18 agosto 2025

"L'Erodoto che guardava i maiali e altre storie popolari" di Duccio Balestracci

 


Gli umili fanno e scrivono la storia

di Giovanna Baldini

Non solo gli scrittori di chiara fama scrivono. Nella lunga storia dell’umanità l’uomo ha sempre sentito l’esigenza di lasciare traccia di sé, dalle pitture rupestri dell’Hoggar ai diari di viaggio, alle cronache medievali e così via. Si annotano vite, azioni, fatti memorabili di famiglie, comunità agricole e società civili. Gli autori sono uomini di varia cultura, appena colti o quasi analfabeti, ma tutti ugualmente spinti dall’interesse di trasmettere ai contemporanei o ai figli e discendenti una traccia della loro esistenza nel mondo e di quello che accadeva intorno a loro.

Sono curati di campagna e montani, speziali e mercenari, guardiani di porci e vinai. Toscani e dei luoghi vicini, abitanti dell’Appennino tosco-emiliano e oltre, verso nord, modenesi, come la suora che scrisse una Cronica modenese della suor Pioppa, giornalista ante litteram del Cinquecento.

Tutto questo e molto altro si trova nel bel libro L’Erodoto che guardava i maiali. E altre storie popolari. 1300-1600 di Duccio Balestracci, storico medievale, già professore ordinario all’Università di Siena.

L’Autore si occupa della storia dal basso, quella che si trova in appunti, memoriali, diari personali e resoconti ufficiali, scritti da persone comuni, in genere poco alfabetizzate, per le quali, comunque, mettere nero su bianco fa parte del loro lavoro.

E ce ne sono molte di queste storie di gente comune: quella del muratore Gasparo, bolognese, figlio di Filippo di Domenico Nadi, conciapelli. Considerato architetto, lavorò per il duca di Milano, il signore di Mantova e costruì opere importanti a Bologna. Siamo nel XV secolo e Gasparo stesso lo lascia scritto: “Io guasparo naqui da 1418”.

Da questi e altri documenti simili, letti, trascritti, indagati dalla perizia dello storico Balestracci si ricostruisce la nostra storia, da punti di vista diversi e molto interessanti, anche sconosciuti. Si hanno, per esempio, notizie sul clima, gli inverni freddissimi, le eccezionali nevicate o il caldo fuori stagione.

E anche notizie minime e private su fatti epocali come la discesa in Italia di Carlo VIII di Francia diventano importanti. Il parroco della chiesetta sull’Appennino annota il passaggio dell’esercito, una catastrofe di morte e distruzione per la gente comune, travolta nella sua quotidianità.

La storia narrata in questo libro si può dire che è più bella e divertente di quella ufficiale. È la vita vera, senza filtri culturali o sociali, senza atteggiamenti encomiastici o furbeschi, sono fatti riportati secondo il punto di vista privatissimo dello scrivente. Gli uomini e le donne che ci parlano da un lontano passato, hanno subito, affrontato, sopportato guerre e carestie, pestilenze e malattie innominabili come la sifilide, si sono industriati nel bene e nel male per progredire, andare avanti e migliorare. Qualche volta raggiungendo traguardi ammirevoli, talaltra soccombendo.

Allora come ora.

Come Aurelio Scetti, vogatore incatenato al remo della galea “Pisana” che partecipò alla battaglia di Lepanto (1571); era stato processato per un reato che oggi definiremmo femminicidio e in segreto graziato dal granduca Medici, e tanti altri che lasciarono notizie di sé.

Meritoria la pubblicazione del libro che raccoglie numerosissime testimonianze dal 1300 al 1600.

Secondo gli intendimenti delle “Annales” la storia che si legge sui libri di scuola prima di tutti la scrisse la gente comune. Un po’ sgrammaticata e incolta, ma con tanta voglia di essere ricordata e di trasmettere ai posteri le loro esistenze: una storia sociale a lungo termine. Con una lingua parlata nelle varietà dialettali di paesi e villaggi e città: nel caso del libro, centro-settentrionali, scritta così come veniva ascoltata e intesa.

È grazie a loro che il nostro passato è presente.

L’Autore sceglie uno stile piano e un linguaggio discorsivo, adatto a un’opera di divulgazione che attragga il lettore verso la conoscenza di temi che potrebbero sembrare di scarsa fruibilità, difficili e poco interessanti.

