Ciavemo Garibbardi
Ciavemo Calandrella
sti boja de francesi
nun so potuti entrà
l’emo respinti indietro
nun ponno aritornà…
Ma chi era questo Calandrelli, percepito dai romani che resistevano come un personaggio da mettere addirittura sullo stesso piano dell’Eroe dei due mondi?
Andiamo a sfogliare alcune pagine scritte dai protagonisti migliori di quella stagione risorgimentale tanto sfortunata quanto gloriosa. Per esempio quelle del garibaldino – nonché pittore di fama internazionale – Nino Costa autore, parecchi anni più tardi degli eventi narrati, di Quel che vidi e quel che intesi, vivacissimo libro di memorie:
“ Avvenne che un tenente dei garibaldini, rivolto al Calandrelli, insultasse i romani. Calandrelli furibondo gli si fece addosso per colpirlo; venne fermato a tempo. Ma l’ira sua fu tanta da farlo uscir di mente; ebbe proprio un vero colpo di pazzia. Io, allora, lo presi e mi rinserrai con lui in una camera della torre di San Pancrazio. Quando vidi che punto contradicendolo ed anzi secondandolo in tutta la sua demenza verbale s’era ben sfogato, lo lasciai un momento solo. E tornando a lui gli dissi che i suoi artiglieri si battevano da leoni e che domandavano di rivedere il loro Alessandro. Il rumore della battaglia, le affettuose acclamazioni dei suoi artiglieri lo fecero del tutto rinsavire e calmo tornar alla sua batteria. Forse sarebbe ricaduto nella sua esaltazione se una palla di cannone, colta una ruota di un pezzo, non avesse morto uno e ferito alcuni degli uomini suoi.”
Un ritratto veloce ed appena accennato quello del Costa, ma densissimo e che ci offre informazioni e suggestioni. Per esempio, sulle fortissime passioni politiche e civili, spesso coniugate in chiave municipalistica, che animavano e agitavano gli uomini della Repubblica, poi, sulla logorante tensione psico-fisica a cui erano sottoposti i difensori di Roma, segnatamente quelli con incarichi di responsabilità.
E pensare che il cursus honorum di Alessandro Calandrelli fino a quel momento sembra offrirci un ritratto assai diverso da quello dell’ufficiale teso ed esasperato fino al punto di rottura offertoci da Nino Costa.
Nato a Roma nell’ottobre 1805, appena adolescente Alessandro era entrato – come d’altra parte farà anche suo fratello Ludovico di due anni più giovane – come cadetto onorario nell’arma dell’artiglieria dell’esercito pontificio. Brillante ufficiale, si era fatto apprezzare anche come studioso dell’arte militare: al 1836 risale una sua Memoria sull’artiglieria pontificia, mentre nel 1837 viene nominato professore presso la Scuola dei cadetti d’artiglieria. Di stanza a Civitavecchia rivelò interessi e qualità di studioso compilando una Memoria sul castello di Santa Severa ed impegnandosi nella decifrazione e raccolta di antiche iscrizioni. La sua attività appare, comunque, tutta all’interno della istituzione militare: nel 1842 rileva la pianta della piazza fortificata di Civitavecchia, studia le possibilità di difendere la maremma toscana; ricopre spesso le funzioni di giudice militare; dopo il 1847 compila un Regolamento del vestiario della Guardia civica per cui ottiene una medaglia d’oro di benemerenza. Nel 1848, contrariamente al fratello Ludovico, non partecipa alle operazioni militari delle truppe pontificie nel Veneto.
