“tutto quanto vi è nella Scrittura va ricavato dalla Scrittura
stessa”
(Spinoza)1
di Davide Pugnana
“Si sentono nella sua vita,
nelle sue lettere – come in un materiale in cui essa è appena riconoscibile –
alcuni lineamenti della sua opera, che è l'unica ragione di essere della sua
vita, i suoi amori che non esistono se non nella misura in cui sono ne sono i
materiali, che tendono verso di essa e che non resteranno che in essa.”(2), questa intensissima soglia di introduzione
ad una costola dell'epistolario di Federico Zeri è firmata Marcel Proust.
Il
passo è tratto dal Contre Saint-Beuve, l'opera di riflessione teorica
nella quale Proust riflette sul nodo biografia-opera a partire dall'analisi del
metodo di Saint-Beuve, giungendo a determinare l'inadeguatezza della prima come
chiave di lettura della seconda, nonostante la vita sia “l'alfabeto in cui
impariamo a leggere e in cui le frasi possono essere non importa quali poiché
sono sempre composte dalle medesime lettere”(3).
Perché queste parole proustiane dovrebbero offrirsi come viatico alla
comprensione dello scambio epistolare che, lungo tre decenni (1955-1980), corse
tra un grande storico dell'arte romano e i funzionari della casa editrice
torinese Einaudi?
Una prima risposta va in direzione della vita del
'personaggio' Zeri: una figura di grande risonanza mediatica, sulla quale si è
calamitata l'attenzione del pubblico e dei media secondo i marcati chiaroscuri
di una spaccatura senza rimedio divisa tra odio e amore, tra sostenitori e
detrattori.
Zeri non fu solo l'autore di saggi mirabili e coraggiosi, polemici
e antiaccademici, dei quali si darà conto più avanti, attraverso lo spioncino
delle lettere einaudiane. Dall'altra parte, accanto allo studioso serio e
appartato, immerso nel dedalo di immagini, gesti, stili, documenti;
all'infallibile conoscitore e all'instancabile viaggiatore, si muoveva un
Federico Zeri squisitamente mondano, inserito nei migliori salotti inglesi,
americani, russi ed europei dell'epoca; fotografato durante serate di gala, in
smoking, accanto a ricchi signori, famose attrici e ballerine di cabaret.
Così
come numerose e memorabili sono le comparse televisive del personaggio Zeri, la
cui intelligenza si manifestava anche nella sofisticata forma di un'autoironia
venata di istrionismo, in tutta la tastiera dei possibili registri teatrali: il
sarcasmo e la polemica; il pettegolezzo e la parodia; la mimica corrucciata e
la recitazione dei versi; l'aforisma tagliente e lo struggente ricordo
d'infanzia; la parola della lezione e quella del silenzio.
Tutto questo gioco
caleidoscopico di atti e situazioni, di stati d'animo e apparizioni compone e
scompone, come nelle Perestroike dei Luna Park dove la propria figura si
allunga e si allarga, si schiaccia e si dilata in bizzarrissime deformazioni,
la vita di Zeri. O meglio: è, proustianamente, il “materiale” che stratifica
“l'alfabeto” della sua vita. Ogni lettore può liberamente chinarsi su questo
libro biografico e decidere quale parola o frase leggere, se isolarla o metterla
in relazione. Tra le pieghe di questo “alfabeto” complesso e intrecciato
troviamo la raccolta di lettere, documenti preziosi per chiunque voglia
soddisfare due pulsioni insieme opposte e complementari.
La prima, nel caso
l'autore sia famoso e, quindi, sia divenuto oggetto di studio, serve a capire, dal
di dentro, come nell'intimità di una confessione, la sua visione del mondo e i
percorsi di formazione di opinioni, giudizi, idee, testi e cronologie. È una
pulsione di lunga durata che potremo definire storico-filologica.
La
seconda, invece, è un'inclinazione più comune e di breve respiro: il desiderio
voyeuristico di guardare da quel buco della serratura che, da sempre,
offrono all'occhio indiscreto lettere e diari, non conta se di personaggi
famosi o comuni mortali, per coglierne dettagli piccanti e scabrosi, còlti
fuori controllo, senza i veli protettivi
dell'aura. Per quella che è stata la figura di outsider di Federico Zeri
nell'immaginario visivo degli italiani (tanto in senso di notorietà scientifica
quanto di popolarità televisiva), la lettura di questa costola del suo vasto
epistolario attiva entrambe le pulsioni.
