaro rimpianto, solo in
parte lenito dalla scoperta dei suoi autori preferiti, scoprendo nel privato
pantheon di Bertolani affinità elettive sorprendenti. Di che cosa avremo
parlato se ci fossimo incontrati? Forse dei 'classici' che ci univano senza
saperlo. Della guerra descritta da Tolstoj, degli scintillanti occhi grigi di
Anna Karenina; del mistero sacro che Dostoevskij ha chiuso nel principe Miskin;
dell’erotismo esasperato e seducente di Emma Bovary; del mondo assurdo di Kafka
e del suo romanzo America; dell’ “imprescindibile” Leopardi; del suo
amato Faulkner e della sua abilità di “creatore di atmosfere”; dei saggi di Poe
sulla poesia, dell’esotismo avventuroso di Salgari, degli oscuri Sonetti a Orfeo di Rilke, ricreati nella geniale traduzione di Pintor; di
Dante, di Porta, del microcosmo affettivo di Pascoli; del verso materico di
Baudelaire e del misterioso silenzio creativo di Rimbaud; dell’America reale di
Whitman e di quella immaginaria di Pavese; della poesia metafisica di Eliot e
Montale, dei soggiorni liguri di Pound; dei narratori che amiamo: Verga,
Fenoglio, Gadda, e gli avrei chiesto di parlarmi di prestigiosi interlocutori
come Vittorio Sereni, Franco Fortini, Attilio Bertolucci, Mario Soldati.
Ciò che rimane
della nostra conversazione irreale sono i suoi testi, le sue raccolte, il
lavoro creativo di tutta una vita di fedeltà all’arte: leggerle
ininterrottamente, lasciando riposare i suoni e i sapori sul fondo dell’anima,
contaminarle con altre voci, confrontarle, mandarle a memoria, gettarle in
faccia ai baratri strapiombanti di Punta Corvo o lasciarle scivolare nel grembo
materno di Lerici e Bocca di Magra, o affidarle alle linee sinuose e musicali
delle colline azzurre del Golfo spezzino, nasconderle dietro le isole, dove
cielo e terra si sciolgono in un abbraccio di lontananze ignote. In questa
‘corrispondenza di amorosi sensi’ che fatalmente si crea fra i suoi testi e i
suoi lettori; in questa vena discreta e malinconica, lieve come le liriche
giapponesi percorse da vibrazioni contemplative e gioiose delle ‘trombe di
carta’, solo qui si apre la soglia per la comprensione dell’essenza lirica di
Paolo Bertolani.
II. L’itinerario creativo di Paolo Bartolani: il ‘bilinguismo’ come voce
dell’anima e cifra stilistica
1. La rilettura consapevole dei modelli della
tradizione europea e italiana, la presenza e la trasfigurazione della figura
femminile nella sua condizione di ispiratrice assente, l’esplorazione delle
pieghe nascoste dell’interiorità, l’alta qualità percettiva della visione
paesaggistica; il carattere intimo, l’essenza del silenzio, l’intrinseca
malinconia delle nature creative, la freschezza del timbro, la felicità
analogica e la costante ricerca stilistica sono tutti elementi che fanno di
Paolo Bertolani un ‘lirico’ di razza, ossia un’ indole predisposta a sentire e
intuire la bellezza del mondo e della vita.
Perché parlo
di ‘lirica’ e di ‘lirico’ e non utilizzo una tavolozza più varia e sfumata di
termini? Perché ‘lirica’ risponde a un modo molto preciso di far poesia e di
essere poeta. Non è solo una linea costante della storia della poesia italiana,
che fa capo agli stilnovisti, a Petrarca, a Tasso, a Foscolo e Leopardi, a
Pascoli e D’Annunzio, ma è una forma poetica che porta in sé tratti specifici
di Dna. Che cos’è la lirica? A questa difficilissima domanda ha risposto
Montale con un’immagine degna del suo genio:
“Che cos’è una poesia lirica? Per mio conto non
saprei
definire quest’araba fenice, questo mostro,
quest’oggetto determinatissimo, concreto
eppure
impalpabile
perché fatto di parole, questa strana
convivenza
della musica e della metafisica, del
ragionamento
e dello sragionamento, del sogno e
della veglia.”
