di Elisa Bertoni
“C’è
una crepa in ogni cosa, ed è così che entra la luce”: questa è una possibile
traduzione di un verso emblematico di Anthem, canzone di Leonard Cohen,
che Marta Glenda Lugano inserisce all’inizio della sua raccolta poetica
intitolata Origine discendente. L’inglese “crack” è crepa, è
frattura, ma anche breccia, cioè possibilità che dal vecchio filtri la luce,
un’illuminazione, una nuova possibilità. Questa duplicità antitetica
caratterizza l’antiretorica poesia di M.G.Lugano; i suoi versi sono imbevuti di
dolore, un dolore sia soggettivo, come smarrimento esistenziale e perdita di
affetto, sia collettivo, come sbandamento sociale, politico, ambientale che si
riverbera nello stile arduo per immagini originali e talvolta frammentato nei
nessi sintattici, come riflesso della simbolica “crepa introduttiva”, che
diventa altresì propulsiva fonte di ispirazione.
E’
proprio questa frammentazione che proietta la sua poesia in una dimensione
immaginifica, a tratti onirica, che supera i confini della ragione.
Questo
aspetto è immediatamente intuibile nella lirica che fa da incipit alla
raccolta, Paesaggio astratto, una visione metafisica allineabile a certe
figurazioni pittoriche di sperimentalismo novecentesco. Con una similitudine
ardita che pone anche l’arte, rappresentata dallo stradivari, in una dimensione
di estrema fragilità e liquefazione (“come uno stradivari nello strutto”)
assistiamo alla presenza di “solidi e liquidi in un ovale”. Per usare una
terminologia cara a Bauman, modernità e postmodernità paiono convivere: le
costruzioni solide dell’età moderna si affiancano alla dimensione liquida priva
di contorni nitidi e definiti della contemporaneità, in un ovale che potrebbe essere
origine di una trasformazione, un uovo-nuovo che supera il postmoderno stesso
anche nella produzione letteraria. In questa atmosfera che rappresenta “il
senso del secolo”, la presenza “incorporata/scorporata” di un tu, che potrebbe
anche essere un io, si apre “lievemente” ad un sorriso, la crepa di luce della
consapevolezza. La vita diventa una sorta di immanenza impermanente, di
presenza e assenza, una paradossale materializzazione smaterializzata come
mezzo possibile per vivere senza un piatto adeguamento ad una conformistica
globalizzazione.
Nella
precarietà della società postmoderna anche il Verbo, celebrato e sacralizzato
nel Cristianesimo e nella sacra religione dell’Umanesimo non può essere
adorato; il verbo abusato, privato di sostanza, non è più in grado di fornire
vera comunicazione; preferibile è dunque il silenzio o “parole sospese”,
frammenti come “nuvole perse/in poveri campi rotondi”.
I
versi di M. G. Lugano nel rifiuto della tradizione, allineandosi ad una sorta
di espressionismo ermetico, deformano la realtà attraverso l’uso di immagini
desuete di un potente impatto emozionale; il susseguirsi di analogie, talora di
non immediata interpretazione, indaga lo smarrimento, l’angoscia esistenziale,
la solitudine di una umanità dolente nell’apparenza boriosa di falsi miti. Ma
in tale contesto non c’è stagnazione, si aspetta l’esplosione della luce
(“corsari di nuvole”), la possibilità di un neo Romanticismo leopardiano
nutrito di illusione e immaginazione (si veda Oceano), la memoria (il
“cesto di viole” da annusare “nei momenti di sconforto”), il tentativo di
trasformare “la miseria” del proprio destino “di pane e arance” in un “orto di
sicurezze splendenti” (si veda Carme dell’addio).
La
natura irrompe nei suoi testi non in modo naturalistico, ma è presenza che si
sostanzia in nostalgia per il primigenio e per una immacolata semplicità, alla
ricerca di una potenzialmente salvifica “origine discendente”, rappresentata
attraverso la simbologia di fiori e frutti che si contrappone all’”orchidea di plastica”
di Incubo n. 3 e alla “fragola non arrossata” di Crack: ecco
irrompere le già citate viole e arance, l’uva fresca, i boccioli di camelia,
l’alloro, le margherite, i giunchi nel lago, il grano, i licheni, il sambuco,
ibischi sempre-vergini, la mela rossa, ciclamini, la rosella dischiusa, le
violette, l’anemone e la salvia, la lavanda, i datteri.
Il
tema della vanità e della velleità, espresso nel suo caratteristico stile
ellittico e analogico, denso nella ricerca di rarefazione, è ravvisabile in vari
testi. Ne prendiamo in esame tre.
1)
Prospettive: il paesaggio si traduce in un
“cimitero di sonniferi” e le “chiacchiere imbandite come un pulviscolo sulle
mense e sui vani” così come “le antiche credenze” sembrano tracciare strade che
si rivelano mortifere, effimere velleità con l’apparenza di vittorie. “Solo il
silenzio osserva gli attimi”: il silenzio, personificato, diviene la
prospettiva virginea che ci lascia sulla soglia in un purissimo desiderante
intentato “una tenerezza qua appare illecita!”. Ci troviamo in quella
sospensione che rifiuta l’oraziano “carpe diem” e rimane in una sorta di
inazione generata dal “timore di confondere il tempo acerbo”, come frutto non
maturo, in contrasto con l’”istinto della creatura”.
