06 aprile 2011

"Nel segno figurativo di Giovanni Acci" di Davide Pugnana
























Alcune di queste ombre mi sono costate molte fatiche.

Guardate: là, sulla guancia, sotto gli occhi, c’è una lieve

ombreggiatura che, se l’osservate in natura, vi sembrerà

quasi irrealizzabile. Ebbene, credete che riprodurre

quell’effetto non mi sia costato pene inaudite?Ma ancora,

mio, caro Porbus, guarda attentamente il mio lavoro, e

comprenderai meglio quel che ti dicevo circa il modo di

trattare il modello e i contorni; guarda la luce del seno,

e osserva come, con una successione di tocchi e di lumeggiature

assai elaborate, sono giunto ad afferrare la vera luce e a

combinarla con la bianchezza splendente dei toni illuminati;

e come, con un lavoro contrario, fancendo scomparire il

rilievo e la granulosità della pasta, ho potuto, a forza di

carezzare il contorno della mia figura , annegata nelle mezza

tinta, eliminare finanche l’idea del disegno, e darle l’aspetto e

la rotondità stessa della natura.”

(da: Balzac,Il capolavoro sconosciuto)


Un’introduzione

Abbracciate nel loro complesso snodarsi - di scuole e movimenti, di tendenze estravaganti e di singoli interpreti - le vicende artistiche del Novecento europeo si uniscono nell’intento di una progressiva liberazione dai canoni tradizionali. Canoni di tipo figurativo: visioni dipinte che per secoli poggiarono su di una base riconoscibile di realtà, seppur individualmente interpretata e trasfigurata. Tra Otto e Novecento, a partire dai nipotini ribelli dell’Impressionismo (Cézanne, Bernard, Gauguin, Van Gogh e Seurat, in quanto a maggiori), i modi di percezione della realtà subirono una frattura; si sganciarono dalla realtà per imboccare quella direzione di scavo che, sulle soglie sperimentali di primonovecento, porterà alle avanguardie storiche (Espressionismo e Futurismo; Surrealismo e Cubismo; Dadaismo e Astrattismo). Anni fa, un amico pittore, mi disse che tutta l’arte novecentesca era nata guardando dentro il cranio della figura urlante di Munch: i pittori, ancora animati dal motto infernale de ‘Il faut etre absolument moderne’, si erano sporti a leggervi dentro. E le innovazioni formali del dipinto? - ribattevo, da neofita longhiano. Ma non avevo capito la portata capitale di quella frase. Non dall’urto sonoro delle vibrazioni che scuotono e incurvano le linee dell’orizzonte; non dal ponticello incrinato in una corsa prospettica pericolosamente inclinata al gouffre; e nemmeno in quegli accordi metallici di rossi sangue, blu e viola, doveva nascere il nuovo. Il linguaggio formale dell’arte del XX secolo nasceva da un dettato interno, invisibile sulla tela. Nasceva da uno spavento: le cose si erano gettate addosso all’uomo in un modo particolare; qualcosa che lo avrebbe portato a scegliere l’urlo, il rottame sonoro che prefigura il linguaggio. Di questa esperienza scriverà Rilke nelle stupende Lettere su Cézanne: “Gli oggetti d’arte sono sempre risultati dell’essere-stati-in-pericolo, dell’essere-andati-fino al limite ultimo dell’esperienza.”. La modernità artistica nasce, quindi, dallo scandaglio di un urlo di terrore, provato davanti all’afasia del senso e chiuso in un cranio calvo ed espanso da alieno. Da quel momento in avanti, i pittori dipingeranno guardando le cose sull’orlo della morte. Dipingeranno - scrive ancora Rilke - “nei giorni di terrore oggetti terrorizzati”. Si dipana così un processo di lenta, operosa e inesorabile spoliazione dei codici figurativi occidentali che - aggrediti con ripetuti linguaggi ’sperimentali’ e ’terrorizzati’ - porterà a quella rivoluzione in-formale che abbiamo imparato a conoscere, rifiutandola nelle sue prime incarnazioni; chiudendoci in un moralismo visivo che - educato alla pittura di figure e paesaggi ben protetti in misurabili scatole prospettiche - veniva provocato e lacerato da soluzioni espressive nuove. Anche il pubblico doveva guardare nel cranio della figurina di Munch: doveva imparare a leggere il mondo con sguardo terrorizzato. Questa eversione radicale prende le mosse dalle avanguardie storiche e attraversa, con la rapidità di una lama, l’intero XX secolo. Alcuni esempi: la contaminazione materica e le combustioni dei sacchi di Burri; la consacrazione ad arte della fisiologia d’artista, con la “Merda” in scatola di Piero Manzoni, promossa a reliquia; l’orinatoio di Marcel Duchamp rinominato “Fontana”, che spostando la percezione dell’oggetto dal suo contesto solito e dalla sua funzione, lo riscopriva come ’forma’, affrancata dal suo compito originario e trasformata in motivo di pura contemplazione, al pari d’una scultura. Oppure: i tagli intellettivi - obliqui verticali orizzontali - di Fontana; le danze pollockiane dell’action painting, con i suoi universi di gocce e filamenti cromatici intrecciati; fino alle più recenti installazioni e performance, nelle quali confluiscono il corpo stesso dell’artista - ora impiccato, ora scarabocchiato, ora denudato, ora profanato con oggetti dal pubblico; i lampadari fatti con gli assorbenti interni; gli ippopotami di fango; i sacchetti usati; le tele bianche, strisciate di sangue e d’oro, o le evanescenze degli informali, aperte a infinite combinazioni. Nel tempo, la soglia di legittimazione per un’opera d’arte, si è così allargata e abbassata che, nella cornice ufficiale di una Biennale, può capitare di tutto.