La lirica è
un’araba fenice, un mostro, un oggetto a un tempo definito e indefinito,
palpabile e impalpabile, fisico e metafisico, uno canto che non si sa se
origini dalla veglia o dal sonno. La nostra tradizione poetica si regge su
questo grande dilemma. La lirica è la forma poetica che sceglie di dar corpo a
fantasmi, a proiezioni e desideri, ad angosce, a rovelli metafisici come
l’origine della vita e della morte, si nutre di malinconia, canta la donna e
con essa le mille forme dell’amore, l’ebbrezza della carne sfiorata da un bacio
come l’assoluta purezza della fedeltà. La lirica apre alla dimensione
dell’interiorità, dell’astratto, del sentimento intimo che deve portare al
discorso psicologico, introspettivo; mette in moto i meccanismi segreti della
memoria, della rievocazioni in cui l’esperienza dell’io trova un baricentro e
un senso. La lirica, nella sua accezione moderna, è la scoperta dell’uomo della
ricchezza inesauribile “chiusa nel suo interno in una totalità autonoma di sentimenti
e rappresentazioni”, scrisse Hegel. Ma non solo: lirica è anche poesia che
mette l’io di fronte al mondo e problematizza questo rapporto, lo innerva di
stimoli infiniti, di realismo e visionarietà a un tempo.
Di tutto
questo che cosa troviamo nella poesia di Paolo Bertolani? In quale genere
poetico della tradizione dobbiamo collocarlo? Qual è la cifra originaria della
sua ispirazione? Perché ci sentiamo portati fatalmente a chiamarlo ‘lirico’?
Senza che lo vogliamo, silenziosamente scivoliamo nel ginepraio d’interrogativi
addensati sul fondo di una raccolta di versi; è nella natura stessa
dell’espressione poetica, nel suo lievito misterioso, impastato di immagini, di
metafore, di suoni, di parole investite di molteplici significati, sovente
intelligibili e oscuri, a condurre nelle maglie di un lavorìo ermeneutico
infinito.
Quali domande
possiamo ancora rivolgere al nostra senso critico, per avvicinarci al fuoco
creativo di Bertolani? Un poeta insegna a guardare con occhi nuovi il mondo; ci
prende per mano e ci insegna a leggere la realtà secondo l’intelligenza del
cuore, a provare nuove chiavi conoscitive, a scendere in lati nascosti della
nostra psiche, a giocare con le infinite possibilità combinatorie del
linguaggio. Leggere non è un delizioso passatempo, ma un atto intellettuale e
conoscitivo, dove l’acquisizione impara la vera profondità di pensiero, l’arte
della speculazione. E in questo processo diventare lettori di poesia equivale a
dotarsi di una sensibilità quasi rabdomantica. È questa la condizione
singolare, l’atmosfera mentale che crea in noi il dettato poetico di Bertolani.
Conosco solo per via libresca e bibliografica
il 'romanzo di formazione’ di Paolo Bertolani, i libri ‘letterari’e quegli
autori prediletti che tracciano le linee sotterranee della sua storia
intellettuale e un suo canone personale; altre informazioni le ho desunte da
spie interne ai testi, come la presenza di lacerti della poesia lirica
tradizionale, le dichiarazioni di poetica, la scelta lessicale, la costruzione
dei versi e le scelte formali. Non so come sia arrivato alla scelta di essere
poeta, quali fattori lo abbiamo spinto in questa direzione; ma esiste l’ ‘atto
di nascita’ ufficiale, la data simbolica del suo ingresso nel mondo della
poesia: il 1960. A
questa data risale il suo primo libro di poesie, Le trombe di carta, ormai quasi introvabile.
