“Lo Aretino non ritragge le cose men bene in parole che
Tiziano in colori; e ho veduto de’ suoi sonetti fatti da lui d’alcuni ritratti
di Tiziano, e non è facile il giudicare se li sonetti son nati dalli ritratti o
li ritratti da loro; certo ambidue insieme, cioè il sonetto e il ritratto, sono
cosa perfetta: questo dà voce al ritratto, quello all’incontro di carne e
d’ossa veste il sonetto. E credo che l’essere dipinto da Tiziano e lodato dall’Aretino
sia una nuova regenerazione degli uomini, li quali non possono essere di così
poco valore da sé che ne’colori e ne’versi di questi due non divenghino
gentilissime e carissime cose.” (Amedeo Quondam)
di Davide Pugnana
Niente meglio del reciproco compenetrarsi di pittura e
parola testimonia e restituisce, attraverso lo scorrere dei secoli e delle
generazioni, la prorompente vitalità del dialogo tra Tiziano Vecellio e Pietro
Aretino. Vicini e allo stesso tempo lontani, intrecciati eppure destinati a non
incontrarsi mai se non nello scenario di un impossibile e nostalgico abbraccio,
questi due linguaggi si rincorrono e si illuminano con la disperazione dei
grandi desideri.
Scorre nelle quarantaquattro epistole dell’Aretino a Tiziano
una parola che insegue la prestezza di tocco del pittore. Ogni
frase tende al massimo il suo arco retorico, trasceglie aggettivi, verbi,
metafore, sgrana enumerazioni che al massimo grado visualizzino l’oggetto
d’amore assente; quella cosa ineffabile e, nella sua forma,
perfettamente compiuta che si vorrebbe afferrare e fermare in un medium che
non le appartiene e mai le apparterrà.
Nonostante questa alterità costitutiva,
ogni invenzione linguistica dell’Aretino al cospetto dell’opera di Tiziano
sembra spinta da una strenua sete di caccia: appropriarsi di quei rossi carnosi
che aprono ferite dolcissime e struggenti oltre una torre di castello o si
dilungano in brani di cielo dove nuvole a stracci aprono sulla testiera dei blu
e dei viola, mirabilmente tenuti sospesi contro i lucori della luce morente del
tardo pomeriggio; dire fino in fondo quell’immobile rabbrividire dell’aria
attorno alle fronde degli alberi o nei vuoti pausati dei corpi; essere, o
diventare, verbalmente quel giallo che serpentinato increspa l’orizzonte dietro
Tobiolo e l’angelo e, al contempo, trovare il nodo di sostantivi per quel
battere di panneggi in bianco e in rosso.
Ecco il lievito che nutre le lettere
pittoriche dell’Aretino. Per questo scrittore di potente capacità
visiva le ‘vedute’ tizianesche, così ariose e struggenti e grondanti colore,
che nella loro calda opulenza tattile sembrano fare del cielo, delle nuvole e
dell’acqua di Venezia presenze di carne, diventavano non tanto il terreno per
una esercitazione retorica nel solco dell’ekphrasis – di cui pure
fu maestro – quanto un viaggio di ricognizione nelle possibilità estreme del
mimetismo linguistico rispetto all’altro ‘testo’, quello visivo, perennemente
ammirato dalla riva del verbo perché conchiuso e sdegnoso nella sua espressione
risolta.
A testimoniare l’intensità di questo rapporto non c’è solo
la corsa febbrile della parola verso la pittura. Tutt’oggi possiamo fare
esperienza del contrario varcando la soglia della Sala di Apollo nella
galleria palatina a Firenze. Era questa l’anticamera del palazzo, ornata dagli
affreschi di Pietro da Cortona, nella quale la nobiltà ordinaria ferveva in
attesa di essere ricevuta dal granduca. Qui possiamo toccare con gli
occhi alcuni importanti ritratti di Tiziano: la Santa
Maria Maddalena, il ritratto femminile detto “La Bella”, il
Concerto, la copia del ritratto a Papa Giulio II di Raffaello, e,
spostandoci ancora, il ritratto che egli fece dell’Aretino, che d’acchito
colpisce per il guizzo torto e nervoso della posa e il timbro superbo della
veste. Cade in taglio, nonostante il tono sprezzante ma vedremo perché, la
descrizione che ne fece Francesco De Sanctis nella sua storia letteraria:
“Vedi il suo ritratto, fatto da Tiziano. Figura di lupo che cerca la
preda. L’incisore gli formò la cornice di pelle e zampe di lupo; e la testa del
lupo, assai simile di struttura, sta sopra alla testa dell’uomo […] per il
labbro inferiore abbassato, grossissima la parte posteriore del capo, sede
degli appetiti sessuali […] I suoi libri osceni sono il modello di un genere di
letteratura, che sotto il nome “racconti galanti”, invase l’Europa. […] Pietro
morì di soverchio ridere, come morì Margutte, e come moriva l’Italia.”
