Roma, primavera inoltrata del 1527.
I feroci Lanzichenecchi danno l’ultimo assalto alla capitale della cattolicità. La città cade e, mentre papa Clemente VII e gran parte della corte pontificia si rifugiano in Castel Sant’Angelo, orde fanatizzate di mercenari, per lunghi giorni, la riempiono di stragi, rapine, saccheggi indiscriminati. Non si arrestano neppure davanti all’ospedale di Santo Spirito, allora il più moderno ed efficiente d’Europa e massacrano tutti quelli che vi si trovano: pazienti e medici, infermieri e orfani.
Il loro furore si arresta solo di fronte a un’altra struttura ospitaliera, il San Giacomo degli Incurabili: troppo orribile anche per loro lo spettacolo che si aprì ai loro occhi offerto dai malati ospiti in quelle corsie: uomini e donne dalle labbra, il naso, la gola corrosi, la faccia ridotta a un’essudazione gocciolante e nauseabonda, corpi sfigurati da ulcere e pustole grosse come ghiande, “da cui fuoriusciva una sostanza talmente sudicia e maleodorante che chiunque si trovasse a sentirne l’odore avrebbe pensato di esserne stato contagiato.” Spaventati dall’ orrendo spettacolo e preoccupati per la propria salute, i Lanzi indietreggiarono e abbandonarono al loro destino di morte quella marcia, mostruosa, nuova specie di lebbrosi, gli ammorbati dal ‘mal francese’, che ancora non si chiamava sifilide, termine letterario che sarebbe arrivato solo tre anni più tardi.
Originario del Nuovo Mondo, diffuso in tutta Europa prima dai marinai, poi dai soldati degli innumerevoli conflitti che avevano ripreso a insanguinare il vecchio continente, allargato all’intera società da un generale rilassamento dei costumi e dall’indefessa attività di legioni di prostitute, il ‘morbo gallico’, chiamato, a seconda dei punti di vista, anche ‘mal napolitaine’ o ‘italienne’, ‘male spagnolo’, ‘male dei tedeschi’, ‘male dei polacchi’, ‘male dei turchi’ e, per finire, ‘male dei cristiani’ si manifestava generalmente in tre fasi: prima l’apparizione di una lesione localizzata nel punto in cui era avvenuto il contagio e quindi di solito negli organi sessuali; poi, dopo sei/otto settimane, una larga eruzione cutanea sotto forma di rosole e papule; quindi, lesioni granulomatose, la cosiddetta ‘gomma’ sifilitica, a carico dei vari organi.
Responsabile di questo sconcio, un batterio, il Treponema pallidum, i cui effetti sono descritti fin dal 1493 dal medico spagnolo Ruy Diaz de Isla: “separa e corrompe la carne, e rompe e decompone le ossa, e disgrega e contrae i muscoli.” Simile nelle sue manifestazioni alla lebbra e infettivo e inarrestabile come la peste, si trasmetteva attraverso i rapporti sessuali e in un breve volgere di anni attaccò la gran massa della popolazione europea, nobili e popolani, borghesi e proletari. Il pontefice Giulio II della Rovere (1503 – 1513), il papa-soldato, non permetteva a nessuno l’omaggio del bacio al piede a causa della sifilide che gli aveva imputridito l’alluce ed è rimasta memorabile la descrizione dell’incontro di Imola tra Niccolò Machiavelli e il duca Valentino: il segretario della seconda cancelleria della repubblica fiorentina fu ricevuto dal Borgia coperto da un una tunica nera, con un cappuccio sulla testa e in un ambiente completamente oscurato. per non mostrare le ulcere che gli sfiguravano il viso.
Nel 1530 il medico-umanista Gerolamo Fracastoro trovò anche il nome con cui designare la peste del XVI secolo: la chiamò sifilide, dal suo poema Syphilis sive de morbo gallico libri tres dedicato a Pietro Bembo, in cui il protagonista, un giovane pastore di nome Sifilo, viene punito con questa nuova orrenda malattia per aver offeso il dio Apollo:
Immantinente comparve sopra la terra
profana
Ignota peste, e colui che, primo col san-
gue sparso
Offrì al re sacrifici e impose altari sui
monti
Sifilo, le ulcere turpi fu il primo a mo-
strare sul corpo.
Ei primo provò notti insonni e sentì i
membri convulsi,
E il morbo da quel che primo colse,
trasse il suo nome.
Sicché Sifilide disser da lui tal peste i
coloni.
E ormai per le città tutte era diffuso
il contagio.”
Un’infezione che ebbe una fulminea diffusione che trovò assolutamente impreparati le autorità mediche e gli organismi statali. E mentre i ceti abbienti riuscivano a limitare i danni, mutando con relativa facilità regime e stili di vita, selezionando i rapporti sociali e privati, i meno fortunati venivano abbandonati al contagio e a misure più repressive e autoritarie che di profilassi igienico - sanitaria.
Dalli alla puttana!
Si accentuarono le misure vessatorie e discriminatorie nei confronti delle prostitute e si affermò un’idea della malattia come punizione. Il sesso perse progressivamente di gaiezza e spontaneità e la sifilide e i suoi guasti entrarono nel repertorio moralistico di predicatori e ordini religiosi, magistrati e santi.