  

Duccio Balestracci, L’Erodoto che guardava i maiali e altre storie popolari 1300-1600, Editori Glf Laterza, Città di Castello (PG) 2025, pp.239, euro 20,00

 

09 agosto 2025

"Il giorno dell'ape" di Paul Murray

 


di Giulietta Isola

“Nel paese vicino, un uomo aveva ucciso la famiglia. Aveva inchiodato le porte perché non uscisse nessuno; i vicini li avevano sentiti correre per le stanze, gridare, chiedere pietà. Finita l’opera aveva rivolto la pistola contro sé stesso. Ne parlavano tutti. Che razza d’uomo bisognava essere per fare una roba simile, che segreti doveva nascondere. Le voci si rincorrevano. Tresche, droghe, file segreti nel computer. Elaine era solo stupita che non accadesse piú spesso. Infilò i pollici nei passanti dei jeans e guardò la tetra via principale del paese. Insomma, disse, almeno fai qualcosa».

                Il romanzo di Paul Murray mi ha conquistato fin dall’incipit e mi è piaciuto fino alla fine. Cosa mi è piaciuto? I diversi piani di scrittura, il ritmo, la punteggiatura estremamente scarsa, la famiglia Barnes per la quale ho provato pietà, empatia, sincera commozione. Forse c’è qualche pagina di troppo e qualche passaggio ininfluente, ma nessuno è perfetto. Qui ho letto la storia di una famiglia prima felice poi sgomenta, una famiglia tradizionale di oggi, una famiglia che mi ha intristito e fatto riflettere, fornendomi spunti di grande attualità. Murray mi ha detto cosa siamo e cosa possiamo diventare da un momento all’altro, ha cercato di spiegarmi il nostro tempo che non sempre riesco a capire. 

       La famiglia Barnes vive in una piccola cittadina dove tutti si conoscono. Dickie e Imelda sono i genitori, lui ha ereditato dal padre Maurice una concessionaria d’auto. E’ benvoluto e forse anche invidiato , sponsorizza la squadra locale di calcio ed ha una moglie bellissima Imelda, evanescente, ama gli oggetti costosi ed i vestiti firmati. Una coppia dall’aria solida, con pochi grilli per la testa e due figli Cass e Pj. Cass, appassionata di letteratura, è la maggiore, sogna di andare a Dublino per studiare al Trinity College con la sua amica Elaine. Sono inseparabili, poi distanti, poi di nuovo vicine per necessità, poi chissà. Pj, il figlio minore, è geniale, nerd, ossessivo, osservatore, spirito critico, rompiscatole. Vivono in una bella casa, circondata da un bosco pieno di scoiattoli. Questo prima dello sfascio a causa degli affari di Dickie , una questione non passeggera né rimediabile. La piccola comunità osserva i Barnes con occhi e sentimenti diversi rispetto a prima, anche all’interno del nucleo familiare le dinamiche cambiano. Imelda prende a risparmiare, Dickie sembra affetto da una malattia contagiosa ed è evitato da molti, i figli pensano di dover modificare aspettative e sogni. Macerie sopra macerie abitate dai fantasmi del passato, disastri anche ambientali di un mondo allo sbaraglio alimentano sgomento e paure che non tutti riescono a superare, Barnes inclusi che finiscono per non parlarsi più. 

      Oltre che sui Barnes lo sguardo di Murray e quindi il nostro si posa su altre famiglie, sui problemi, gioie e aspettative degli adolescenti, sul mondo della scuola, sulla poesia, sulla musica, sul clima. Questo di Paul Murray è un romanzo importante e complesso. Niente è più complicato di una famiglia che è serena, poi si sfascia, poi pare salvarsi, poi precipita di nuovo del baratro. Mi sono affezionata ai Barnes, un po’ come mi è successo con i Lambert di Le correzioni, non li dimenticherò tanto presto, le loro sofferenze, la loro incomunicabilità mi hanno emozionato. 

      Queste pagine non mi hanno confortato, mi hanno accompagnato in un viaggio difficile nelle fragilità di una famiglia in un mondo che non perdona debolezze , scivoloni e nel quale la vulnerabilità di una società che insegue la perfezione rischia di far perdere umanità. Straordinari l’intensa riflessione sul cambiamento climatico, i colpi di scena, le immagini che portano ad un finale da applauso.

