30 gennaio 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" (4) di Luciano Luciani

Quarta puntata
di memorie autobiografiche 
di malsicura pubblicazione
                                                  Il Borghini, finalmente.
Una vicenda minore, anzi minima, quella che si consumò quasi mezzo secolo fa anni fa sotto i cieli della Toscana. La carità feroce del ricordo mi consegna ancora una memoria, un'altra di quel tempo lontano: le dispense di un corso di disegno tecnico assolutamente necessario per la didattica quotidiana, da realizzare presto e bene e su cui far studiare quegli studenti tanto faticosamente riuniti assieme. Pagine di dati, forme e formule, elementi geometrici, schemi, diagrammi, tavole... Le aveva elaborate il giovane Sassi e si presentavano come un lavoro tipograficamente complesso, delicato. Ce ne occorrevano alcune decine di copie: a chi affidarne la stampa? Al Borghini di Pisa, suggerì Carlo Ciucci, il superiore gerarchico di tutti quanti noi, in virtù dell'età e di un intenso vissuto aclista-democristiano.
Fu così che incrociai Gianfranco Borghini e la sua Editrice Tecnico-Scientifica. Trovare l'uno e l'altra non fu facile: l'indicazione in mio possesso diceva Via delle Scuole, inesistente sulla pianta di Pisa di cui, da migrante organizzato, continuavo a servirmi per gli spostamenti in città. Ma bastò chiedere a un passante gentile che mi indirizzò in via Benedetto Croce, davanti alle scuole appunto, i due licei e l'istituto "Pacinotti". 

Qui, come gli artigiani del Rinascimento, Borghini,  teneva casa e bottega e qui mi accolse. Nonostante la modestia dell'utile che gliene sarebbe derivato, fu prodigo di tempo, consigli e suggerimenti: la copertina, il tipo di carta, il modo migliore - e il più economico - per riprodurre le geometrie e le loro rappresentazioni. Volle conoscere la destinazione di quel lavoro e anche a questo proposito non mancarono idee e indicazioni. Ne ricavai l'impressione, confortante, di aver affidato quel lavoro a una persona competente e scrupolosa. Dirò di più: sinceramente appassionata del proprio mestiere. 
E il risultato finale fu all'altezza di quel giudizio: una copertina accattivante; pagine che era un piacere guardare, toccare e sfogliare; disegni chiari; scritture precise e pulite. Un bel lavoro che meritò, in varie sedi, più di un complimento e contribuì a migliorare l'ancora incerta percezione pubblica della scuola da Pontedera a Firenze e Dio solo sa se ce n'era bisogno.
Un episodio che ebbi occasione di raccontare molti e molti anni più tardi all'interessato. Lui non lo ricordava più, io sì.

                                   San Ranieri, San Ranieri, te futtimmo li bicchieri
Galeotta la festa di san Ranieri (17 giugno), patrono della città una volta marinara, e la luminara che ne accompagna la vigilia, i miei primi amici pisani furono calabresi. Li incrociai mentre furtivo mi aggiravo tra i resti di quella solenne ricorrenza, la "biancheria" - i telai di legno verniciati di bianco a cui sono agganciati per mezzo di un anello di ferro bicchieri di vetro contenenti i moccolotti che accesi servono a profilare suggestivamente l'architettura luminosa dei palazzi del Lungarno pisano - dismessa in terra solo poche ore dopo la processione e i fuochi d'artificio. Scopo inconfessabile di quella sortita notturna? Dotarmi del primo servizio di bicchieri della mia vita: dodici lampanini in più o in meno sui centomila utilizzati dagli organizzatori, non avrebbero certo appesantito in maniera significativa il bilancio comunale. E poi si trattava di vetri Saint Gobin, mica robaccia: di una certa essenziale eleganza il design e, soprattutto, infrangibili.
Pensavo di essere solo ad attendere a quel modesto piano criminale, ma mi sbagliavo. Un terzetto di coetanei si muoveva tra le ombre fitte di quella tepida notte di giugno, palesando le mie stesse intenzioni delittuose. Come andavo facendo anch'io, sfilavano i vetri dai supporti, ne valutavano le maggiori o minori stratificazioni di cera, ne scartavano i pochissimi incrinati. Gentilmente mi proposero di dividere il bottino: non a metà, ovviamente. Visto che loro erano tre (uno alto, uno piccolo e uno grande e grosso) mi sarei dovuto accontentare solo di un quarto del maltolto. Se, però, me ne occorrevano di più, mi servissi pure e loro - "Oh gran bontà de' cavallieri antiqui!" - mi avrebbero aiutato a selezionare i pezzi migliori. Intanto, sottovoce, ma non abbastanza perché  ne percepissi le parole, nell'aria si alzava un motivetto esemplato su un antica melodia popolare. I tre cantavano: san Ranieri, san Ranieri/ te futtimmo/ tutti quanti/ li bicchieri!
"Tra compagni" aggiunse poi quello grosso con l'aria da Mangiafoco "questo e altro"! Da cosa l'Omone potesse aver ricavato la percezione delle mie simpatie politiche potrebbe apparire un mistero, ma forse nemmeno tanto: i miei capelli lunghi e poco curati, l'abbigliamento a dir poco casual e il fatto che mi aggirassi al buio, con aria circospetta, tra gli avanzi della festa patronale con la palese intenzione di rubare qualche lampanino, facevano di me almeno un proletario fuorisede, non certo il figlio con simpatie fasciste di qualche borghese pisano. Disvelate e riconosciute le comuni appartenenze ideali, ne seguì il primo di una serie di innumerevoli inviti a cena: memorabile ognuno per la quantità e la qualità dei cibi e dei vini calabresi offerti con larga, stralarga generosità sudista. 

Per anni, per la gioia del miei sensi e di quelli di tanti, tanti altri ci fu sempre una valigia in arrivo dalla provincia di Reggio Calabria carica di ogni genere di leccornia, ghiottoneria, manicaretto...  Per non rimanere nel generico stiamo parlando di capocolli, pomodori secchi, "frittole" di cotenne di maiale, "zippole" o "crispelle", ovvero focacce fritte con l'acciuga dentro, "cuddùra cu l'ova" - dolci pasquali a base di miele con un uovo sodo al centro -, dolci a base di frutta chiamati "petrali".

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