Questo discorso introduttivo mi serve per poter parlare di una tendenza artistica parallela e opposta alle palingenesi avanguardistiche. Le quali hanno modificato la percezione visiva e il gusto dell’uomo moderno, accogliendo nel dominio dell’arte un’idea di estetica brutta, deforme, incomunicante, contaminata, autoreferenziale; ma terribilmente sperimentale. Esiti come le composizioni di Kandinsky o il dadaismo hanno dato i loro frutti e prospettato le attuali conseguenze. Li abbiamo rifiutati e subiti, in nome del realismo; poi accettati e digeriti, masticandoli lentamente; oggi li consumiamo senza più viverne la vertigine del trauma e dello shock visivo; senza più provare quel contatto col ’sacro’ che Rudolf Otto diceva misto a spavento. Da questo versante, molti ne sono usciti con la testa e lo sguardo cambiati. Molti hanno pensato, e pensano tutt’oggi, che solo lì, nel perpetuo movimento di azione/distruzione delle avanguardie, si trovi il senso di un’arte definita ‘contemporanea’ . Vedremo, analizzando alcune opere di Giovanni Acci, come i concetti di sperimentalismo e di modernità trovino esiti di felice innovazione anche mantenendosi in uno stretto rapporto di continuità con la tradizione pittorica antica: un dialogo ininterrotto fatto di prestiti e citazioni, di sapienza tecnica e fedeltà al ’mestiere’; svolto col piglio conoscitivo di una tenace esplorazione della realtà e delle cose. Così, il Novecento artistico è secolo scisso in un percorso biforcato: due ricerche antitetiche, ma quasi necessarie l’una all’altra. Proprio dal loro accostamento stridente, dal loro violento escludersi, è possibile ricavare un affresco il più possibile organico e vitale - ossia dialettico - dell’arte novecentesca.

