di Luciano Luciani
Non c’è occasione nel corso della giornata, in cui mi capiti di poggiare gli occhi su qualcosa di scritto o stampato, che io non rivolga un pensiero grato e reverente alle buone suorine dell’Ordine delle Adoratrici del Preziosissimo Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo.
E come mai un agnostico inveterato, per non dire di peggio, come chi scrive queste note, dovrebbe essere riconoscente a religiose lontane nel tempo e nello spazio? Perché a Roma, nella prima metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, fu proprio nel loro piccolo asilo/scuola elementare / più un fazzoletto di giardino tutto aiuole e fiori davanti alla basilica di Sant’Agnese fuori le mura sulla via Nomentana, che imparai e leggere e a scrivere… Fu un miracolo! Un’Epifania! Come dare la vista a un cieco… Io, allora, ho visto la luce e mi sono gettato indiscriminatamente su qualsiasi cosa di scritto attraversasse la mia esistenza e da allora non ho più smesso.
Iniziai dalle sterminate praterie dei fumetti – “Il Corriere dei Piccoli”, “Topolino”, “L’Intrepido”, “Il Monello”… - per poi passare al giornale quotidiano ”Il Paese”, che portava a casa mio padre tornando dal lavoro, e quindi ai libri… Ho memoria del primo libro, mio tutto mio, perché acquistato, ancora fanciulletto, mettendo da parte i quattrini necessari, entrando in una libreria, scegliendo autore e titolo: I figli del capitano Grant di Jules Verne… Forse di quel romanzo non capii proprio tutto tutto, ma conservo il ricordo di una percezione ampiamente positiva circa quel piccolo evento personale e di come, da allora in poi, la lettura sia sempre stata un atto del tutto individuale e anarchico: qualcosa di assolutamente mio, altrettanto assolutamente privo di metodo e sistema.
Attività “in solitaria”, quella della lettura, che, praticata e ripraticata nel tempo, con ogni probabilità ha finito per influire anche sul carattere, spiegandone incertezze, timidezze, introversaggini e pure una certa resilienza ai guasti della vita. Concordo con Montesquieu: “Non ho mai provato un dolore che un’ora di lettura non abbia contribuito a dissipare”.
Atto necessariamente più faticoso la scrittura, e disagevole. Bisogna abituare il polso e la mano, tenerella, alla fatica del vergare carta… Ed ecco, allora, l’allenamento costituito da pagine e pagine di puntini, astine, quadratini, cerchietti, casette… Azioni noiose, penose addirittura, ma propedeutiche all’arte antichissima di esprimere idee con segni grafici convenzionali. Mi piace scrivere: l’ho sempre fatto. Percepisco che il mio cervello comunica meglio con le mani che con la lingua. “Perché la carta è un filtro, una carezza tra le mie parole e gli occhi dell’altro. Perché mi odio meno scrivendo che parlando Perché mentre scrivo posso correggere, e scoprire le parole a una a una e nulla m’interrompe mentre vado loro incontro” (Héctor Abad Faciolince, scrittore colombiano contemporaneo).
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