In questo
libro snello, impalpabile, aereo, si condensano, allo stato embrionale, i
principali nuclei poetici e ispirativi della futura quete artistica di Bertolani. Dentro questa primigenia fucina -
dove gli elementi della sensibilità, i
grumi del vissuto, le tappe di senso dell’esperienza, sono accarezzati – troviamo i tentativi, direi l’apprendistato del poeta da giovane. Accanto ai contenuti
futuri, quello che più colpisce di questa fase aurorale è lo stile cercato,
voluto fortemente per veicolare una specifica ‘visione del mondo’. Uno stile
all’insegna della sottrazione, dell’essenzialità del dictum, di una brevitas
intrinseca all’espressione lirica. Leggiamo uno dei testi della raccolta, Il resto è silenzio:
Si vive tra lame sottili di allegria
per attese di niente. Il resto
è grigiore che tedia più che non rattristi.
In una brevità
che concentra l’alta tensione dell’epigramma, il primo Bertolani trova lo stile
capace di ri-creare la sua lettura della realtà, il suo senso d’esistere: il
metro libero, (pur in presenza di versi tradizionali e canonici tra cui spicca
l’endecasillabo), l’assenza della rima, (pur con giochi di rime interne e al
mezzo, consonanze e assonanze, allitterazioni, etc.), la politezza formale
delle immagini. È qui che il poeta trova la sua cifra fondamentale: una poesia
rarefatta, altamente intertestuale, intrisa di discrezione, di urbanitas, modestia e riserbo. Qualità
che, nella sua ricerca artistica durante gli anni successivi, verrà coltivata e
assecondata come un lievito fecondo di ispirazioni. Una poesia in cui è
evidente la presenza del gran ligure, Montale, il cui influsso profondo e
durevole, quanto a contenuti, sostanza, visione e sentimento della realtà,
animerà con vigore l’intera produzione del poeta della Serra, che, tuttavia,
nel sua fare poetico, innervati in
seguito di un tono di indignazione morale e di impegno civile (ancora molto
velato nella prima raccolta), riesce, a partire da questa raccolta, a operare
il distacco dal modello e, via via, a definire una sua precisa, individuale
vena poetica con cadenze trobadoriche e contenuti unici e serresi.
Qual è la
materia che fermenta in questa prima prova poetica di Bertolani? Una materia
fatta di esistenza, di cose, di voci, di verità affidate a una voce lirica e illuminate dalla sua
particolare luce. Ne Le trombe di carta
troviamo gli squarci e i bagliori della futura alta poesia che vi si rivelano
fin dalla prima, fugace lettura; gli slarghi paesistici; il rapporto viscerale
con la natura; i gorghi cromatici della terra e del mare; le prospettive a volo
d’uccello del ‘belvedere’, sospese in un clima di musica soavissima e
struggente; le invocazioni di un disperato sapore umano a un ‘tu’ femminile
lontano, vivo nella trasfigurazione della memoria; la parola con quel timbro di
melodia estatica, con quel suo sentore lievemente malinconico. È in questo
intrecciarsi di elementi originari la quintessenza della lirica di Paolo
Bertolani, così ben fissata nell’emblema iconico della ‘tromba di carta’, “già
consapevole – scrive Francesco Bruno – che la poesia è una tromba di carta, o
comunque tale sarebbe stata la sua
poesia: una trombetta colorata dal suono malinconico e struggente di dopofesta,
non di ottone lucido e squillante ma di carta, una carta appena più spessa di
quella su cui si scrivono i versi.”