Alla seconda tendenza appartengono i pittori cosiddetti ’figurativi’, già attivi durante le avanguardie, rubricabili nei nomi della prima generazione del Novecento: De Chirico e Dalì, per orientarci tra i due poli più alti. Ai quali segue un filone di artisti incompresi, esclusi, tacciati di anacronismo (concetto di più sfumata semantica, su cui si dovrà tornare), di panie tradizionaliste e di eccessivo compiacimento stilistico. Una storia tutta ancora da scrivere, punteggiata di opere di straordinaria fattura: olii, tempere, acquerelli, acqueforti, grafiche, sulle quali è caduta la censura e il silenzio dell’accademia avanguardistica e dei critici militanti. A questo proposito c’è uno scritto magistrale di Vittorio Sgarbi (“La stanza dipinta”) che fa luce in questa terra sommersa e di cui voglio riportare un passo significativo, utile per terminare le linee, seppur sommarie, di questo abbozzo di cornice storica alla pittura di Giovanni Acci: “Così è sorta una città sotterranea, dove si sono rifugiati, orgogliosi e imperturbabili, artisti di sicuro talento, e dove giungono, come naufraghi sopra una terra insperata, alcuni temerari che non hanno piegato le vele nella direzione del vento favorevole e hanno affrontato tempesta e bonaccia per arrivare a un luogo di cui avevano sentito parlare, ma della cui esistenza non erano neppure certi fino in fondo. Si è trattato per molti, fin dalla prima generazione di questo secolo, di scavalcare le avanguardie, di attraversarle ignorandole, di riagganciarsi all’ultimo gesto della mano con il pennello o con la pietra, di ricominciare dove il percorso si era interrotto. Per molti è stata una testarda coerenza, una polemica ragione di vita, nell’isolamento e nel silenzio, per altri, e soprattutto ora, è una dimostrazione di riscatto. C’è un intero arcipelago, ancora in buona parte sommerso e inesplorato, di cui l’unico iceberg emerso, universale e quasi sprezzante nell’affermazione di un valore non comparabile con la moneta corrente, è Balthus. Al suo fianco e nella sua direzione e nell’opposta, ma con lo stesso metodo di paziente e pensata elaborazione dell’immagine, ci sono altri, anche grandi; e non saprei dirvi dove poterli incontrare, se non nei loro studi, in qualche rara mostra: certo non nei templi consacrati all’arte.”


I

Giovanni Acci è un sommerso da poco salvato, che condivide - assieme ad altri grossi artisti - la condizione di sistematica esclusione e marginalità così ben lumeggiata da Sgarbi: quella di chi sceglie il percorso (solo apparentemente tradizionale) di una ricerca di tipo figurativo.

Occorre aver attraversato queste riflessioni di tipo storico-artistico per comprendere l’impatto decisivo di un’ampia retrospettiva, organica e filologicamente curata, come quella organizzata nei locali della Chiesa e del chiostro Sant’Agostino a Pietrasanta, lo scorso dicembre-febbraio 2011, dal titolo: “Giovanni Acci (1910-1979). L’artista, le opere.”, nata dalla rigorosa curatela della figlia Maria Acci Kazantijs. E se mi sono deciso solo ora, a distanza di mesi, a tracciarne un bilancio, non in termini militanti, ma di ‘storia dell’arte’, è proprio per quel misto di vertigine e di spavento che produce il contatto con opere nate dalla miscela del ‘sacro’, quando esso si palesa autenticamente vissuto; ma c‘è, di contro, quel terrore percettivo che non permette al fruitore quell’immediata lucidità cartesiana così necessaria ad una lettura critica.

Un intervento in sede ideologica di Giovanni Acci è presente in un episodio storico, come firmatario, nel 1947, del manifesto dei “Pittori Moderni della Realtà”, nato dallo slancio dei fratelli Bueno, e approvato da altre personalità, tra le quali Pietro Annigoni. Il sogno durò due anni; attrasse nelle sue spirali dorate diciannove membri e si dissolse nel 1949, con all’attivo cinque mostre. Un passaggio di questo scritto recitava così: “(…) la nostra arte nata in Italia rappresenta un avvenimento di speranza e di salvezza per l'arte e questa mostra vuole essere un primo effettivo contributo alla lotta che si accende. Non ci interessa né ci commuove una pittura cosiddetta "astratta" e "pura" che, figlia di una società in sfacelo, si è vuotata di qualsiasi contenuto umano ripiegandosi su se stessa, nella vana speranza di trovare in sé la sua sostanza.(…) Noi vogliamo una pittura morale nella sua più intima essenza, nel suo stile stesso, una pittura che in uno dei momenti più cupi della storia umana sia impregnata di quella fede nell'uomo e nei suoi destini, che fece la grandezza dell'arte nei tempi passati. Noi ricreiamo l'arte dell'illusione della realtà, eterno e antichissimo seme delle arti figurative.”