Non potevi proteggere le persone che amavi: questa era la lezione della storia, e per questo motivo si rese conto che amare qualcuno significava esporsi a un livello di sofferenza radicalmente più elevato.”

IL GIORNO DELL’APE di PAUL MURRAY EINAUDI EDIZIONI

 

29 luglio 2025

"Pitigliano 2025" foto di Gianni Quilici

 

di Rosanna Valentina Lo Bello

        È una foto molto particolare che mi ha trasmesso subito la forza della sospensione, superando egregiamente il peso visivo dell'intera inquadratura che, a primo impatto, potrebbe sembrare squilibrato . Oltre la metà del foglio, infatti, è occupato dalla sola geometrica pavimentazione; poi in alto la panca di pietra con questo corpo femminile disteso? poggiato in lungo lateralmente. No, non ha importanza ciò che si vede, ma ciò che si"sente"... e sento la sospensione muscolare di un corpo umano data dalla trazione di quel collo che sorregge la testa inclinata ...sospesa ... sento la meraviglia visiva di quel braccio poggiato sul gomito, piegato verso l'alto e come linee richiama la piegatura delle gambe che fanno intuire le ginocchia che spingono lateralmente. Mi sembra una posizione per niente comoda, ma sicuramente di assestamento. Bravo Gianni Quilici che ha colto l'attimo! Poi lo sfizioso gradevole completino bianco gonfio a palloncino, lasciando libere striature di pelle abbronzata ha fatto il resto per attrarre un occhio prevalentemente maschile.

Ma è la forza della sospensione della ragazza, che rendono questo scatto, a mio parere,  molto bello e interessante. Ho sentito subito questa foto viva, per niente immobile. Si muove nel pensiero emotivo e concettuale, ancora più veloce dell’immediatezza del visivo. E’ densa. Sembra di poterla toccare nella sua consistenza.

22 luglio 2025

Origine discendente di Marta Glenda Lugano



di Elisa Bertoni

“C’è una crepa in ogni cosa, ed è così che entra la luce”: questa è una possibile traduzione di un verso emblematico di Anthem, canzone di Leonard Cohen, che Marta Glenda Lugano inserisce all’inizio della sua raccolta poetica intitolata Origine discendente. L’inglese “crack” è crepa, è frattura, ma anche breccia, cioè possibilità che dal vecchio filtri la luce, un’illuminazione, una nuova possibilità. Questa duplicità antitetica caratterizza l’antiretorica poesia di M.G.Lugano; i suoi versi sono imbevuti di dolore, un dolore sia soggettivo, come smarrimento esistenziale e perdita di affetto, sia collettivo, come sbandamento sociale, politico, ambientale che si riverbera nello stile arduo per immagini originali e talvolta frammentato nei nessi sintattici, come riflesso della simbolica “crepa introduttiva”, che diventa altresì propulsiva fonte di ispirazione.

E’ proprio questa frammentazione che proietta la sua poesia in una dimensione immaginifica, a tratti onirica, che supera i confini della ragione.

Questo aspetto è immediatamente intuibile nella lirica che fa da incipit alla raccolta, Paesaggio astratto, una visione metafisica allineabile a certe figurazioni pittoriche di sperimentalismo novecentesco. Con una similitudine ardita che pone anche l’arte, rappresentata dallo stradivari, in una dimensione di estrema fragilità e liquefazione (“come uno stradivari nello strutto”) assistiamo alla presenza di “solidi e liquidi in un ovale”. Per usare una terminologia cara a Bauman, modernità e postmodernità paiono convivere: le costruzioni solide dell’età moderna si affiancano alla dimensione liquida priva di contorni nitidi e definiti della contemporaneità, in un ovale che potrebbe essere origine di una trasformazione, un uovo-nuovo che supera il postmoderno stesso anche nella produzione letteraria. In questa atmosfera che rappresenta “il senso del secolo”, la presenza “incorporata/scorporata” di un tu, che potrebbe anche essere un io, si apre “lievemente” ad un sorriso, la crepa di luce della consapevolezza. La vita diventa una sorta di immanenza impermanente, di presenza e assenza, una paradossale materializzazione smaterializzata come mezzo possibile per vivere senza un piatto adeguamento ad una conformistica globalizzazione.