Con una precisazione, credo fondamentale,
questa volta desunta da Roland Barthes: che in minore o maggiore grado di
rielaborazione, qualsiasi fatto di vita, lasciato scivolare nelle maglie della
scrittura, subisce sempre una trasformazione diventando altro, come se
l'originario “alfabeto” di eventi allo stato di grezza realtà subisse un
processo di traduzione. Secondo Barthes, l'opera scritta, sia essa d'arte o di
testimonianza, non abolisce la biografia del suo creatore; ma la disorienta e
la disorganizza. Alla fine del percorso le tracce sono quasi irriconoscibili,
ma non del tutto cancellate; e all'interno di “una costruzione a più piani,
costituita da strati eterogenei”(4) può
accadere che un lavoro archeologico, teso a ricostruire la fasi del
sistema-opera, possa imbattersi in frammenti di quel materiale non più cospicui
di un'annotazione meteorologica o dell'essersi recati all'ufficio postale a
espletare una pratica che ha richiesto di prendere in mano una penna e di
scrivere.
In particolare nelle lettere, che
- nella misura in cui non siano concepite secondo i criteri dell'ars
epistolografica - forniscono una rielaborazione dei “fatti” di primo grado,
da cui talora gli scrittori sembrano estrarre una “frase” che appare allora
ritagliata direttamente in quella “materia bruta” (5).
Nel caso di molti epistolari, si tratta,
se vogliamo, di una imperfetta e improvvisata traduzione di quell' “alfabeto”:
la forma epistolare determinerebbe un'inaugurale forma di “disorganizzazione”,
producendo una sorta di autobiografia episodica e preterintenzionale. Sappiamo
che Proust si augurava la distruzione di tutte le sue lettere affinché i lettori
potessero rimanere in totale balìa della sola Recherche. Il motivo
profondo di questo desiderio non era tanto l'occultamento o il velo tirato
sulla propria storia quotidiana (con le sue miserie e bassezze, i suoi piccoli
segreti o le sue perversioni); era, al
contrario, l'estrema coerenza di chi credeva nella traduzione altissima e
sorvegliata della propria esperienza in un'altra lingua: una “lingua
straniera” che arrivasse a cancellare insieme il proprio nome e la propria
identità con la consapevolezza che l'opera, in quanto tale, è sempre “oeuvre
d'autrui”, e che “lo scrittore mentre scrive dimentica il proprio nome,
così come noi, mentre leggiamo, dimentichiamo il suo e il nostro.”(6)
Osservato dal versante
proustiano, il primo grado della lettera non poteva soddisfare questa
condizione sulla quale pendeva la tensione al sì definitivo di un'autografa
mistica del tocco. Era la tesi sostenuta da Proust nel Contre Saint-Beuve
e di fronte alla quale Barthes sceglie una posizione di mezzo, dove la scoria
biografica non viene del tutto purificata da un tipo di scrittura di primo grado.
Attraversando le centoventitré
lettere del carteggio zeriano con le carismatiche figure della casa editrice
Einaudi (i due Giulio, Einaudi e, soprattutto, Bollati; poi Paolo Fossati in un
secondo tempo e, sullo sfondo, figure di studiosi e traduttori come Enrico
Castelnuovo e Guido Davico Bonino) non
possiamo non tenere conto della giustezza di queste posizioni teoriche e, al
contempo, delle due pulsioni alle quali ogni missiva, di volta in volta, come in
una morbosa e accattivante oscillazione, ci consegna. Se guardiamo al lato voyeuristico,
il carteggio einaudiano è punteggiato di piccoli fuochi icastici nei quali Zeri svela il suo
giudizio tranchant intorno a episodi e testi di scrittori contemporanei,
sia storici dell'arte (“Ho poi letto il librone dello Chastel sulla Firenze di
Lorenzo il Magnifico: è un vero mattone erudito, pieno di cose che interessano
soltanto gli iconografi, e pieno di uno sfoggio di dottrina che cerca di
nascondere l'assoluta mancanza di senso critico e storico. Per carità, non lo
stampate!”; “Vedo che la vostra Libreria, bellissima, in Via Veneto, è divenuta
il piedistallo su cui si esibisce G.C.Argan...”; “La presentazione è andata
abbastanza bene; dico abbastanza, perché la ghignante presenza di E. Battisti