Da questo ‘seme delle arti figurative’; da una ’moralità’ intesa come coscienza di tendere ad una pittura di solido stile; prenderà vita una stagione di straordinario e intenso lavorìo figurativo; non solo a livello di invenzione e di visione figurativa, ma anche per l’attualizzazione della tradizione pittorica europea, grazie a recuperi tre-quattrocenteschi; a focalizzazioni di lenti, ripulite dalle croste del tempo, di minuzia fiamminga; allo studio dei campioni dello stile realistico, dagli spagnoli Velasquez, Zurbaran, Murillo a Caravaggio; fino agli equilibri compositivi di luce e di ombre, riscoperti in Rembrandt e in Vermeer. Prende corpo una concezione estetica nata sotto il segno dechiriniano del ’mestiere’, vissuto dai pittori come paziente recupero di un modus operandi cosciente degli strumenti e dei segreti della pittura antica; non solo come mezzi di un apprendistato ‘a bottega’, o accademicamente inteso; ma come veicoli di una sapienza tecnica che rischiava di essere perduta per sempre. Non bisogna dimenticare che la parola ‘tecnica’ viene dal greco Téchne che vuol dire Arte.

E’ questo il sostrato comune, di idee e forme, che lega artisti oggi semi-sconosciuti, tacciati di ’anacronismo’ e relegati nel loro arcipelago marginale. Sono: Pietro Annigoni, Gregorio Sciltian, Antonio e Xavier Bueno, Carlo Guarienti, Alfredo Serri, Carlo Socrate e lo stesso Giovanni Acci. Ma questa linea pittorica non si arresta e corre fin dentro gli anni Ottanta, quando un gruppo di artisti toscano-liguri tentarono, ancora una volta, di aprire una breccia figurativa nella lingua pittorica italiana. Fu così organizzata una mostra a Milano, caldeggiata dal commendator Rubboli, che promuoveva l’operato ed esponeva opere di giovani talenti emergenti: Aldo Bandini, Paolo Cavallo, Millo Lasio e altri. Nomi che ai lettori di Pietrasanta suoneranno familiari, mentre a quelli tra Lucca e Viareggio diranno forse poco. Poteva essere un capitolo fertile dell’arte italiana, ma anche questo rimase un appuntamento mancato: come i pittori del 1947, anche questi ultimi si sciolsero e ognuno prese una via di individuale ricerca.


II

Un tratto costitutivo dei figurativi novecenteschi, nonché il medium che stringe la parabola artistica di Giovanni Acci a quella degli altri pittori ( che la retrospettiva di Pietrasanta è riuscita a cogliere), è l’ampiezza dei generi pittorici attraversati e rinnovati dall’interno. Percorrendo la mostra di Acci, da una sala all’altra, si squadernava un ventaglio ampissimo di soluzioni, temi, forme, registri e tecniche pittoriche che dava la misura della versatilità di questo artista, pronto a misurarsi con ogni grado della tastiera espressiva.

Persino la più rapida compulsazione del catalogo apre su quest’orizzonte stratificato che fa del paesaggio pittorico di Acci un terreno di forti sperimentazioni. Colpisce innanzitutto ‘la mano’ di Acci. Sia quella mano che sarà ossessivo leitmotiv iconico dei suoi ‘autoritratti’ (Autoritratto con pennelli, del 1954), a un tempo simbolo e metonimia della pittura come mestiere, quotidiano esercizio; sia nelle sue figure, ora come dolce nodo ritmico di dita sovrapposte, secondo un’impostazione leonardesca (Lisa o Ritratto di Milena, 1956), ora con soluzioni opposte, di minuzioso plasticismo ‘epidermico’, come nella stupenda mano di Donna con limoni”(1954), così sbalzata da assorbire in sé tutta la percezione del dipinto: gioco di pieghe e rughe di fattura quasi geologica, costretta a darsi battaglia con la cornice floreale di foglie e limoni; salda però, come un morso, sul cesto di vimini, della cui grana sembra nutrirsi; monumentale cosa tra le cose.