Nella precarietà della società postmoderna anche il Verbo, celebrato e sacralizzato nel Cristianesimo e nella sacra religione dell’Umanesimo non può essere adorato; il verbo abusato, privato di sostanza, non è più in grado di fornire vera comunicazione; preferibile è dunque il silenzio o “parole sospese”, frammenti come “nuvole perse/in poveri campi rotondi”.

I versi di M. G. Lugano nel rifiuto della tradizione, allineandosi ad una sorta di espressionismo ermetico, deformano la realtà attraverso l’uso di immagini desuete di un potente impatto emozionale; il susseguirsi di analogie, talora di non immediata interpretazione, indaga lo smarrimento, l’angoscia esistenziale, la solitudine di una umanità dolente nell’apparenza boriosa di falsi miti. Ma in tale contesto non c’è stagnazione, si aspetta l’esplosione della luce (“corsari di nuvole”), la possibilità di un neo Romanticismo leopardiano nutrito di illusione e immaginazione (si veda Oceano), la memoria (il “cesto di viole” da annusare “nei momenti di sconforto”), il tentativo di trasformare “la miseria” del proprio destino “di pane e arance” in un “orto di sicurezze splendenti” (si veda Carme dell’addio).

La natura irrompe nei suoi testi non in modo naturalistico, ma è presenza che si sostanzia in nostalgia per il primigenio e per una immacolata semplicità, alla ricerca di una potenzialmente salvifica “origine discendente”, rappresentata attraverso la simbologia di fiori e frutti che si contrappone all’”orchidea di plastica” di Incubo n. 3 e alla “fragola non arrossata” di Crack: ecco irrompere le già citate viole e arance, l’uva fresca, i boccioli di camelia, l’alloro, le margherite, i giunchi nel lago, il grano, i licheni, il sambuco, ibischi sempre-vergini, la mela rossa, ciclamini, la rosella dischiusa, le violette, l’anemone e la salvia, la lavanda, i datteri.

Il tema della vanità e della velleità, espresso nel suo caratteristico stile ellittico e analogico, denso nella ricerca di rarefazione, è ravvisabile in vari testi. Ne prendiamo in esame tre.

1)         Prospettive: il paesaggio si traduce in un “cimitero di sonniferi” e le “chiacchiere imbandite come un pulviscolo sulle mense e sui vani” così come “le antiche credenze” sembrano tracciare strade che si rivelano mortifere, effimere velleità con l’apparenza di vittorie. “Solo il silenzio osserva gli attimi”: il silenzio, personificato, diviene la prospettiva virginea che ci lascia sulla soglia in un purissimo desiderante intentato “una tenerezza qua appare illecita!”. Ci troviamo in quella sospensione che rifiuta l’oraziano “carpe diem” e rimane in una sorta di inazione generata dal “timore di confondere il tempo acerbo”, come frutto non maturo, in contrasto con l’”istinto della creatura”.

2)        Visione: “Nascosta dal cobalto introverso/inseguo sogni di vana gloria,/improvviso vagabondaggi,/seminando lungo le vie dell’instabilità”. Il processo di scavo interiore, rappresentato attraverso la sintetica efficacissima immagine del “cobalto introverso”, quasi un mantello che ricopre la persona e la nasconde, produce improvvisi “vagabondaggi” che potrebbero rappresentare le sue stesse poesie individuate come erranze che seminano sulle vie dell’instabilità, nuova efficace rappresentazione del post-moderno. La poesia è dunque la chiave per superarlo, seminare comunque. La consapevolezza dell’instabilità che non tradisce la speranza (“vaneggiamenti in attesa del verde”) è accostata alla spensieratezza di un fanciullo che d’estate calcia un pallone: alla fine, pur protetto dalla spensieratezza, ne viene anche imprigionato (“la sua prigione di nuvola nel sole dell’Estate vuota”). Questo fanciullo è l’unico che si salva dallo sguardo impietoso di M. G. Lugano nel tratteggiare altre specie umane: dagli “anatroccoli compunti” fino ai “leoni “ con i loro “ruggiti vanitosi”, emblema della boria presente anche nell’ambiente intellettuale, e agli “onorevoli/inebetiti di chiaroveggenza”. Questa visione diviene quasi una profezia della debacle di un mondo fatto di arroganza e di saccenza, che si merita di mangiare “asfalto rovente”/”la più tenera pietanza che la propria categoria possa servirgli”.