Il 16 novembre di quell’anno – era il giorno successivo all’omicidio politico di Pellegrino Rossi avvenuto con un colpo di pugnale sulle scale del Palazzo della Cancelleria, sede del Parlamento –, al termine di un’imponente manifestazione popolare che reclamava la formazione di un ministero democratico e la ripresa della guerra all’Austria, Pio IX rifiutò di ricevere una delegazione di deputati incaricati di esprimere la volontà popolare e si schermì con promesse molto vaghe fatte per bocca del cardinale Soglia. La folla allora rumoreggiò ed alcune guardie svizzere impaurite spararono sui romani accalcati alcuni colpi di fucile. Ma non erano però più i tempi in cui una provocazione così grave potesse rimanere impunita: subito apparvero delle armi nelle mani dei militi della Guardia civica, mentre i manifestanti si organizzavano per assaltare il Quirinale. Fece la sua comparsa anche un cannone, i cui colpi sarebbero serviti al popolo romano per sfondare i portoni della residenza papale. Fu merito di Ciceruacchio, il tribuno di Trastevere, e del capitano Alessandro Calandrelli, per aver svolto in quella difficile situazione una decisiva opera di pacificazione tra le parti, evitando la strage imminente.
Le vicende convulse delle ultime settimane del ’48 a Roma, segnate dalla fuga del papa e dalla convocazione delle elezioni per la Costituente della Stato romano – mostruoso atto di smascherata fellonia e di vera ribellione, come le ribattezzò Pio IX da Gaeta – videro Calandrella in prima fila insieme ai più importanti esponenti del partito democratico italiano, convenuti a Roma da tutta la penisola: Filippo De Boni, Atto Vannucci, Pietro Cironi, Goffredo Mameli, Nino Bixio, Francesco Dell’Ongaro, Enrico Cernuschi lavoravano fianco a fianco con i democratici romani Carlo Armellini, Pietro Stermini, Giuseppe Galletti, Ludovico Calandrelli, Angelo Brunetti.
Eletto deputato alla Costituente romana, Alessandro Calandrelli ricoprì l’incarico di sostituto del Ministro delle Armi, contribuendo in maniera decisiva all’organizzazione del piccolo esercito della Repubblica, che nel corso della sua storia, tra regolari e volontari oscillò dagli 8000 del febbraio ’49 ai 20000. Non mancava, ovviamente, un reggimento d’artiglieria, una batteria svizzera ed una bolognese capaci di schierare circa un centinaio di pezzi, che, nonostante la sproporzione con le forze messe in campo dall’Oudinot, fecero egregiamente il loro dovere.
Tra gli episodi salienti del contributo dell’ufficiale romano alla difesa della democrazia va ricordato l’episodio del 30 aprile sotto le mura di Porta Angelica e Porta Cavalleggeri: qui le truppe francesi, sbarcate due giorni prima a Civitavecchia, vennero costrette a ripiegare con gravi perdite per essere poi assalite a Porta San pancrazio dalla legione di Garibaldi e da un battaglione di volontari formato da studenti e artisti che le fecero arretrare di posizione in posizione, causando loro perdite assai gravi, mille uomini tra caduti e prigionieri sugli 8000 del corpo di spedizione originario. Decisivo il ruolo degli artiglieri di Calandrelli che, avendo ben meritato, fu promosso a colonnello ed insignito della medaglia d’oro. Tenace e coerente rimase al suo posto fino agli ultimi momenti della morente repubblica: quando l’Assemblea Costituente romana scelse di cessare una difesa divenuta impossibile e di rimanere al suo posto per terminare di redigere la Costituzione che fu promulgata proprio mentre le truppe francesi cominciavano a calpestare la strade della città, Calandrelli, insieme ad Aurelio Saliceti e il suo caro amico, Livio Mariani, accettò il difficile e rischioso compito di entrare a far parte dell’ultimo triumvirato dopo le dimissioni di Mazzini, Saffi ed Armellini.