Ma la ‘mano’, nel gergo tecnico degli artisti, indica anche colui che è dotato di elevate capacità disegnative. Elemento che, nel caso di Acci, si offre come chiave di volta del suo mondo figurativo. La sua abilità grafica gli permise di elaborare opere dall’ossatura formale solidissima; o, viceversa, di sfrangiare con sicurezza le forme e i volumi. Si attraversano così le prove disegnative presenti nella mostra: la serie di ‘studi’ preparatori dei ritratti: della madre, del padre, della figlia Maria, degli amici, risolti con un nitore di tratto in cui si fondono il segno tedesco, pulito e marcato, ‘alla Durer’ e il guizzo serpentinato e nervoso del Pollaiolo. Disegni tracciati a sanguigna; a carboncino; a biacca; a gessetti colorati; provati su tutti i supporti cartacei.

Si attraversano poi i moti della tavolozza. C’è un inesausto collaudo degli accordi cromatici, cercati da Acci lungo tutta la sua carriera pittorica. Si va da una timbrica monocromatica, fortemente evocativa, di alcuni paesaggi e marine (“Case monocromo”, 1962-63; “Marina con capanno”, 1963; o “Follia”, 1962, cavata per ispirazione musicale); ad aggiornamenti potenziati dall’uso di una gamma accesa: il rosso carminio dei cespugli, resi in guisa di fiamme, nella serie dei “Paesaggi con manichino” del 1962-63; la preziosità donata da una tinta singolare come il lapislazzuli, tutto condensato da Acci nell’abito di Lisa-Milena: una tunica di raffinata fattura pittorica, che regge il confronto con la stoffa e il bisticcio di pieghe del turbante della “Ragazza con l’orecchino di perla” di Jan Vermeer. E troviamo la gamma smorzata dei bruni, delle terre, dei viola profondi, velati e ammorbiditi con velature di lacche, che formano la tessitura in tanti sfondi: come in “Maschera”, un bozzetto del 1957, nel quale campeggia una figura di donna, fusa con il contesto in un unico blocco continuo di tinte cupe, rotte dal carnato giallo del volto e dalla striscia di rosso delle labbra.

Il giallo è il perno della tavolozza di Giovanni Acci. Tutti gli altri colori vi ruotano attorno; ne sono soggiogati e sporcati; piegati, arricchiti e annientati; o profondamente permeati, come da una forza non ricevuta dai sensi, ma nata dal di dentro. Della scoperta di questo “giallo-luce” , Acci parla spesso nelle sue lettere. Come nel caso dei gialli arlesiani narrati a Theo da Van Gogh, a sentirlo raccontare questo ‘incontro’ si capisce davvero la valenza profonda, per nulla narcisistica, che la ’tecnica’ assume per Acci, come per gli altri pittori figurativi: all’esplorazione di un colore sono dedicati mesi di faticosa ricerca. Racconta di averlo percepito in maniera nuova, per la prima volta, durante il suo soggiorno in Versilia. Lo definisce “giallo-luce”, nato dall’osservazione del paesaggio, ma sentito subito come “arbitrario”: un colore che messo a contatto con le cose produceva una luminosità “non ricevuta, ma emanata”. Dall’interno all’esterno: la scintilla di un cuore pulsante, un dàimon che anima le cose. Nelle lettere di questo periodo versiliese, perfino il lessico di Acci insisterà su di una metafora ossessiva: la fiamma. Ciò che questo giallo-luce produce è ‘fiamma’ : un giunco; la sabbia; un accostamento; il verde dei prati trasformato in giallo; i corpi stessi delle figure, limoni soprattutto - ogni cosa brucia di questo giallo. Questo è il passaggio decisivo che mostra il superamento della base di realtà e la congiunzione della tecnica all’idea artistica; del mezzo al simbolo e alla visionarietà: il giallo-luce, scoperto nella natura versiliese, finisce per diventare veicolo capace di aprire sovra-sensi; di trasfigurare le figure in entità irreali; di astrarre oggetti, come i limoni nel cesto, la cui potente presenza e il cui minuzioso realismo scopre una pura visionarietà.