3)        Ieri: Ieri chiude questa sorta di trittico dal sapore oracolare, una poesia che diviene esortazione a lasciare andare le certezze acquisite, “le casse vuote/usate per i nostri traslochi spirituali”. Dalle “rovine antiche”, dal “seme disperso” “si affacciano nuove maree e piovaschi secchi” nella possibilità nuova che anche l’aridità abbia un potere fecondativo (“letti di fiume aridi su cui passeggiare tra i sassi”), per uno sguardo rinnovato e un nuovo approccio al mondo (“allo scoperta di nuovi occhi nella terra in cui viviamo”).

Il malessere esistenziale, quasi un “crepitio di stomaco” (si veda Preghiera) è conseguenza di un mondo fatto di pochezza, e della necessaria ricerca di ciò che è spoglio, rozzo (“contadino scarpone”), arido, semplice capace di produrre genuinità, un Eden post-diluviano, un senso più profondo e vero oltre la comodità di consolazioni immaginifiche. Dentro l’autrice si muovono spinte di energia che da una parte diventano disincantate e quasi amare denunce della vanità di un mondo costruito su boria, potere e denaro, dall’altra spalancano visioni ribellistiche, come vediamo nel “cavallo maestoso” che “si ribella alla sua elegante postura” nella speranza di un suo “nitrire sciolto”, o nell’affermazione di Ferragosto in città: “Eppure mi sento di ribellarmi alla legge dei poli, ora uguale per tutti”. M. G. Lugano non si stupisce di fronte al destino di “una poesia dimessa, che nessuno saluta mai”. Poesia di solitudini esistenziali, dove “la cerniera chiusa sul seno” (da Il Giorno libero delle ninfe) pare il correlativo oggettivo di chi si protegge dai battiti scomposti del cuore e così facendo si preclude il cielo, in netta contrapposizione con l’”altrove” in cui la vita “riesce a dischiudersi”, un anelato varco montaliano che “si apre al senso”. L’autrice adesso non riesce più a naufragare nel mare dolce della sua immaginazione, perché “lo stagno è troppo piccolo per contenermi tutta. / E l’acqua è sempre più gelida all’entrarvi”).

Ma poesia è anche un approdo naturalissimo per l’autrice: “Bere al calice della poesia fu dunque/il più semplice passo in terra,/ un tuffo in aria alleata”, un affermativo atto di cura del sé (“curo ogni mio più puro sentimento”), che si nutre di oggetti quotidiani, di animali, dei già nominati frutti e fiori,  con potente valenza simbolica, ma anche poesia dotta con citazioni letterarie (ad esempio Caronte o il verso dantesco “tanto gentile e tanto onesta pare”), riferimenti colti (il paradosso di Olbers) il richiamo ad artisti come Frieda Kahlo.

E poesia di epifanie che illuminano oltre le crepe: “Ma c’è una ragazza inglese che danza/ nella mia stanza unica, /così, le foglie morte là,/ ora resuscitano verdi”. La ragazza inglese supera il suo anonimato per diventare, proprio come il bambino che d’estate gioca a pallone nei vicoli vuoti, un archetipo, in questo caso della spontaneità vitale, un dono gratuito sottratto alle deludenti attese, alle aspettative, alle ruminazioni della ragione. L’atto stesso del danzare per l’autrice è liberazione (si veda ad esempio in Dimitri Ihmetovic “ho bisogno di danzare anch’io”) e con essa guarigione: “Anche nello sconforto maggiore c’è sempre una luce che si dirama,/capace di trasportare le nubi in cieli danzanti/ di guarigioni libere” (si veda E pure nel più piccolo microcosmo). Si torna così alla citazione iniziale di Cohen. La crepa, sia essa morte simbolica o reale come la perdita dei genitori, non è fine a sé stessa; da lì scaturisce la luce della poesia con tutta la ricchezza di immagini impervie e simboliche nello loro icastica e allo stesso tempo complessa originalità che M. G. Lugano ci regala e ci offre come lettura-ricerca che ognuno può compiere, abbandonando le vie dell’ipocrisia e della appiattente apparenza. Amiamo concludere con i suoi versi tratti da La pentecoste. Promemoria in un alambicco, un’epigrafe che ha il sapore d’eternità:

Quando la morte si fa viva

mi faccio viva anch’io.