Intuizione metaforica quella del “lupo che cerca la preda” che meglio non
potrebbe tradurre la levriera disposizione verbale dell’Aretino di fronte alla
tenuta pittorica di Tiziano.
E proprio di questo ritratto troviamo un
equivalente verbale nella lettera dell’ottobre 1545 a Cosimo I:”eccovi
lo stesso essempio de la medesima sembianza mia dal di lui [Tiziano] proprio
pennello impressa. Certo ella respira, batte i polsi, e move lo spirito, nel
modo ch’io mi faccio in la viva. E se piú fussero stati gli scudi che glie ne
ho conti, invero i drappi sarieno lucidi, morbidi, e rigidi, come il da senno
raso, il velluto, e il broccato.”
Come sarà per i ritratti del Bernini un
secolo dopo (pensiamo alla Costanza del Bargello), la pittura
di Tiziano non è solo lavorio di pennello, non è solo forma e colore; con
quelle terre colorate messe sulla tela Tiziano riesce a fermare la presenza
biologica del soggetto, il formicolio vitale che innerva il suo corpo (il ritmo
del respiro, il pulsare dei polsi, l’agire del temperamento), il peso e il
fruscio del corpo nel suo spazio di esistenza. Il ritratto di Tiziano – afferma
Aretino – si impone, per sempre, più e meglio di un atto di nascita, come
testimonianza dell’esistenza di un individuo su questa terra.
Aretino nutriva
questa convinzione già nel 1540, allorché il 20 novembre scriveva al Marchese
del Vasto: “il pennello de l’uomo mirabile [Tiziano] va con sí nuovo modo a
trovare le parti che non si veggono ne la immagine che egli colorisce di voi,
che ella nel mostrarsi in tutte le membra tonde come il vivo, vi fa piú tosto
essere Alfonso che parere il ferro.” Come cinque anni dopo sarà per Aretino,
nel campo visivo di Tiziano il Marchese del Vasto, chiuso nello scintillio
della sua armatura, è, ed è al massimo della
sua cifra biologica, “tondo come il vivo”.
Aretino era ben consapevole della spaccatura fatale tra la
cosa dipinta e la parola che desidera nominarla. Come ogni scrittore d’arte,
sapeva bene che mai la letteratura avrebbe potuto restituire ciò che si era
incarnato in quella specifica forma espressiva, nata, come spiegherà da di
dentro Konrad Fiedler secoli dopo, da un processo visivo e portata a compimento
dal gesto della mano. Nessun testo verbale, per quanto sorretto da perizia
stilistica, sarebbe stato capace di trasformare in parola la mistica del tocco
di un pittore come Tiziano. Nel suo struggimento melanconico di fronte ad un
oggetto insieme presente e assente, la scrittura potrà solo elaborare strategie
di avvicinamento più o meno stringenti, impegnandosi semmai a colmare e
assottigliare il divario tra l’evidenza dell’opera d’arte figurativa –
perfettamente autonoma e quasi incurante della tessitura verbale che l’avvolge
– e l’evocatività della parola. Un’impossibilità o, meglio, un’afasia
nominativa che Paul Valery racchiuderà nel motto: “Comment parler peinture?”.
