30 giugno 2009

"Jerome Klapka Jerome" di Luciano Luciani


A 150 ANNI DALLA MORTE

Una breve premessa
Quasi quasi me lo perdevo e mi sarebbe dispiaciuto non poco… Sto parlando del centocinquantesimo anniversario della nascita di Jerome Klapka Jerome (Wallsal, 2 maggio 1859) e dell’occasione, magari un po’ rituale, di scrivere qualcosa su di lui e i suoi libri: perché di qualcosa, e magari anche di più, mi sento debitore all’uno e agli altri. Un piccolo omaggio a un grande scrittore, checché ne abbia scritto e ne dica la critica come sempre arcigna e superciliosa. Un modesto gesto di gratitudine a un sensibile e acuto narratore per avermi fatto compagnia durante gli anni di un’adolescenza scontrosa, avvicinandomi alla lettura con le sue storie godibili, e fatto apprezzare l’umorismo nella scrittura.
A lui, a Jerome K. Jerome (ma anche a Jack London, a Salgari e a tanta fantascienza americana anni Cinquanta) più che ai classici latini e greci di un liceo frequentato di malavoglia, devo la formazione del mio immaginario e tanti di quei ‘pensieri di fuga’ che oggi, a più di sessant’anni, mi avvicinano alla quotidiana razione di sonno. Le sue pagine e il garbato umorismo che le intride hanno fatto da salutare antidoto a una naturale propensione allo sghignazzo sgangherato e all’Italum acetum che mi deriva da origini terragne e ciociare.
Per non parlare delle remote frequentazioni con le platee e i camerini dell’avanspettacolo, per le cui raccogliticce compagnie di attori mio padre, in cambio di pochi e rari quattrini, elaborava testi pieni di lazzi scurrili e sguaiati cachinni. Erano gli anni Cinquanta, Bellezza, duri e difficili e bisognava pur campare. Insomma i suoi Tre uomini in barca e I pensieri oziosi di un ozioso mi hanno insegnato ad apprezzare la complicata arte del sorriso della pagina…

Povero non è divertente
E pensare che Jerome K. Jerome motivi per coltivare l’ilarità e la grazia ne aveva avuti davvero pochi… Furono segnati, infatti, dalla povertà e dai lutti familiari gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Il padre, Jerome Clapp Jerome, in origine predicatore non conformista, dapprima investì malamente il modesto patrimonio familiare in una serie di speculazioni sbagliate nelle miniere di carbone del Wallsall, poi, dopo essersi improvvisato commerciante di ferramenta all’ingrosso, pensò bene di morire quando il futuro umorista aveva solo 12 anni. La scomparsa della madre avvenuta tre anni più tardi costrinse allora il giovanissimo Jerome ad abbandonare gli studi e a trovarsi un lavoro come impiegato delle ferrovie presso la compagnia London and Northern-Western Railway. Retribuzione: pochi spiccioli.

“Ho vissuto con quindici scellini la settimana. Una settimana ho vissuto con dieci scellini effettivi e cinque di debito… Se volete scoprire il valore del denaro vivete con quindici scellini la settimana e vedrete quanto potete metter da parte per l’abbigliamento e le spese voluttuarie. Scoprirete che vale la pena di aspettare per un soldino di resto, che val la pena di camminare un paio di chilometri per risparmiare un penny, che un bicchiere di birra è un lusso che ci si può concedere solo a rari intervalli, e che un colletto lo si può portare quattro giorni”,
Duri anche gli anni successivi con il Nostro sempre impegnato nella difficile lotta per la sopravvivenza. Esperienze spigolose che, se lasciarono tracce profonde nella coscienza del giovane Jerome, erano però destinate a essere rielaborate con la garbata ironia che sarebbe diventata la personalissima cifra di questo scrittore. “Sono state dette e scritte molte cose spassose, sulla bolletta, ma in realtà non è poi così divertente. Non è divertente dover tirare sul centesimo. Non è divertente venir giudicati gretti e taccagni. Non è divertente essere mal vestiti, e aver vergogna del proprio indirizzo.
Non c’è nulla di divertente nella povertà… per il povero.”