ha costituito una nota sgradevole.”; “Solo R. Longhi (a quel che mi riferiscono
le fonti) na va dicendo cose vituperevoli; se è veramente così, finirò col
chiamare il Longhi <> e troncherò ogni rapporto con
lui.”; “Se per caso ritrovassi il testo completo della Chanson de Brandi et
d'Argan (debbo pur averla da qualche parte) te ne spedirò copia
conforme.”), sia letterati (“Per ora sto combattendo con U. Eco, molto
interessante ma scritto alla maniera delle Sibille”; “L'esperimento pare
interessante; e si spera che serva almeno a far scrivere a Calvino cose meno
fesse di quelle che mi è occorso leggere, sebbene temo che tutto si risolverà
nell'appellativo di <>”), fino alla
lettera del 18 marzo 1976, vero gourmet per il lettore ingordo di
pettegolezzo e piccolo capolavoro di stroncatura di un libro di Lionello
Venturi dal titolo Come si comprende la Pittura: “Lo sto leggendo con un senso di
sbigottimento e di autentica apprensione, alleviata da folli risate. Mi domando
a chi mai sia venuto in mente di rinfrescare roba del genere, che andrebbe
pudicamente velata, anche e soprattutto per la buona memoria dell'estinto, e
per il buon nome della memoria italiana.” Preambolo a cui Zeri fa seguire un commento
in forma di elenco, isolando e citando, con controcanto ironico, frasi del
libro degne “del più cattivo Flaubert”: “p.41: nella Primavera del
Botticelli Zefiro lascivo vola per acchiappare Flora, in altri termini
per prenderla per le chiappe.”
Malgrado la vena divertente e
istrionesca dello Zeri stroncatore, il suo fascinoso brio dilegua presto
lasciando spazio al coté più profondo e persistente di questo ramo
einaudiano dell'epistolario di Federico Zeri. Ramo costituito dal restante e
corposo nucleo di lettere che gettano luce sulla pluralità di attività e di
talenti dello storico dell'arte romano. A voler disegnare, su basi affatto
empiriche, una mappa di orientamento per questa 'passeggiata' potremo
suddividere le restanti missive in tre gruppi, tra loro fittamente intrecciati
e rubricabili sotto la definizione complessiva di editoria in azione,
nel senso che a questo lavorìo si intende dare qualora ci si riferisca alle
sinergie , alle divergenze e alle intuizioni tra menti operosissime all'interno
delle officine editoriali.
Il dialogo tra Zeri e Giulio Bollati scorre
all'insegna di questa serrata dialettica progettuale. In un primo nucleo,
abbiamo lettere nelle quali viene affrontata la questione delle pubblicazione di
saggi o progetti editoriali: è il caso di lavori come Pittura e
Controriforma. L'arte senza tempo di Scipione Gaeta (1957), la “acrobazia
filologica” di Due dipinti, la Filologia e un nome (1961) e, vero e
proprio filo rosso di tutto l'epistolario, l'incessante e tormentata pianificazione
ed elaborazione di un'opera monumentale La storia dell'arte italiana, il
cui ultimo di nove volumi uscirà nel 1983 e della quale queste lettere
restituiscono la gestazione e un documento prezioso come il Prospetto
(pp.11-15). Stupisce su questo versante l'abilità di Zeri nel dettare
suggerimenti non solo di ordine contenutistico (la scelta del titolo giusto,
ossia più aderente possibile alla sostanza dell'opera: “Circa il titolo invece,
non vedo ragioni di sorta che imponga di mutare quello che io avevo scelto,
cioè La pittura senza tempo di Scipione da Gaeta; questo titolo indica
con esattezza i limiti e il significato del saggio, che tratta del pittore
Scipione da Gaeta, e non è un saggio sistematico sulla pittura della Controriforma.
Il titolo Saggio sulla pittura della Controriforma, cui accenna il
contratto, dà un'impressione del tutto inesatta circa il saggio, e si
presterebbe ad aspre critiche che io,
prevedendole, ho cercato di evitare col titolo che avevo scelto.”); ma puntuali
consigli toccano anche la veste editoriale e l'impaginazione (“La sola che
trovo da obiettare […] è la figura 96, cioè l'ultima, che è stata riprodotta a
formato francobollo, sì da farle perdere ogni significato.”).