In questa
raccolta Bertolani trova l’intimo principio unitario e operativo
dell’ispirazione che vi si manifesta, il suo anelito sensibile di lirico;
quell’esercizio a poetare che
accompagna lo schiudersi dell’anima di un giovane ricco di talento, che sta
cercando la sua collocazione nel mondo. Chiusi nei versi lievi, scabri e
levigati della prima raccolta, immersi in un’atmosfera atemporale, troviamo i
nodi biografici della sua poesia: il microcosmo serrese e la cultura contadina;
i ‘semplici beni’: la casa, punto stabile, porto di quiete per uno che il mare
lo guarderà sempre dall’alto e da lontano; lo stupore di fronte ai piccoli
miracoli della natura; la nostalgia del passato; gli oggetti del suo mondo
fidato; l’amore totalizzante, incarnato nelle presenze fantasmatiche delle
figure femminili. Basti leggere la poesia d’apertura della raccolta, Casa
mia:
Dalle macerie di tutti gli amori
i viaggi
le baldorie
con quello che
segue
sempre ritorno a te col batticuore
sorpreso
di meritarmi
ancora il sonno
il pane e il vino.
La presenza
femminile è intimamente connaturata alla ricerca di un poeta lirico. Esempi
celebri li troviamo lungo tutto il percorso della poesia italiana: l’amore
intellettuale degli stilnovisti, iconizzato nella donna angelicata; lo sguardo
metafisico di Beatrice; la sostanza di Laura a metà tra cielo e terra, impasto
d’anima e di carne; l’amore fuggitivo e illusorio di Angelica; la nostalgia
perduta di Silvia e l’erotismo di Aspasia; la simbologia e la complessa
evoluzione della Clizia montaliana. In tutti questi casi la condizione della
donna è di assenza e di lontananza; non è presenza che possiamo toccare o percepire
con i sensi, ma è un ‘tu’ che invochiamo, dematerializzato, vivente nella
dimensione dell’io lirico, rievocato nella memoria e idealizzato secondo valori
salvifici; la donna diviene interlocutrice disincarnata del poeta, tramite
celeste di un dialogo dell’io lirico con sé stesso. Anche in Bertolani la donna
è parte di un passato o, viceversa, è custode del focolare domestico:
“Ora cha hanno messo fra noi
la dura
consistenza delle strade
dei ponti e delle selve
ora mi
cresci dentro più serena:
amarti in silenzio è scrivere
il tuo nome nel bianco
di tutte le cose. E altro cielo
chiuso alle parole.
(E altro cielo)
“Potevo figurarti
in ogni immagine prossima e lontana
(…)
Per giungere a capire che nulla hai tolto
e aggiunto alla mia vita
e scoprirmi
una sera nel vuoto
di prima di incontrarci,”
(Domande)
“Averti
nell’ombra delle pinete selvagge
ora che il
sole infuria sopra l’acqua
e
forte odore il muro dei gerani…(…)”
(Ferragosto del V.U)
“Alle raffiche assidue del piovasco
quel
gelsomino arrampicato a stento
sul muretto
s’intride sino a morire.