Gli anni del successo
Proprio perché era tale e non intendeva assolutamente diventare miserabile Jerome fu, allora, attore di fila in una sgangherata compagnia teatrale itinerante, poi insegnante d’educazione fisica, quindi impiegato in uno studio d’avvocato. Attività svolte per pura necessità, mentre si avvicinava la rivelazione della propria vocazione letteraria. Furono infatti gli articoli umoristici scritti per alcune popolarissime testate a garantirgli l’attenzione e l’affetto dei lettori che non gli sarebbero mai più mancati. Al punto che nel 1885 la rivista “The Play” pensò bene di pubblicargli in volume una serie di pezzi con cui Jerome aveva raccontato in maniera tanto circostanziata quanto spassosa le sue modeste imprese di guitto sulle scene dei teatrini di provincia: nasce così In scena e fuori: breve carriera di un aspirante attore, che si raccomanda tra l’altro come utile e puntuale descrizione dei palcoscenici inglesi negli anni tardo vittoriani.
Arrivano i primi riconoscimenti: nel 1886 JKJ riesce a mettere in scena Barbara, il primo di una serie di lavori teatrali che avrebbero scandito l’intera esistenza dello scrittore: niente di memorabile, diciamo la verità, nulla che meriti particolarmente di arrivare sino ai nostri giorni. La fama di umorista arguto e brillante Jerome se la conquista, invece, lo stesso anno con l’ancor letto e giustamente celebre I pensieri oziosi di un ozioso, un libro che, come afferma con simpatica autoironia il suo Autore, “non eleverebbe una mucca”: quattordici pezzi di svariata umanità, esemplari per misurata ironia e sorridente equilibrio.

Ma è il 1889 l’anno della definitiva affermazione del talento jeromiano, quello del suo capolavoro, il celeberrimo Tre uomini in barca Per non parlar del cane, le comiche peripezie di un terzetto di amici scapoli che decide di trascorrere in barca una breve vacanza a contatto con la natura lungo le sponde del Tamigi, da Londra a Oxford. Apprezzato dai lettori di tutto il mondo, tradotto in varie lingue, venduto a milioni di copie il libro ricevette, però, un’accoglienza fredda e scostante dalla critica. Ma, proprio con queste pagine, si confermava, e in maniera definitiva, un fortunato rapporto con la scrittura che sarebbe durato per quarant’anni e che avrebbe visto Jerome passare dal giornalismo brillante al teatro, dalla riflessione filosofica al romanzo autobiografico.

La guerra spegne il sorriso
Si fanno sempre più amare e sconsolate le pagine del grande umorista britannico a mano a mano che sull’orizzonte europeo si addensano, via via sempre più fitte, le nubi minacciose della guerra. Di convinzioni pacifiste e sentimenti progressisti, Jerome visse il primo conflitto mondiale con particolare sofferenza: uno stato d’animo testimoniato sia dalla sua decisione di arruolarsi, ormai cinquantasettenne, come autista della Croce rossa sul fronte occidentale, sia nel suo impegno, l’anno successivo, di farsi promotore insieme a Philip Snowden, Dean Inge e John Drinkwater per un negoziato tra i Paesi in conflitto...
L’angoscia dello scrittore inglese di fronte agli orrori della guerra è visibile in Le vie del Calvario, il romanzo pubblicato nel 1919, appena terminata la Grande Guerra. Durissimo il giudizio di Jerome sugli egoismi sociali che avevano alimentato i nazionalismi europei:
“ – Un nobile ideale “la Patrie” la gran Madre! Sì, se fosse lei che si levasse nella sua maestà e ci chiamasse a raccolta.- …Ma in realtà, di che si tratta? Germania, Francia, Britannia?...una decina di vecchi imbecilli che si danno grande importanza, con le loro grasse consorti a spingerli; figli di altri sciocchi venuti prima di loro; e ciarloni che hanno strisciato per giungere al potere con discorsi tutto fumo e belle promesse. “La mia patria!”…Guardateli! Non vedete le loro pance tronfie e le facce flosce? Una decina di politicanti ambiziosi, di vecchi finanzieri gottosi, di vecchi ricconi calvi coi baffi incerati e i denti finti… Ecco quel che fanno passare col nome di patria! Una banda di vecchi imbecilli senz’anima. E abbiano ragione o abbiano torto, il nostro dovere è di combattere ai loro ordini, di spargere il sangue per loro, di morire per loro, perché loro possano vivere più lustri e più prosperosi”.