Sullo scenario di una città piegata alle armi francesi e in mano ai clericali in cerca di rivincita si apre la parte più dolorosa dell’esistenza di Alessandro Calandrelli. In qualità di alto ufficiale dell’esercito repubblicano ed esponente del governo toccò a lui rendere conto dello stato dei magazzini e delle casse dello stato ed è facile immaginare il rigore con cui vennero condotte quelle ispezioni. La rettitudine, lo scrupolo, la correttezza del romano lasciarono ammirati i francesi ma non i clericali romani, impegnati in una feroce e vendicativa caccia alle streghe contro tutti gli esponenti della precedente stagione democratica. Lo stesso direttore della polizia francese, Mangin, intuendo che si cercava di colpire il Calandrelli attaccandolo sul piano dell’onestà personale lo mise in guardia e gli propose di cercare rifugio in Francia fornendogli addirittura un passaporto vistato dall’ambasciata francese. Calandrelli, forte della propria indiscussa moralità rifiutò. Intanto il suo amato corpo degli artiglieri, colpevole di aver preso parte attiva alla difesa di Roma, veniva trasformato in guardia costiera e mandato a morire di malaria nelle paludi Pontine!
Nell’autunno del ’49 l’ufficiale romano, già escluso dall’amnistia e degradato insieme al fratello Ludovico, viene ristretto nelle carceri papali in seguito all’accusa di furto: una perquisizione aveva individuato in casa di Calandrelli armi ed oggetti antichi, di non chiara, a detta degli inquisitori, provenienza. Nonostante diversi giudici dichiarassero di non individuare ragioni per procedere contro il Calandrelli e numerosi testimoni intervenissero a sua discolpa, le autorità vollero a tutti i costi un processo politico dall’esito scontato: l’ufficiale romano venne radiato dall’esercito e condannato a morte.
In carcere nel bagno penale di Ancona non rimase inoperoso: scriveva biografie, disegnava…La sua sofferta libertà doveva giungere, in maniera del tutto inopinata, dal lontano nord Europa…
Suo fratello Ludovico, anche lui prima degradato e poi radiato dall’esercito pontificio, fornito di passaporto prussiano aveva trovato asilo a Berlino: qui risiedeva fin dal 1832, il padre dei due Calandrelli, Giovanni, artista di buona fama e maestro scultore presso l’istituto d’arte di Berlino. La sua supplica al re di Prussia Federico Guglielmo IV perché si adoperi in favore del figlio presso le autorità papali è del febbraio 1851: nonostante l’autorevole interessamento e i successivi interventi di Alexander von Humboldt, naturalista e geografo di fama mondiale, trascorreranno più di due anni prima che il generoso repubblicano possa lasciare il carcere di Ancona, ribadendo in un’ennesima, ultima lettera al papa le ragioni della sua innocenza.La ricostituzione a Berlino della famiglia Calandrelli data alla tarda estate del 1853.Durerà poco, però: infatti, appena un anno più tardi, Ludovico, seguendo la sua vocazione e il suo destino di soldato partirà alla volta della Turchia, per mettere le sue competenze al servizio di quell’esercito impegnato contro le armi inglesi e francesi. Nel cuore del più giovane dei fratelli la ferita aperta a Roma dalle armi francesi non si era ancora rimarginata. Cambiò anche il proprio nome in quello di Mouglis Bey: si faceva chiamare così Ludovico quando la morte lo colse per colera nel settembre 1855, impegnato ad Erzerum nell’allestimento di alcune batterie di cannoni turchi.
Alessandro invece si ferma a Berlino. Conosce e dà lezioni a Ferdinando Lassalle, ancora di convinzioni democratiche e destinato a diventare negli anni successivi marxista e leader riformista del movimento operaio tedesco; continua a mantenere relazioni epistolari con alcuni personaggi della politica italiana, ma in maniera stanca, forse delusa. Solo qua e là si agitano nella sua prosa “i bagliori di fiamma lontana” delle passioni civili e patriottiche dell’antico artigliere.
Solo dopo il 1870 rientra a Roma, dove trova un impiego dignitoso ma modesto come ispettore edilizio del Comune. I suoi ultimi anni ce lo mostrano operoso, ma con lo sguardo rivolto al passato: si impegna nella pubblicistica storica, nella attività della Società dei reduci delle patrie battaglie, ancora avvolto nella sua città dell’aura eroica di quella straordinaria esperienza che era stata la Repubblica Romana.
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