L’apparente fedeltà alla tradizione è incrinata anche su un altro versante. Nella pittura di Acci sono percepibili richiami a simmetrie latenti, dislocate su più livelli. C’è un uso di archetipi e simboli di tipo geometrico, come la scelta di inscrivere i volumi delle figure in una forma circolare, riallacciandosi ad un concetto rinascimentale di matrice neoplatonica (il cerchio come simbolo di perfezione spirituale); un modulo che, intrecciato a forme romboidali e triangolari, diventerà vero e proprio principio architettonico di costruzione di alcune figure: si veda ne “La gitana” (1957), l’ellissi tagliata della gonna che riecheggia e prosegue nella circolarità conchiusa del movimento di mani e braccia, per finire nelle due curve della scollatura e delle spalle; oppure nella già citata “Donna con i limoni” (1954), dove la tesa largamente ellittica del cappello si rovescia in basso, in un ampio ritmo curvilineo che culminerà, via via riducendosi in piccoli moduli, nell’accavallamento dei limoni; nelle costole lignee del cesto, per scendere nel dorso tenace della mano e farsi rivolo nel gioco scomposto delle dita.

Acci dissemina nei suoi dipinti anche moduli archetipici di tipo inconscio. Li troviamo nella maniera di costruire i volti. Volti che sembrano obbedire a una matrice profonda: una sorta di rispondenza aurea che li stringe in una consanguineità stilistica. C’è una coerenza fisiognomica, ad esempio, che lega il volto della donna con i limoni; del padre del pittore; e della serie di Cristi. Analogie morfologiche: i ritorni di un angolo di mento; di una certa curvatura del naso; o il disegno degli occhi, sempre larghi, come la campitura degli zigomi e l’arcata sopraccigliare. Una sorta di sigla-firma, di codice identitario, che rende le figure di Giovanni Acci immediatamente riconoscibili, più come immagini di una figura al fondo dell’interiorità che fedeltà alla verosimiglianza.

Accanto ai ritratti, che raccontano il microcosmo affettivo dell‘artista (il padre, la madre, la moglie, la figlia, gli amici), troviamo un ciclo di figure accovacciate in scenari onirici e metastorici, con sagome di città sullo sfondo, pronte a rompere la bolla notturna e perturbante che le riveste (si veda “Venezia 72”; Venere, 1973 e Adamo ed Eva del 1966-67). E’ una sperimentazione espressiva che Acci affronta a partire dai suoi studi approfonditi dell’anatomia umana e che lo avvicina ad una figurazione-deformazione novecentesca che avrà esiti alti in Bacon e a venature surrealistico-simboliste. Ma rispetto alle anamorfosi oniriche e violente di Bacon, le deformazioni anatomiche di Acci non nascono da un impulso espressionistico-esistenziale; ma rispondono al desiderio di costruire la figura seguendo moti interiori che tendono all’architettura. Da qui il senso di monumentalità delle sue figure.

Tutta una sezione della mostra è dedicata al genere della natura morta. Sono raffigurazioni avare di oggetti (frutta; fiori; brocche; maschere), lasciati cadere su stoffe drappeggiate, secondo una disposizione dal ritmo paratattica, che genera attesa, senso di vita silente, e rivela l’abile regia compositiva e simbolica di Acci. Ne abbiamo un esempio in “Limone, panno, bottiglia con tappo rosso” (1962): la scenografia è quella di un notturno felpato, evocato da uno sfondo blu a mo’ d’orizzonte; nel mezzo del piano, un panno di velluto viola separa un limone da una bottiglia, messe ai lati opposti ma fatti dialogare tra loro, come poli di una diagonale ideale che taglia il dipinto. Le note cromatiche si staccano in tutto il loro plasticismo e la loro potenza di colori primari: al giallo del limone in basso risponde il rosso del coperchio in alto, già sottolineato dal blu di fondo. Una perfetta sinergia di forma, geometria e cromìa. Totalmente isolati e pronti ad espandersi, questi oggetti sono staccati dal resto attraverso un’aura che corre lungo i loro contorni: una sottile linea evanescente, scaturita da una fonte interna agli oggetti e capace di ritagliare una vita materica autonoma. Questo rivela quanto - nel genere della natura morta, ma non solo - Acci riesca a conquistare una pittura “di cose”; che significa, celinianamente, scavo au bout de les choses: sviscerate nella loro segreta bellezza di forme. Pensiamo, come estremo risultato moderno di cose sviscerate, alle pere e alle mele di Paul Cézanne.