Altrettanto nette le sue considerazioni sul militarismo - “Quando insegnate a un uomo a cacciar la baionetta nelle carni palpitanti d’una creatura umana e a rigirarvela dentro spingendola sempre più in là, mentre il sangue zampilla dallo squarcio come una fontana, che cosa ne fate, se non una bestia? Un uomo dev’esser diventato una bestia prima di far questo.” – e sulla regressione a cui erano stati condannati milioni di uomini su tutti i fronti europei: “…le trincee, quasi tombe scavate pei vivi, dove gli uomini stanchi e svogliati, col fango sino ai ginocchi, sospiravano una ferita che li liberasse dalla tetra monotonia di quell’esistenza; le buche d’acqua fangosa su cui galleggiavano cose morte e verso le quali essi la notte strisciavano per detergersi un po’ dal sudiciume incrostato sul loro corpo e sulle loro vesti; le buche sbarazzate dal fango dov’essi si mettevano a mangiare a dormire e vivevano un anno dopo l’altro, finché cervello e cuore e anima parevano spenti ed essi dovevano fare uno sforzo per rammentarsi d’essere stati uomini”. Insomma, la guerra è fango, solo fango, materiale e metaforico: “Fango! Pareva questa l’unica parola atta a descrivere la guerra moderna. Fango da per tutto. Fango sino alla caviglia lungo le strade; fango sino al ginocchio per chi movesse un passo fuor dalle vie segnate; fango che si doveva passare a guado per giungere alle tende e alle baracche evitando i viottoli limacciosi per non scivolare e cadere; uomini sporchi di fango, cavalli sporchi di fango; asinelli che parevano scolpiti nel fango affaticantisi su e giù per la tortuosa strada ferrata che sempre tornava a sparire e a perdersi sotto il fango; cannoni e vagoni trascinati con sordo rumore nel fango; ambulanze e carri che nelle tenebre perdevano la strada, si capovolgevano e restavano abbandonati nel fango; motociclisti che rapidi solcavano il fango rigettandolo impetuosamente in liquidi torrenti ai due lati; automobili dello Stato maggiore in corsa precipitosa, strombettanti tra il fango seguite da zampilli di fango; file serrate d’uomini fangosi marcianti a passo cadenzato nel fango attraverso uno sgocciolio di fango saliente su dal terreno; lunghe file d’autobus piene di fangosa umanità stivata spalla a spalla, sempre rombanti tra il fango interminato… E uomini seduti nel fango sul margine della via, masticando insipide vivande; uomini accasciati lungo i fossi, a esaminarsi le piaghe, a lavarsi i piedi sanguinanti nelle acque fangose, a rimettersi le bende fangose intorno alle ferite.
Un mondo senza colore: non altro colore sotto il cielo che il colore del fango. Persino i bottoni delle divise tinti per farli apparire color di fango.”

Un testo, questo Le vie del Calvario, dai marcati contenuti politico – religiosi e tutto percorso da un lancinante senso di sconfitta storica e di scacco esistenziale.
La Gran Bretagna, l’Europa, il mondo non sono più quelli di appena pochi anni prima, gli anni della Belle Epoque, quando tre giovani spensierati, George, Harris e l’Autore potevano spensieratamente percorrere in barca il Tamigi o solo alcuni anni più tardi attraversare ‘a zonzo’, in sella a una bicicletta, tutta la Germania. La risistemazione dell’Europa operata dai trattati di pace ha lasciato un’aperta ostilità tra gli Stati del continente e pesanti contenziosi ne avvelenano i rapporti politici ed economici. Tensioni sociali e dittature, inflazione alle stelle e diffuse voglie di rivincita agitano i popoli dal mar del Nord agli Urali, dal Mediterraneo al Danubio. Lo scrittore brillante di un tempo non esiste più: si è trasformato in un uomo amareggiato e ancora sconvolto da quanto è stato costretto a conoscere sui campi di battaglia. Capace solo di rifugiarsi in una sorta di pessimismo cristiano a mala pena riscattato dalla problematica fiducia in un possibile perdono divino.
Jerome K. Jerome muore alla fine della primavera del 1927