Umiliato e/o offeso, deluso e/o sconfitto, perdente e/o in fuga, sempre l’eroe del romanzo novecentesco – ovverosia quello senza qualità, quello Normale – ama il recupero memoriale, quel gesto di tenerezza nei confronti del mondo che conosciamo e che tutti, chi più chi meno, abbiamo praticato: il ricordo, l’unico Eden dal quale non possiamo essere cacciati.
Ma non è solo tenerezza. Far scorrere davanti agli occhi della mente il vecchio film delle emozioni e delle passioni, degli entusiasmi e dei dolori, delle amicizie e degli affetti, delle vittorie e dei rovesci, può aiutare, anche se, come dice il poeta, il ricordo della felicità non è più felicità, mentre il ricordo del dolore è ancora dolore.
Può aiutare a capire. Può aiutare a vaccinare contro il ripetersi delle condizioni che hanno portato alla sconfitta. Dove ho sbagliato? E perché? Avrei potuto fare meglio? Fare almeno diversamente?
Ognuno di noi ha assaporato questi momenti dolciamari di riproblematizzazione delle vicende importanti della propria esistenza. Ripensarle, reinterpretarle alla luce di una maggiore esperienza di vita. Leggere quegli avvenimenti, quelle avventure del corpo e dello spirito, nella più ampia prospettiva di una raggiunta maturità personale e umana, assolversi e/o condannarsi, imparare finalmente a fatica a convivere con se stessi fa parte, tanta parte, del quotidiano gioco della vita.
Tanti, tutti (?), più o meno consapevolmente, conduciamo questo gioco agro e mielato, feroce e morbido: solo una minoranza ristretta, però, lo racconta, magari sul divano dell’analista. Ancora meno sono coloro che questa altalena presente/passato la mettono nero su bianco; pochissimi quelli che lo sanno fare e Beppe Calabretta è tra questi.
Ma se si trattasse solo di un “inventario esistenziale”, Il cielo senza sole rientrerebbe nell’ambito di un onesto, decoroso deja vu. C’è invece dell’altro, in questa opera prima, molto altro: ed è proprio questa densità di temi, in genere inesplorati e abbandonati dalla narrativa, che merita attenzione e rispetto da parte del lettore, del recensore, del critico. Come per esempio, la storia complessa e tormentata di una educazione, quella dei sentimenti e delle idee, di un bambino degli anni cinquanta, che si fa adolescente negli anni sessanta: i favolosi anni sessanta – do you remember? – che, per chi c’era non erano favolosi per niente, anzi! Tempi duri, durissimi ormai lontani ma ancora poco trattati – e male – sia dal romanzo, sia dalla storiografia.
I “riti di passaggio” – dall’infanzia all’adolescenza e da questa all’età finalmente adulta – del protagonista, emblematicamente battezzato Normale, si svolgono, infatti, sullo sfondo di un’Italia povera e dignitosa, quella che, tra mille contraddizioni, e lacerazioni, pesantemente sofferte in corpore vili, nella carne e nella psiche degli inconsapevoli protagonisti della silenziosa rivoluzione che va sotto il nome di miracolo economico, andava conoscendo una forzata modernizzazione negli stili di vita, nei comportamenti privati e pubblici, nei consumi, nel linguaggio e perfino nelle abitudini sessuali.
Le umanissime gesta di Normale, figlio di contadini meridionali proprietari di un fazzoletto di terra, si stagliano sugli scenari di un Sud ora assolato, polveroso e dalla luce accecante, ora freddo, umido e preda della brutalità della natura e della storia. Partecipa, il protagonista, al vecchio mondo rurale e insieme alle dirompenti novità del passaggio violento da una collettività immobile e ingiusta alla società industriale con i suoi miraggi di benessere, i suoi bisogni, i suoi inediti malesseri.
Ed ecco raccontata l’apparizione della televisione – un tema che raccomandiamo agli storici del costume e della mentalità – e la sua formidabile forza omologante che su secolari forme di coscienza preesistenti sovrappone nuove consuetudini e condotte.
Ecco – e sono tra le pagine più gustose del libro quelle del difficile rapporto tra Normale e la scuola – il tormentato accesso all’istruzione e alla cultura anche per i figli dei contadini.
Ecco, ormai narrati attraverso i primi vent’anni di vita del protagonista, gli altri fenomeni salienti di quella fase decisiva: il declino della religiosità, il richiamo delle città; l’emigrazione dal sud al nord; dalle campagne alle città, dove erano concentrati capitali, risorse, capacità, conoscenza, per cui a centinaia di migliaia, a milioni di Normale non restò che il treno del Sud, le valigie di cartone, l’emigrazione, anonimi protagonisti di un rimescolamento senza precedenti nella storia d’Italia, eroi senza nome di un esodo di proporzioni bibliche su cui si fondano ancora oggi, nel bene e nel male, gli equilibri della nostra società.
Ma non sarà per caso che la nostra memoria personale, elevata a paradigma storico prende la mano a Calabretta? Niente affatto, ecco cosa scrive un acuto osservatore della società italiana di quegli anni, lo storico inglese Paul Ginsborg: “Per i giovani… la lusinga della città era irresistibile. Alla sera, nelle piazze dei paesi meridionali non parlavano d’altro. La televisione del bar locale trasmetteva immagini del Nord, immagini di un nuovo mondo consumistico, fatto di Vespe, radio portatili, campioni sportivi, nuove mode, calze di nylon, vestiti di serie, case piene di elettrodomestici, gite domenicali nella FIAT di famiglia.
I giovani, generalmente scapoli, erano i primi a partire. Erano i più scontenti, i più duri, i più determinati”. (P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, To, 1989, pp.299-300).
Nelle pagine finali del suo bel romanzo, con grande sensibilità e senza retorica, Calabretta, forte di una scrittura incisivamente realistica, ci racconta anche tutto questo; ma, si tranquillizzino i lettori, siamo ben lontani dall’ormai desueto romanzo sociale, sebbene motivi che in qualche modo possono richiamarlo scandiscano tutta quest’opera prima e ne rappresentino la parte ancora irrisolta e da riprendere e sviluppare successivamente con maggiore autonomia e convinzione.
Il cielo senza sole ci appare piuttosto il racconto, fortemente segnato in senso autobiografico – e in questo caso felice l’autobiografismo non è un limite, piuttosto un elemento che innerva tutta la vicenda e le dà spessore e credibilità – di un’iniziazione; o meglio di una serie di iniziazioni, quelle liturgie laiche a cui il maschio del nostro tempo di volta in volta è costretto per entrare a far parte della casa “degli uomini”. Non a caso il protagonista si interroga continuamente: “Quand’è che ho incominciato a vivere?”.
Ma se nel mondo antico o nelle società primitive i riti per i giovani che stanno per diventare uomini sono eseguiti in luoghi appartati fuori dagli sguardi dell’altro sesso, per Normale le donne sono sacerdotesse desiderate e necessarie, le ministre sensuali e misteriose della complicata cerimonia d’ingresso. Alla società e alla Storia tocca invece garantire le altre condizioni indispensabili: il duro addestramento, le prove di resistenza e di fermezza d’animo. Solo così e solo dopo, Normale potrà rinascere a nuova vita, più cosciente di sé, del proprio valore, del senso del proprio destino nel mondo.
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