Si chiama Fossar des les Moreres e ti accoglie come una minuscola piazza del Campo. Dal punto più basso del semicerchio disegnato dal selciato di mattoni posti a taglio, spunta una lunga asta rossa che ricorda, col suo andamento ricurvo, la traiettoria d’un fuoco d’artificio o, meglio, d’un proiettile. Alla base arde una fiamma sempreviva e punta in direzione – quasi la sfiora – della fiancata sud di Santa Maria del Mar.
Nella sua nuda solennità è questo il tempio più emozionante di Barcellona, se si eccettua (come secondo me è doveroso) la parodistica esplosione dell’estremismo gaudiano (sui cui lasciti è stato - ma ancora ci sarebbe - da indagare parecchio).
Severa, scarna, pilastri e volte gotici anneriti da fumi di iconoclaste rivolte, rappresenta il pendant d’un intimismo quasi calvinista alla versione iberica (paganeggiante, sfarzosamente superstiziosa) dell’idolatria cattolica.
L’edificio sacro s’affaccia sul Fossar per mezzo d’una balaustra di granito purpureo che reca incise, invisibili per chi guarda dalla chiesa, parole catalane per me in parte oscure. Fra queste una, con la sua potenza evocativa, “trahidor”, fa sobbalzare e stringe stomaco e visceri.
Alla reception dell’albergo un giovane parla italiano. “Cos’è un fossar, chi è il trahidor?” gli chiedo. “Una fossa comune”, dice, e “gli spagnoli”, arrossendo e con un po’ di esitazione nella voce. Il fervore autonomista lo ha portato un po’ oltre, lo aiuto: “Gli spagnoli di Franco?”. “Sì”, sospira, con sollievo.
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