Questa domanda innesca in Pietro Aretino un confronto agonistico e, in qualche
modo, formativo con la pittura di Tiziano. La capacità di scandaglio
psicologico dell’amico pittore, abile nel “ritrarre le nature altrui”, sarà un
modello per Aretino: “E per ciò io mi sforzo di ritrarre le nature
altrui con la vivacità con che il mirabile Tiziano ritrae questo e quel volto;
e perché i buoni pittori apprezzano molto un bel groppo di figure abbozzate,
lascio stampare le mie cose cosí fatte, né mi curo punto di miniar parole;
perché la fatica sta nel disegno, e se beni colori son belli da per sé, non
fanno che i cartocci loro son sieno cartocci, e tutto è ciancia, eccetto il far
presto e di suo.” (lettera al
Valdaura del dicembre 1537). La piena adesione dell’Aretino alla maniera di
Tiziano è testimoniata dalla celebre lettera ch’egli spedì al pittore medesimo
nel maggio 1544. Una lettera che potremo definire una forma di tizianismo
verbale per il modo in cui la lingua del poeta cerca di appropriarsi del mondo
e del modo visivo del pittore, come dimostra il cuore del testo:
“che vedete, nel raccontarlo io, in prima i casamenti,
che benché sien pietre vere, parevano di materia artificiata; e dipoi scorgete
l’aria, ch’io compresi in alcun luogo pura e viva, in altra parte torbida e
smorta. Considerate anco la maraviglia ch’io ebbi de i nuvoli composti
d’umidità condensa. I quali in la principal veduta mezzi si stavano vicini a i
tetti degli edificii, e mezzi ne la penultima. Peroché la diritta era tutta
d’uno sfumato pendente in bigio nero. Mi stupii certo del color vario di cui
essi si dimostravano. I piú vicini ardevano con le fiamme del foco solare; e i
più lontani rosseggiavano d’uno ardore di minio non cosí bene acceso. O con che
belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l’aria in là, discostandola
da i palazzi con il modo che la discosta il Vecellio nel far dei paesi.
Appariva in certi lati un verde azurro, e in alcuni altri un azzurro verde
veramente composto da le bizzarrie de la natura maestra de i maestri. Ella con
i chiari e con gli scuri sfondava e rilevava in maniera ciò che le pareva di
rilevare e di sfondare, che io, che so come il vostro pennello è spirito de i
suoi spiriti, e tre e quattro volte esclamai: ‘O Tiziano, dove sete mo´?
Può, insomma, la parola della letteratura equivalere con la
pittura che desidera nominare?
La riposta è no.
Ma il punto nodale è un altro:
che cosa genera, nello scrittore d’arte, la nostalgia dell’oggetto
inafferrabile? Che genere di lotta viene ingaggiata? Uno degli esempi più
significativi di questo corpo a corpo tra pittura e parola è proprio questa
epistola di Pietro Aretino al “signor compare Tiziano”.
Sotto il cielo di una
sera veneziana prossima alla notte, Pietro Aretino ha cenato in solitudine,
contravvenendo alle sue abitudini di uomo mondano. Da giorni ha la quartana,
una febbre di origine malarica che ritorna ogni quattro giorni. I cibi non gli
lasciano in bocca nessun gusto e il corpo di uomo prossimo ai cinquant’anni si
muove a fatica. La lettera registra in presa diretta, come una stenografia
degli istanti, i gesti e i pensieri di quella sera di amara e cupa solitudine.
Pietro si alza da tavola “sazio de la disperazione” e si trascina al davanzale
della finestra, abbandonando sulla balaustra “il petto e quasi il resto di
tutta la persona”. Fuori, Venezia pulsa di luci e di vita; sul Ponte Rialto,
nella riva dei Camerlinghi, nella Pescaria, il popolo sciorina e si dà convegno
per assistere alla regata “di barcaiuoli famosi”. Voci miste, “turbe” salgono
dalle calli alla finestra dello scrittore, mentre in lontananza le barche sono
pigre navicelle volanti che s’incontrano in quell’ora del giorno quando il mare
abbraccia il cielo e nessun contorno li separa più. Come dentro una veduta
veneziana di Federica Galli, le gondole sono spaurite virgole nere nello
specchio di silenzioso cristallo della laguna; e lasciano scie invisibili di
solchi sulla pelle del Canal Grande, mentre “forestieri” e “terrazzani”
sembrano fissati in una calma attesa da scacchiera. In Pietro, la morsa della
quartana diventa umor melanconico: “fatto noioso a se stesso”, sente la
terribilità del pensiero che divaga senza approdi nel vuoto. Alza gli occhi
verso il cielo, come secoli dopo faranno Constable e Turner per studiare, in
quelle loro tele cariche di meteorologia visionaria, brani di nuvole e di
tempeste. Un sussulto lo scuote: “da che Iddio lo creò, [quel cielo] non fu mai
abbellito di così vaga pittura di ombre e di lumi.”. L’occhio di Aretino si
dilata: il cielo di Venezia subisce una trasformazione repentina. Al dato
naturale delle nuvole, del vento, delle striature violacee e bluastre del
tramonto si sovrappone una campitura di chiaroscuri. I guizzi del reale
trasmutano di essenza: ricordano pigmenti di colore, velature, ‘segni’ .