III

Di fronte a questa attività, abbiamo la percezione di un pensiero pittorico in movimento, aperto agli snodi e agli aggiornamenti di diversi linguaggi pittorici, con una coerenza interna tenuta sul filo di una tensione immaginativa alta, fino agli ultimi anni di vita.

Ritorna in Giovanni Acci il sogno di una sapiente fusione di disegno e colore che Balzac rappresentò nella figura di Frenhofer, il pittore protagonista del romanzo breve “Il capolavoro sconosciuto”; salutato dalla critica come prefigurazione allegorica del passaggio dalla figurazione all’informale dissoluzione della forma. Quest’opera non è solo un vagheggiamento balzachiano per un’unione delle due scuole dell’epoca, il colorismo di Delacroix e il linearismo di Ingres. Si spinge oltre. Nasconde in sé un diario intellettuale. Essa è una lunga analisi dei segreti tecnici della pittura: di quei mezzi espressivi che, conosciuti in profondità e dominati, si trasformano in varchi d’accesso per la recherche de l’absolut. Qual è l’opera assoluta che Giovanni Acci potrebbe tener nascosta agli occhi di tutti, al pari della donna dipinta gelosamente custodita da Frenhofer, quella Catherine Lescault con la quale egli vive tutta la sua vita, fino a distruggerla? Non ci possono essere dubbi, né sfogliando il catalogo né standoci davanti alla mostra. E’ il “Ritratto del padre”, dipinto all’altezza del 1947. L’ho lasciato in fondo a questo scritto perché come prova ultima, estrema andrebbe vista. Il capolavoro assoluto di Giovanni Acci. Un punto di fusione altissimo che non raggiungerà mai più, nemmeno in opere riuscite. Dipinto per quindici mesi, fino alla sfinimento (“dopo essermi ben tormentato e spremuto”), questo ritratto segna il punto di massima sintesi artistica di tutti gli elementi della ricerca pittorica di Acci. Ed è difficile restituirne un’analisi dettagliata, anche solo un’equivalenza verbale; perché la solidità classica che porta in sé e che lo consegna per sempre alla grande pittura - quella che vive fuori dal tempo e dalla storia a cui appartiene - si coglie solo standogli davanti. Chi ha avuto l’esperienza percettiva di vertici come la “Velata” di Raffaello; le “Meninas” o il cortile di Delft dipinto da Vermeer - per dire tre esempi di pittura assoluta - conosce bene la sensazione, anzi la coscienza di trovarsi davanti a qualcosa che resisterà nel tempo. Qualcosa che non lascia spazio, in chi guarda, a dubbi interpretativi o alla soggettività del giudizio di gusto. E’ qualcosa di definitivo, oltre il quale c’è la rovina, la distruzione. Aggiungere o spostare qualcosa in queste opere vorrebbe dire andare incontro alla dissoluzione, e al fallimento, come la Catherine dipinta da Frenhofer, e della cui perfezione rimane la testimonianza di un piede, sopravvissuto al delirio tecnico del suo autore. Il ritratto del padre Fortunato appartiene a questo dominio assoluto. Un’analisi complessiva di quest’opera sarebbe possibile. Si potrebbe insistere sull’unità di coerenza stilistica; sull’armonica fusione di disegno, colore e concezione dello spazio; di corrispondenza tra stile e visione. Si potrebbe anche dire, senza timore, che esso potrebbe stare appeso accanto a Rembrandt e a Renoir - reggendone il confronto. Ma tutto ciò non sarebbe mai abbastanza definitivo.


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