Così ho fatto io con te
che in
troppo uragano ho voluto il tuo
cuore
fragile come il fiore del ciliegio”
(Corrispondenza)
È qui che il Bertolani della raccolta
d’esordio allinea tutti gli elementi per la successive fioritura poetica. Non è
un fattore secondario che passino sedici anni prima dalla prima alla seconda
raccolta; anni, si intuisce, di una lunga gestazione interiore e di una
travagliata ricerca dell’oggetto del proprio poetare e della propria lingua
poetica. Il frutto di questo incessante e silenzioso lavorìo è Incertezza dei bersagli, pubblicata nel
1976, e accompagnata da una nota prefatoria di Vittorio Sereni. Il grande poeta
scrive:
Chi passa dalla Serra
di Lerici trova spunti di facile ed effimera
invidia se appena si affaccia sul golfo della Spezia
da quel belvedere
che è, casualmente,
la casa in cui Bertolani abita. Ma, come spesso
avviene a chi vive
stabilmente al cospetto di un corso d’acqua, non
è con questo
sfondo, troppo fisso e presente per non essere ovvio, che
identifica
il senso dell’esistenza. (…) Non è la prima volta che un lavoro
poetico muove. È dettato, da una volontà di confronto con la terra
d’origine
e con la sua
gente, da una domanda che entrambe sembrano porre con
ostinazione: tanto che il mezzo letterario, più che un rimedio o un
soccorso,
si
pone come un intervento fatale e al tempo stesso intermittente, ammiccante
da versanti ‘dove i
paesi non sono più che incerte notizie di luce’”
La seconda
raccolta di Bertolani è, a mio modo di vedere, il suo capolavoro per quel che
riguarda il suo versante creativo ‘in lingua’ (l’altro versante, ‘dialettale’,
merita una trattazione a sé stante, che qui si rivela impossibile). L’esile
rigagnolo de Le trombe di carta
diviene il grande fiume di Incertezze dei
bersagli. L’architettura della raccolta allarga
la propria tela, articolandosi in cinque sezioni; i testi brevi si alternano a
quelli di ampia gittata; la materia si frange in numerosi rivoli; fanno il loro
ingresso sulla scena le figure dell’universo affettivo del poeta (le figlie);
si acutizza l’osservazione del paesaggio; si innesta tutta la ramificazione
nuova del filone tematico morale e civile; il dettato poetico e la tavolozza
lessicale si arricchiscono di sfumature preziose, di soluzioni raffinate e
rare, ultimi bagliori dell’officina linguistica dell’autore prima della
faticosa ricerca nei giacimenti archetipici del dialetto serrese, lentamente
assimilato ad orecchio e trasposto ri-costruito nelle strofe nitide delle sue
poesie.
Da qui la
storia creativa di Bertolani si biforca: da un canto, la scoperta delle risorse
musicali ed espressive della lingua d’origine, lingua ‘non scritta’, legata
all’oralità degli antenati e del focolare, sfociata nel 1985 in Seinà; dall’altro, la meditazione dei
nuclei tematici in chiave narrativa, a partire dal 1979, anno in cui Bertolani
si misura con la narrativa e pubblica il
Racconto della Contea di Levante, che
gli vale il prestigioso “Premio Comisso” per il Racconto. Il libro ha
fisionomia autobiografica, articolata in una serie di racconti in prima
persona, resi in un italiano di autonoma fisionomia, che, sulla lezione di
Verga e di Tozzi, riprende movenze lessicali e sintattiche di “un idioma
antico, quasi da tutti dimenticato ancor prima di poter assurgere a dignità di
dialetto”. L’importanza di questa raccolta è fondante per capire l’iter creativo di Bertolani: nei sei,
bellissimi, racconti si dispiegano, in aperte forme narrative sottese da una
diffusa lirica, i temi che caratterizzano l’esperienza umana e poetica
dell’autore; il dialogo continuo con la voce dei morti, immagini di uomini e di
donne i cui tratti sfumati emergono dal ricordo, il paesaggio e i suoi suoni,
il colore del cambiare delle stagioni. Il cammino verso la maturità artistica e
la sapienza poetica è definitivamente aperto.
III Il suono della lontananza:
l’infinito sulla costa
Quando
ho incrociato per la prima volta la poesia di Paolo Bertolani, fra gli scaffali
della biblioteca della Scuola Normale di Pisa, accanto ai consistenti volumi di
Attilio Bertolucci, l’idea che un poeta conterraneo fosse abbandonato nella
fila di un illustre maestro mi sollecitò a prendere quel libro, a sedermi nella
remota e ovattata saletta della ‘saggistica’ e a cominciarne la lettura. Il
testo si intitolava Incertezza dei
bersagli, nell’edizione Guanda con la copertina azzurra e la prefazione di
Sereni. Ciò che mi colpì, ad una prima lettura sommaria, era l’intensa e quasi
creaturale presenza del ‘paesaggio’ ligure. Quello stesso in cui, sonnambulo e
svagato, avevo passeggiato più volte.
