Uno scrittore africano
sulle soglie del Nobel
di Luciano LucianiAnche quest'anno i giurati svedesi del Nobel per la letteratura hanno perso una buona occasione. Se l'attribuzione del prestigioso riconoscimento al poeta e menestrello Bob Dylan ci rallegra - almeno dal punto di vista generazionale -, restiamo convinti che sarebbe stato necessario uno sguardo più largo: ovvero che un premio così carico di significati sarebbe dovuto andare a un autore dalla scrittura ben più robusta sul piano estetico e civile.
Magari ampliando la propria attenzione a letterature più periferiche, ma vitali, originali, capaci di contenuti inconsueti. Per esempio quelle di un continente per tanti versi dimenticato come l'Africa, le cui sofferenze, drammi e dilemmi continuano ad arrivare sino a noi attraverso le voci e le opere dei suoi poeti, scrittori, drammaturghi, saggisti...
Alcuni nomi? Il ghanese Aiy Kewi Armah (1939), il somalo Nuruddin Farah (1945), il mozambicano Mia Couto (1955), il botswano Barolong Seboni (1957), il keniota di etnia kikuyu Ngũgĩ wa Thiong'o (1938) già da qualche anno in odore di Nobel. Quest'ultimo, uno tra gli scrittori più interessanti dell'Africa post-coloniale, forse più e meglio di altri ha saputo raccontare le contraddizioni aspre e i bordi taglienti di una decolonizzazione che non saputo mantenere, se non in minima parte, le speranze di riscatto e liberazione che l'avevano sostenuta e alimentata e imponendo così ha ai suoi protagonisti prezzi altissimi.
Non solo nei termini economici e sociali di un mancato sviluppo, ma culturalmente: lo sradicamento e l'assoggettamento psicologico, innanzitutto, dell'uomo africano nei confronti dei modelli importati e imposti dai padroni bianchi, i "pallidoni del cavolo". Cacciati sì, dopo lunghi anni di sanguinose rivolte, ma ancora presenti nei cuori e nelle teste di tanti africani, non ancora uomini liberi, ma solo schiavi benestanti: perché - ci significa Ngũgĩ - l'arma più potente nella mani dell'oppressore è sempre stata la mente dell'oppresso.
In attesa del Nobel, lo scrittore keniota, tradotto in più di trenta lingue - anche in Italia a partire dalla fine degli anni settanta, sia pure in maniera non sistematica - continua a essere proposto a un lettore italiano intenzionato a cimentarsi con una scrittura di qualità, non banale e non effimera.
Recentemente lo ha fatto anche la piccola e coraggiosa Casa editrice quarup con un libro di racconti, Un matrimonio benedetto (Secret Lives, and Other Stories), che risale al 1976 - alla vigilia di un anno cruciale nella vita del letterato africano, quello della sua restrizione nelle carceri del suo Paese per aver criticato la politica filoccidentale e neocolonialista dei governanti kenioti - e che corrisponde alla fase più marcatamente politica e civile del romanziere kikuyo.
Un grappolo di narrazioni robuste, intense, piene di umanità e quindi di "politica", se è vero che la politica non può che trattare delle vicende e dei sentimenti delle persone: storie di di uomini e donne sospesi tra modernità e tradizione, tra il villaggio e la città, tra i valori della tribù e un nuovo Kenya popolato di africani ricchi, di funzionari corrotti - servi che a forza di servire sono diventati padroni -, di ingiustificabili e incomprensibili lacerazioni sociali.
Racconti segnati in genere da finali che sanno di ripiegamento e di sconfitta: metafore riuscite e dolorose del destino che avrebbe nei decenni successivi tradito e offeso l'Africa e le speranze dei suoi popoli, delle sue genti.
Ngũgĩ wa Thiong'o, Un matrimonio benedetto, quarup, Pescara 2015, pp. 186, Euro 13,90
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