 

 

07 luglio 2025

"Raccontro tra il serio e il discreto" di Valeria D'Andrea

 




Racconto tra il serio e il discreto 

 di Luciano Luciani

Tra i piccoli-grandi piaceri della vita mi sentirei di annoverare la “scrittura libera”. Ovvero, seguire il filo, talora confuso e ingarbugliato, dei propri pensieri, cercando di riportarli sulla pagina bianca così come emergono alle soglie della coscienza, statu nascenti, poco prima / poco dopo la loro stessa formulazione. La ricerca delle parole più adeguate da portare sulla carta per esprimere una memoria, felice o dolorosa, un’intuizione nuova, un collegamento tra due contenuti lontani o lontanissimi e magari apparentemente contraddittori, rimane, almeno per chi scrive, a tutt’adesso, il gioco di maggiore soddisfazione intellettuale o emotiva. 

E tra le pagine di un piccolo libro, in un’edizione non recentissima, scopro che tale attività ludica la pratica da tempo anche Valeria D’Andrea, scrittrice romana e blogger: con leggerezza e ironia, senza fatuità e con una postura morale che le impedisce di scivolare nel banale, che, chi si confronta con la pagina lo sa, è perennemente in agguato, Valeria, una laurea in giurisprudenza e com’è destino della sua generazione tanti lavori e lavoretti, scrive e scrive. 

Quasi, il suo, uno stream of consciousness, un monologo interiore in cui, però, risultano fin troppo governate e controllate le incursioni dell’inconscio. Peccato, perché un più fluido “lasciarsi andare” avrebbe permesso ai Lettori, sempre curiosi delle vite degli altri, di saperne di più circa la scrittrice romana, la sua realtà, le sue fantasie, i sentimenti passati e presenti che la connotano. Insomma, viene poco o punto aiutato l’ingresso del Lettore nella vita interiore del suo personaggio, d’invenzione o autobiografico. 

La D’Andrea, invece, preferisce arrestarsi sempre un attimo prima dell’autoanalisi mordente, della confessione profonda e capace di esplicitare il magma confuso delle sue immagini, sensazioni, desideri, speranze, pulsioni… Al centro delle libere riflessioni dell’Autrice di Racconto tra il serio e il discreto il tema dell’Amore, che, nelle sue declinazioni sempre varie e inconsuete con Amicizia e Rispetto riesce - quasi - sempre a trovare la strada per scrollarsi di dosso cattiverie e bassezze, malignità ed egoismi. Ottimistico e positivo lo sguardo sul mondo della blogger romana: mai banalmente roseo, però, perché sempre conquistato con fatica, talora con pena. 

Un lacerto di scrittura di Valeria, così, tanto per farsi un’idea? Eccolo: “Sento che sta per accadermi qualche cosa di bello perché mi sento bene, ho piacevoli sensazioni e finalmente mi piaccio di nuovo quando mi guardo allo specchio.

Dio, Ti ringrazio e Ti chiedo perdono per tutte le accuse che ultimamente Ti ho mosso.

È che per tanto tempo il mio cammino è stato in salita e, anche se non è detto che mi trovi in prossimità di una discesa, sono qui e ho voglia di vivere”.

Eh già, cara Valeria, per dirla con Paul Valery nel suo luminoso Cimitero marino: “S’alza il vento!... Bisogna tentare di vivere.”

Sempre.

Valeria D’Andrea, Racconto tra il serio e il discreto, Collana Approdi, Editrice Vertigo, Roma 2018, pp. 40, Euro 9,50

05 luglio 2025

"L'unica moglie" di Peace Adzo Medie

 


 

Il peso della tradizione in Africa

di Giovanna Baldini

Alcuni giorni fa è arrivata da noi attraverso la stampa on line e di carta, la notizia che in Uganda le spose bambine continuano a esistere, a soffrire, a essere comprate per quattro o più mucche…

Il libro di Peace Adzo Medie, L’unica moglie, parla di questo. Non delle spose bambine, una piaga che ancora avvelena molti Paesi del Terzo Mondo, ma del peso della tradizione nella società africana. Simile al mos maiorum degli antichi Romani, alle cui leggi, non scritte ma tramandate oralmente, si attenevano tutti i cittadini di ogni convinzione, sesso, età, condizione sociale…

Il romanzo descrive la vicenda di tre persone, due donne e un uomo che, a modo loro, si impegnano per opporsi alla consuetudine per cercare di vivere la vita da individui liberi da compromessi e scelte imposte da luoghi comuni e pregiudizi.