Dopo
qualche tempo, mi misi sulle tracce delle altre raccolte, in versi e in prosa.
Divoravo tutto ciò che di Bertolani biblioteche e librerie potevano offrirmi.
In seguito, decisi di assecondare un desiderio che la lettura silenziosa e
domestica aveva stimolato: ripercorrere l’itinerario geografico disegnato dalle
sue poesie, visitare i luoghi che avevano nutrito di linfe magiche quei versi,
indovinare i nomi e le forme di quei paesi letti dal poeta come ‘incerte
notizie di luce’.
Tornando
sui passi di Bertolani per cercare, a mia volta, non tanto di svelare,
d’interpretare, o “capire” quanto piuttosto di assaporare la pura bellezza, la
liricità e la solitaria pazienza della poesia di Bertolani, sentivo sempre più
chiaramente come la sua verità stesse proprio nella profondità del suo
radicamento tra quei sentieri, quei muri scrostati, quelle gole aperte sul mare
e quei sassi franosi; come, cioè, il suo essere luogo per l’anima nascesse da una sua irriducibilità a qualsiasi
geografia astratta. Respirare l’aria mossa della Serra, lasciarsi intridere
dalle sue brezze improvvise e scaldare dell’arsione dei suoi soli, sedersi tra
le sue pietre secche o nei suoi uliveti falciati di fresco, perdersi tra la sue
viuzze e i suoi sentieri, era l’esatto pendant
delle immersioni quotidiane nella poesia di Paolo, tra le sue pieghe chiare e
segrete, tra le sue faglie di luce e d’ombra, tra le sue apparizioni e i suoi
intimi rifugi. Stare alla Serra voleva dire abitare, al contempo, nel corpo
vivo del mondo e nella verità della poesia, potersi nutrire di cose semplici e
di parole sapienti, procedere tra la terra e i sogni. Ciò non significava
affatto che tra la vita e la poesia – come ho detto all’inizio dello scritto –
potesse darsi, per Bertolani, totale identità o fusione: nella prima resiste
sempre un margine di indicibile, un cono d’ombra, un “ultimo orizzonte” che la
seconda ricrea e testimonia trasformata secondo le leggi dell'arte. Ma, proprio
perché consapevole dell’ombra, o del lato irriducibile delle cose, la voce
poetica di Bertolani irradia luce vera, e sa illuminare come poche il nostro
incerto cammino nel mondo.
Accanto
al modo dolcissimo e seducente di manifestarsi dell’amore, nella poesia di
Bertolani la presenza di una ‘geografia’ si rivela fondamentale. L’atto poetico
si lega e si nutre della fibre del paesaggio, l’occhio si spinge verso una
lontananza carica di presenze, punteggiata di isole, di profili sfumati, di
‘spersi fari’, di globi accesi la notte come bottoni di madreperla. Il poeta
racconta la ‘lontananza’, cerca di dare consistenza a un ritmo invisibile, a un
sussurro irraggiungibile; la ricerca di un’immagine che porti a galla un
oggetto, una figura, un ricordo perduto. Pensiamo a che cosa avviene ogni
giorno tra la notte e l’alba: si apre una soglia sacra che separa il silenzio
dal rumore, il sonno dalla veglia, la dimenticanza dall’affanno. Come può
passare nei versi di un poeta questa sensazione?
…ed eccomi di nuovo
dentro le case
avvinte,
sotto la punta del tuo campanile
che
s’arrossa nel tramonto.