2)
Visione: “Nascosta dal cobalto introverso/inseguo
sogni di vana gloria,/improvviso vagabondaggi,/seminando lungo le vie
dell’instabilità”. Il processo di scavo interiore, rappresentato attraverso la
sintetica efficacissima immagine del “cobalto introverso”, quasi un mantello
che ricopre la persona e la nasconde, produce improvvisi “vagabondaggi” che
potrebbero rappresentare le sue stesse poesie individuate come erranze che
seminano sulle vie dell’instabilità, nuova efficace rappresentazione del
post-moderno. La poesia è dunque la chiave per superarlo, seminare comunque. La
consapevolezza dell’instabilità che non tradisce la speranza (“vaneggiamenti in
attesa del verde”) è accostata alla spensieratezza di un fanciullo che d’estate
calcia un pallone: alla fine, pur protetto dalla spensieratezza, ne viene anche
imprigionato (“la sua prigione di nuvola nel sole dell’Estate vuota”). Questo
fanciullo è l’unico che si salva dallo sguardo impietoso di M. G. Lugano nel
tratteggiare altre specie umane: dagli “anatroccoli compunti” fino ai “leoni “
con i loro “ruggiti vanitosi”, emblema della boria presente anche nell’ambiente
intellettuale, e agli “onorevoli/inebetiti di chiaroveggenza”. Questa visione
diviene quasi una profezia della debacle di un mondo fatto di arroganza
e di saccenza, che si merita di mangiare “asfalto rovente”/”la più tenera
pietanza che la propria categoria possa servirgli”.
3)
Ieri: Ieri chiude questa sorta di
trittico dal sapore oracolare, una poesia che diviene esortazione a lasciare
andare le certezze acquisite, “le casse vuote/usate per i nostri traslochi
spirituali”. Dalle “rovine antiche”, dal “seme disperso” “si affacciano nuove
maree e piovaschi secchi” nella possibilità nuova che anche l’aridità abbia un
potere fecondativo (“letti di fiume aridi su cui passeggiare tra i sassi”), per
uno sguardo rinnovato e un nuovo approccio al mondo (“allo scoperta di nuovi
occhi nella terra in cui viviamo”).
Il
malessere esistenziale, quasi un “crepitio di stomaco” (si veda Preghiera)
è conseguenza di un mondo fatto di pochezza, e della necessaria ricerca di ciò
che è spoglio, rozzo (“contadino scarpone”), arido, semplice capace di produrre
genuinità, un Eden post-diluviano, un senso più profondo e vero oltre la
comodità di consolazioni immaginifiche. Dentro l’autrice si muovono spinte di energia
che da una parte diventano disincantate e quasi amare denunce della vanità di
un mondo costruito su boria, potere e denaro, dall’altra spalancano visioni
ribellistiche, come vediamo nel “cavallo maestoso” che “si ribella alla sua
elegante postura” nella speranza di un suo “nitrire sciolto”, o
nell’affermazione di Ferragosto in città: “Eppure mi sento di ribellarmi
alla legge dei poli, ora uguale per tutti”. M. G. Lugano non si stupisce di
fronte al destino di “una poesia dimessa, che nessuno saluta mai”. Poesia di
solitudini esistenziali, dove “la cerniera chiusa sul seno” (da Il Giorno
libero delle ninfe) pare il correlativo oggettivo di chi si protegge dai
battiti scomposti del cuore e così facendo si preclude il cielo, in netta
contrapposizione con l’”altrove” in cui la vita “riesce a dischiudersi”, un
anelato varco montaliano che “si apre al senso”. L’autrice adesso non riesce
più a naufragare nel mare dolce della sua immaginazione, perché “lo stagno è
troppo piccolo per contenermi tutta. / E l’acqua è sempre più gelida
all’entrarvi”).
Ma
poesia è anche un approdo naturalissimo per l’autrice: “Bere al calice della
poesia fu dunque/il più semplice passo in terra,/ un tuffo in aria alleata”, un
affermativo atto di cura del sé (“curo ogni mio più puro sentimento”), che si
nutre di oggetti quotidiani, di animali, dei già nominati frutti e fiori, con potente valenza simbolica, ma anche
poesia dotta con citazioni letterarie (ad esempio Caronte o il verso dantesco
“tanto gentile e tanto onesta pare”), riferimenti colti (il paradosso di
Olbers) il richiamo ad artisti come Frieda Kahlo.
E
poesia di epifanie che illuminano oltre le crepe: “Ma c’è una ragazza inglese
che danza/ nella mia stanza unica, /così, le foglie morte là,/ ora resuscitano
verdi”. La ragazza inglese supera il suo anonimato per diventare, proprio come
il bambino che d’estate gioca a pallone nei vicoli vuoti, un archetipo, in
questo caso della spontaneità vitale, un dono gratuito sottratto alle deludenti
attese, alle aspettative, alle ruminazioni della ragione. L’atto stesso del
danzare per l’autrice è liberazione (si veda ad esempio in Dimitri Ihmetovic
“ho bisogno di danzare anch’io”) e con essa guarigione: “Anche nello sconforto
maggiore c’è sempre una luce che si dirama,/capace di trasportare le nubi in
cieli danzanti/ di guarigioni libere” (si veda E pure nel più piccolo
microcosmo). Si torna così alla citazione iniziale di Cohen. La crepa, sia
essa morte simbolica o reale come la perdita dei genitori, non è fine a sé
stessa; da lì scaturisce la luce della poesia con tutta la ricchezza di
immagini impervie e simboliche nello loro icastica e allo stesso tempo
complessa originalità che M. G. Lugano ci regala e ci offre come
lettura-ricerca che ognuno può compiere, abbandonando le vie dell’ipocrisia e
della appiattente apparenza. Amiamo concludere con i suoi versi tratti da La
pentecoste. Promemoria in un alambicco, un’epigrafe che ha il sapore
d’eternità:
Quando
la morte si fa viva
mi
faccio viva anch’io.