di Gianni Quilici
Leggo per la prima volta un classico, anti-classico Il giovane Holden e ne rimango conquistato. Vorrei, però, rileggermi almeno un capitolo con la penna in mano, per cercare di chiarire razionalmente le impressioni suscitate, perché leggendolo ne sono rimasto, quasi sempre, travolto.
Invece decido di fare come Holden: scrivo ciò che penso immediatamente.
Primo: Salinger riesce a diventare Holden in tutto e per tutto, non solo nel pensiero, ma anche nel linguaggio tanto da fargli scrivere non ciò che pensa dopo averlo ben sistemato, ma quello che appena intuisce. I pensieri- racconti di Holden risultano così freschi, perché in una certa misura incerti, insicuri, non totalmente decifrati, stupefatti.
Secondo: Salinger fornisce una straordinaria galleria di personaggi e di situazioni, stampate sulla carta in modo incredibilmente vivo, fotografico.
Esempi: la sorellina Phoebe, Jane, Ackley, il professore che lo accarezza, le due suore, la prostituta, l’amico violento, i due taxisti, il seduttore, le tre ragazze del ballo. Comprese naturalmente le “famose” anatre del laghetto di Central Park
Terzo: il linguaggio evita di annoiarsi innanzitutto con se stesso come personaggio, e si rivolge direttamente al lettore, dialoga con esso, saltando discorsi già scontati o abbreviandoli, usando formule, inseguendo sogni o soggiacendo a tic. Un linguaggio di tipo dialogico, che in questo senso rifiuta ogni compromesso e che per questo si inventa. Un io narrante che non sa tutto, che non capisce, che ha i suoi (non dello scrittore) limiti.
Infine: ciò che emerge è una realtà soffocante, chiusa in se stessa, violenta, priva di libertà, di immaginazione, perfino di vera fraternità. Holden rivendica senza veramente saperlo un altro ordine di cose, un’utopia…
J. D. Salinger. Il giovane Holden. Einaudi
09 ottobre 2005
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