La storia è ambientata nella capitale del Ghana, Accra, città che, a tutti gli effetti, può essere paragonata a una qualsiasi ricca metropoli del mondo di oggi.

L’Autrice, infatti, parla di quella parte della società benestante e opulenta di cui fanno parte Elikem e i suoi fratelli, imprenditori in diversi ambiti dell’economia della capitale.

Elikem, detto Eli, uno dei tre protagonisti, è un uomo moderno, ormai affermato nel lavoro, figlio prediletto di una madre esageratamente possessiva che, in nome dell’onore della famiglia, pretende di imporre la propria volontà sul futuro dei figli, e di essere ubbidita.

Eli ha una relazione con una ragazza liberiana, si amano e hanno una figlia. Muna, la ragazza straniera, non è accettata dalla famiglia e tanto meno dalla madre che ne ignora l’esistenza e, quando può, ne parla male.

Da questo piccolo granello, che inceppa l’ingranaggio del macchinario narrativo, nasce la nostra storia.

Il figlio non vuole disubbidire alla madre e nel contempo desidera mantenere il rapporto con la donna che ama. Di sua volontà la madre decide di farlo sposare a una brava ragazza del suo paese, scelta da lei secondo criteri insindacabili.

La famiglia della promessa sposa, Afi, che dà voce alla storia, scritta appunto in prima persona, accetta di buon grado il matrimonio conveniente non solo economicamente ma anche per il prestigio che ne deriva. Per Afi è un salto di qualità: si trasferirà ad Accra e comincerà a far parte della upper class della capitale.

Ma niente è come appare.

La scrittrice guida il lettore nei meandri della psicologia sociale del suo Paese, dove anche le giovani generazioni, sia pure vestite all’ultima moda, fanno i conti con la tradizione: le consuetudini familiari da rispettare, i pregiudizi, la sottomissione della donna al marito, l’educazione a sopportare i capricci di anziani e parenti.

Afi, lentamente, si accorge di essere stata usata, pedina inconsapevole in un gioco più grande di lei e si oppone. Sa di perdere tutto, ma va avanti.

Eli, marito a metà di Afi, come vuole la madre, non rinuncia a Muna. Potrebbe farlo, glielo consente la tradizione di avere due mogli, ma, in rotta col costume matriarcale, Afi chiede il divorzio: vuole essere l’unica moglie, come promesso dal contratto matrimoniale, stipulato dalle due famiglie. E, come si sa, al cuore (di lui) non si comanda.

Tutti e tre i personaggi principali si oppongono alla tradizione in nome della propria autonomia e lo fanno all’interno della società ghanese, una realtà culturalmente avanzata ed economicamente aperta alla modernità. Ma, nonostante le loro migliori intenzioni, non riescono nel loro intento.

La storia, espressa in uno stile brillante e spigliato, è divertente e appassionante. Per me ha rappresentato la conoscenza di un mondo che mi ha sorpreso: in una realtà digitale all’avanguardia esistono ancora intrecci e complotti familiari, accordi presi dalle madri per il “bene” dei figli, chi decide per gli altri e chi obbedisce sempre…

Giovani che vestono e vivono all’europea, immersi in un contesto rigidamente controllato dal mos maiorum ghanese che impedisce loro ogni libertà di scelta. Incapaci di liberazione personale perché il passato esiste e resiste e il prezzo pagato, alla fine, è altissimo e vanifica ogni personale aspettativa.

 L’autrice, Peace Adzo Medie, ha circa quarant’anni, insegna presso l’università di Bristol e scrive in inglese. L’unica moglie è il suo romanzo d’esordio. È merito della casa editrice Brioschi, sempre attenta alle voci letterarie provenienti dai quattro punti cardinali, averne proposto traduzione e pubblicazione.

 Peace Adza Madie, L’unica moglie, traduzione di Gabriella Grasso, collana Gli Altri, Brioschi editore, Milano 2022, p.269, euro 18,00