Crebbe nel corso del secolo l’insofferenza verso la figura della prostituta. Uno stato d’animo che, nel suo passaggio da malumore diffuso a vero e proprio astio, risulta ben espresso da due autori cinquecenteschi, Francesco Berni (1497 – 1535) e Tommaso Garzoni (1549 - 1589).
Leggiamo un sonetto del primo:
Un dirmi ch’io gli presti e ch’io gli dia
or la veste, or l’anello, or la catena,
e, per averla conosciuta a pene,
volermi tutta tor la roba mia;
un voler ch’io gli facci compagnia,
che nell’inferno non è maggior pene,
un dargli desinar, albergo e cene,
come se l’uom facesse l’osteria;
un sospetto crudel del mal franzese,
un tor danari o drappi ad interesso,
per darli, verbigrazia, un tanto al mese,
un dirmi ch’io vi torno troppo spesso;
un’eccellenza del signor marchese,
eterno onor del puttanesco sesso;
un morbo, un puzzo, un cesso,
un toglier a pigion ogni palazzo,
son le cagion ch’io mi meno il cazzo.
Siamo, come si vede, ancora nell’ambito della poesia realistico – giocosa che aveva radici ormai secolari, soprattutto in Toscana. In questi versi lo spirito misogino mantiene ancora un che di bonario, è il brontolio borbottone di un uomo deluso dalle donne facili, un modo di sentire, letterariamente elaborato, ancora tutto interno al senso comune ben espresso dai proverbi del tempo, secondo cui “Puttane, ladri e ruffiani stagli lontano”, “Molto guadagna chi puttana perde”, “Gran fortuna passa chi puttana lassa”.
Altra cosa il Garzoni, bizzarro erudito romagnolo che scrive circa mezzo secolo più tardi. Letterato che veste l’abito dei Canonici regolari lateranensi e che ci appare tutto impegnato nel progetto conservatore e restauratore dell’ordine morale sommosso dal disordine rinascimentale, Garzoni ci va giù pesante. “Or quale è” scrive il Garzoni “ quel grand’uomo in armi o in lettere che con la servitù sua non abbia aggrandito il nome delle meretrici, e che non abbia perso dietro a loro il senno, la prudenza e l’intelletto?” “Quanto da loro si riceve e acquista, che non è altro che mille immondezze e sordidezze , le quali onestamente nominare non si ponno. E s’abbellisce il concetto descrivendo quanto son brutte, sporche, laide, infami, furfante, pidocchiose, piene di croste, cariche di mestruo, puzzolenti di carne, fetenti di fiato, ammorbate di dentro, appestate di fuori… l’amore delle meretrici non cagiona altro che miseria e infelicità per fine de’ suoi piaceri. Vadino, dunque, tutte le cortigiane in chiasso; e gli uomini saggi e prudenti attendino ad altri studi che rechino loro utilità, gloria e onore, avendo solo dal consorzio delle meretrici danno e vergogna.”
Da dove arriva, dunque il ‘mal francese’? Dalla bramosia dei piaceri carnali che ha scatenato la collera di Dio. Tornano con forza a farsi strada le ossessioni religiose che il naturalismo rinascimentale aveva contribuito a tenere a bada e a relegare negli angoli bui dell’animo umano. Si eccitano le paure per meglio disciplinare il corpo e le sue passioni, e con la carne le coscienze. È un processo molecolare, quasi un controcanto in crescendo: i disastri e le calamità che sempre più spesso segnano la vita – e la morte – degli uomini, le guerre, la fame, le discordie religiose, le malattie misteriose, senza nome o dai molti nomi, vengono ormai messe in relazione con l’immoralità diffusa nelle città, con il lusso, l’agiatezza e lo spettacolo dei piaceri patrimonio di minoranze satolle e fortunate. “Mortalità, carestia, siccità /son per punire de’ peccati le città”, cantano ossessivamente schiere via via più larghe di penitenti fanatizzati da predicatori sempre più radicali nella individuazione delle responsabilità e nella distribuzione delle colpe.
Ed è la lussuria il peccato per eccellenza, la città la sua casa, le donne d’intrattenimento le sue protagoniste. La Firenze ‘piagnona’ e assediata dagli imperiali di Carlo V non troverà niente di meglio che allontanare dalle proprie mura una trentina di vecchie meretrici. “Le guerre di religione” scrive acutamente J. Rossiaud “portarono il colpo di grazia ai vecchi modi di vivere, e la povertà dell’epoca che seguì fu facilmente indicata e compresa come una punizione dei piaceri trascorsi. Potevano ben esistere qua e là delle piccole isole di calma. Lo spazio sociale - e mentale – era ormai completamente aperto ai cacciatori di streghe, di lussuriosi e di sacrileghi, che ai loro occhi rappresentavano un identico mondo. E fu allora che il monaco predicatore scese dal suo pulpito per mettersi alla testa delle bande armate, e che nella ‘casa delle ragazze’ si istallò, durevolmente, il boia”.