Che suona
le ore, inutilmente
per un’ombra
a me cara,
da tempo compagna ad altre ombre
e ben altri silenzi…
(Pugliola)
Al ritrarsi delle ombre e al
sorgere della luce del mattino, in lontananza, una rivelazione: la linea del
mare, che appare col suo tremito. Tremito di luce sull’onda, più che movimento
delle acque. Poesia dello sguardo, o meglio delle percezioni epifaniche, quella
di Bertolani, il quale sapeva che per la poesia, dei cinque sensi, è il senso
del vedere il più attivo. E intorno al vedere una fisica poetica si costruisce
le sue ragioni: di verso, di ritmo, di confronto con il limite della lingua, e
del pensiero. Il belvedere, che
Bertolani rende luogo privilegiato di osservazione del paesaggio e delle
lontananze che sfumano nell’invisibile, ma anche uno sporgersi sugli scenari
dell’interiorità, questo paese che ha luci e ombre, avvallamenti, lampi
improvvisi, pianure e colline. Ogni scrittura poetica ha un balcone che
s’affaccia su questi due paesaggi. Bertolani, lettore attento di leopardi,
sapeva bene che la poesia crea un movimento dello sguardo verso una doppia
realtà: il quaggiù, il fisico
percepito dai sensi, la topografia affettiva dei luoghi; e un altrove, uno spazio paesistico che dal
reale passa oltre e si carica di valenze simboliche, di stati effimeri e
transitori, di profondo silenzio e raccoglimento. Nella poesia di Bertolani la
‘geografia’ è fisica e metafisica a un
tempo: fisica in quanto si lega a una precisa toponomastica (la Serra, Lerici,
Pugliola, Ameglia, Montemarcello, Bocca di Magra, Punta Corvo) e di essa fissa
indimenticabili scorci, come questa sintesi figurativa di Montemarcello,
trasfigurato in un ‘micro-mondo’ a forma di ampio terrazzo dominante su tutto:
…come un terrazzo alto
sui paesi a ventaglio intorno
- ma qui un micro-mondo
folto di muretti, di campi in disuso,
di case, e con il grande prato all’ingresso
del
mistero dei vicoli, degli amori…
e poi – alla foce
di un viottolo – l’aperta vertigine
di Punta Corvo,
e
laggiù, guarda,
il duplice fondale del fiume, del mare…
Per
il poeta “stanza”, cioè “dimora capace e
ricettacolo”, è il nucleo spaziale della loro anima, perché essa custodisce
l’anima, quello slancio vitalistico che invade tutto. Leggere e amare Bertolani
è entrare in questo circolo sacro, non un luogo ipotetico, ma un’immersione nel
tempo della vita: sentire il battito leggero delle foglie, la doratura dei soli
pomeridiani, la dolcezza del sacro come ciò che in noi non è protetto da
un’aura cristallina. Passeggiare nei luoghi di Bertolani, con i suoi versi
sulle labbra, è portare con sé un rabbrividire di venti sui crinali, un
tremolare della luce sull’acqua, il sapore degli ulivi e dell’erba, e in tutto
ciò avvertire il respiro del mondo.
Con questo Bertolani ha fatto del suo
microcosmo fisico un luogo dello spirito, e lì, su quei crinali, su quei dorsi
di collina, in quei manipoli di case la sua vena lirica ha trovato la sua più
grande epifania: l’infinito sulla costa. È con questo richiamo dell’estremo nel
quotidiano, dell’invisibile nel visibile, dell’azzurro nel ritmo dei giorni che
Bertolani abita le nostre vite, investe la nostra fantasia. La poesia, allora,
diventa lo spazio di un’inattesa ospitalità: per coloro che sentono la vita, il
dolore della lontananza, e sanno nel corpo lo spaesamento, ma cercano una via
di fuga alla finitudine nella profondità del pensiero creativo.
P.Bertolani, Le
trombe di carta, Edizioni Contatto, Collana Voci, ristampato 2004
P.Bertolani, Incertezza
dei bersagli, Quaderni della Fenice 14, Guanda, Milano, 1976, pp.86
P.Bertolani, Piccolo cabotaggio, Edizioni Contatto, ris
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