Qualcosa che sopravviene ad un tratto spacca in due la lettera e ne muta
registro. Qualcosa che deve essere affiorato nella memoria dello scrittore: in
quell’istante di risveglio visivo, la penna vorrebbe trattenere tutte la fibra
percettiva del cielo, ogni sua grana, ogni suo tono, ogni suo palpito e
respiro. “Onde l’aria era tale quale vorrebbero esprimerla coloro che
hanno invidia a voi per non poter essere voi, che vedete nel raccontarlo io.” Solo
la mano di Tiziano ha saputo raccontare quel brano di natura diventando quel
cielo che adesso stava negli occhi febbrili dell’Aretino. A metà della stesura,
l’epistola abbandona i toni di basso dello sfogo solitario e la vaghezza dei
pensieri, fino a quel momento sbrigliati negli scenari aridi della malinconia,
e trova, nello spazio tra paesaggio lagunare colto sur le motive e
memoria figurativa, uno squarcio improvviso nel quale s’allineano e mescolano
gli sfondi sconvolgenti dipinti da Tiziano. Poter esser Tiziano!
Pietro ha
sostato davanti ai suoi dipinti per lunghe ore, portandoci sopra lo sguardo
palmo a palmo; ne conosce ogni agguato d’ombre, ogni campitura, ogni velatura e
semitono. I suoi occhi hanno interiorizzato e amato con gioia feroce le
estenuate, pausate lotte di timbri caldi e freddi, le ocre i blu i viola delle
nuvole a stracci, contro le quali l’indice di Alfonso d’Avalos si disegna
repentino e il gruppo della Madonna e Santa Caterina si dispone. L’accensione
del cielo veneziano era già tutta nella lama di luce che fende d’un bagliore
l’orizzonte abbasso della Pala Gozzi (1520), e racconta il fermo stagliarsi
degli edifici, l’incidersi contro un cielo aranciato della punta del campanile
di San Marco, alla cui geometrica fermezza risponde, quasi per contrappunto, il
torto profilo delle foglie sul ramo e il zigzagare delle nuvole verso la
Vergine.
Sferzato da questi brani pittorici, anche la scrittura epistolare di
Pietro si fa porosa registrazione, non più verbale ma pittorica, dello scenario
lagunare: le maglie sintattiche si allentano, i verbi scintillano, la tavolozza
lessicale si apre a tastiera accordando con somma precisione sostantivi e
aggettivi. Aretino ricreerà sulla pagina, unendo memoria figurativa e moderna
trascrizione en plein air, i cieli di Tiziano venati di rossi
sangue e di neri contro squarci di luce improvvisa: “Imprima i
casamenti che, benché sien pietre vere, parevano di materia artificiata; e
dipoi scorgere l’aria ch’io compresi in alcun luogo pura e viva, in altra parte
torbida e smorta. Considerate anco la meraviglia ch’io ebbe dei nuvoli composti
d’umidità condensa, i quali in la principal veduta si stavano vicino ai tetti
de gli edifici, e mezzi ne la penultima, però che la diritta era tutta d’uno
sfumato pendente in bigio nero. Mi stupii certo del color vario di cui essi si
dimostravano: i più vicini ardevano con le fiamme del foco solare; e i più
lontani rosseggiavano d’uno ardore di minio non così bene acceso. Oh con che
belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l’aria in là, discostandola
dai palazzi con il modo che la discosta il Vecellio nel far de paesi! Appariva
in certi lati un verde azzurro, e in alcuni altri un azurro verde, veramente
composto de le bizzarrie della natura, maestre dei maestri. Ella con i chiari e
con gli scuri isfondava e rilevava in maniera ciò che le pareva di rilevare e
di sfondare, che io, che so come il vostro pennello è di spirito dei suoi
spiriti, e tre e quattro volte esclamai: ‘Oh Tiziano, dove sète mò?“
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