Il secondo e terzo gruppo di
lettere riguardano altre due incursioni di Zeri lettore in attività editoriali
collaterali: i consigli e la segnalazione di opere straniere per la
pubblicazione e la continua richiesta di
invio di opere pubblicate per placare la sua “febbre bibliofila”. Anche su
questo terreno Zeri ha intuizioni folgoranti: fa pubblicare per Einaudi saggi tutt'oggi
capitali della storiografia artistica (Arte e umanesimo a Firenze al tempo
di Lorenzo il Magnifico di Chastel; La pittura fiorentina e il suo
ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento e Classicismo e
Romanticismo di Antal; consiglia di tradurre e stampare Rosemblum quando in
Italia era ancora un perfetto sconosciuto e fa pubblicare un saggio
fondamentale sulla pittura dell'Ottocento, Realismo. La pittura in Europa
nel XIX secolo di Linda Nochlin. L'ultima lettera del carteggio con Giulio
Bollati (1 luglio 1980) è ancora un consiglio di lettura. Altrettanto vertiginoso, se pensiamo
alla sua lunga vita, è l'elenco di letture che affiora in queste lettere. Zeri
è lettore onnivoro di classici (Guicciardini, Manzoni, Leopardi, Madame de
Stael, Fitzgerald, Ripellino, Durrenmatt, Kundera, Musil) e autori
contemporanei (Manganelli, Bruno Zevi, Castelnuovo, Chabod, Trlling), in più
lingue straniere e in diversi generi (storia, letteratura, filosofia ecc; ).
Sullo sfondo delle lettere
ricaviamo anche un diario di bordo dello Zeri viaggiatore: “Io sono tornato da
pochi giorni dalla Germania”, “il 4 novembre debbo imbarcarmi per New York”;
“torno ora da un bizzarro viaggio negli Stati Uniti”, “dovetti fermarmi a
Parigi più del previsto”, “Io sono tornato da pochi giorni da Los Angeles”, “al
ritorno da un viaggio a Mosca”, “torno da un secondo viaggio in America”, “Io
vado a Londra e torno qui il 22”,
fino al resoconto da luoghi incantati come il soggiorno inglese nel maniero
cinquecentesco di Sutton Place, che, dagli anni Cinquanta, era divenuta
la residenza di Jean Paul Getty. Da lì Zeri scrive a Fossati il 29 marzo
1975: “Approfittando di un soggiorno in un nascosto angolo del Surrey...”.
Non mancano poi giudizi, ancora
attualissimi per saggezza e respiro, sullo statuto della storia dell'arte come
disciplina. Uno di questi spicca su tutti e funge da stimolo per affrontare la
lettura di queste Lettere alla casa editrice: “A questo proposito è
superfluo l'avvertimento che in Italia la Storia dell'Arte è, salvo casi
singolarissimi, precipitata in mano a venditori di fumo: una delle eredità
dell'idealismo crociano (pianta, è bene ricordarlo, nata nello stesso terreno
in cui allignò il fascismo) è l'aver dato l'avvio alla <> in senso astratto, alla <>, ecc. ecc., un andazzo questo che consente di scrivere volumi
di impressionante concettosità anche a
chi non sa poi distinguere fra un ferro di cavallo e un bronzo di Donatello,
come è dimostrabile con migliaia di esempi. È perciò palmare che un lavoro come
quello che io vorrei iniziare non può che essere aborrito e vilipeso dalla
stragrande maggioranza dei nostrani Storici dell'Arte, che da un'opera basata
su fatti e non concetti o concettini trarrebbero la misura della propria
ignoranza.” (Roma, 1 settembre 1956)
Note:
1 Spinoza, Trattato
teologico-politico, a cura di E.G. Boscherini, Einaudi, Torino, 1972
2 M.Proust, Contre
Saint-Beuve, Einaudi, Torino, introduzione di F. Orlando e M. B. Bertini, 1991
3 Ibidem
4 R. Barthes, Il brusio della
lingua. Saggi critici IV, Einaudi,
Torino, 1984
5 M. Proust, Jean Santeuil,
Einaudi, Torino, 1976
6 E. M. Forster, Aspetti del
romanzo, Il Saggiatore, Milano, 1963
F.
Zeri, Lettere alla casa editrice, a cura di Anna Ottavia Cavina,
Einaudi, Torino, 2010, pp. 132
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