Bella e
infedele
Mi fece sorridere negli anni del liceo, il professore,
che, alle reiterate richieste di noi studenti intorno alla spinosa questione di
criteri certi per tradurre dalla lingua di Cicerone in quella del Manzoni,
rispose con un quesito, ponendoci di fronte a un dilemma di non poca lena: “come
la volete la fidanzata, brutta e fedele, oppure infedele ma bella?
È molto probabile che nel corso degli anni della
scuola superiore la strategia traduttiva, mia e dei miei compagni di classe,
non sia andata oltre una fidanzata e
infedele e brutta: però, quella
figurazione riuscì, con la nettezza propria delle immagini tratte dalla vita
vissuta, a renderci, sinteticamente, tutte le fatiche della traduzione, una
vera e propria scienza interdisciplinare che si muove tra la storia e la
filologia, le letterature comparate e la filosofia, la linguistica e la
lessicologia…
Operazione complessa e delicata, la traduzione! Perché,
se è ormai acquisito che una lingua corrisponde alla visione del mondo di chi
la parla, è altrettanto vero che, come afferma Pasolini, “la lingua è scura /
non limpida” e questo ben lo sanno i professionisti della traduzione, i
traduttori sempre alle prese col dilemma così plasticamente espresso dal mio
docente liceale.
Tradurre un testo parola per parola o intenderne il
senso? Limitarsi a volgere da una lingua all’altra ciò che l’Autore ha scritto
o rendere quanto il traduttore, in scienza e coscienza, pensa che l’Autore
abbia inteso esprimere?
Operare letteralmente e lasciare al Lettore il compito
di individuare il senso e il significato complessivi di un testo, o
interpretarlo, il testo, e fornire al Lettore un elaborato più comprensibile,
ma sicuramente meno fedele all’originale?
Favorevole alla seconda opzione Voltaire che, con la
nettezza che gli era propria, nelle Lettere
filosofiche scriveva: “Guai a quelli che fanno traduzioni letterali e
traducendo ogni parola snervano il significato. È ben questo il caso di dire che la lettera
uccide e lo spirito vivifica”.
Certo, ci perdonino i filologi, le traduzioni più
belle sono quelle analogiche, emotive, istintive: penso, per capirci, alla
traduzione, bella e infedele tanto per rimanere alla metafora iniziale, dell’Orestea di Eschilo realizzata da
Pasolini per Gassman nel 1960; oppure, sempre in quegli anni sessanta, alle Troiane di Euripide rilette e tradotte a
opera di Sartre, l’una e l’altra dense di appassionati sensi civili. Ma anche
qui, attenzione: la storia dell’Ottocento e del Novecento ci presenta non pochi
casi di guerre scoppiate per le differenti interpretazioni nelle diverse lingue
di fragili trattati politici e diplomatici.
Non sono pochi, poi, gli studiosi e i letterati che
sono arrivati a sostenere l’assoluta specificità di ogni lingua e quindi la
loro sostanziale intraducibilità: su questa lunghezza d’onda troviamo fin dal
XIX secolo uno scrittore come George Borrow (1803 - 1881), secondo il quale “la
traduzione è nel migliore dei casi una eco” e, un secolo più tardi, Virginia
Woolf (1882 – 1941): “l’umorismo è la prima qualità che va persa in una lingua
straniera”. Intraducibili dunque le lingue? No, ma onore al merito alle abilità
e alle competenze di quei veri e propri ‘autori invisibili’ che sono i
traduttori trascurati dai recensori, maltrattati dagli editori, ignorati dal
pubblico. È grazie alle loro fatiche, né piccole né poche e spesso malpagate,
che è possibile mantenere il necessario rapporto di osmosi tra le letterature
di tutto il mondo, permettendo così a noi lettori di godere delle invenzioni
romanzesche e dei corti circuiti poetici degli artisti della parola di ogni
area e lingua del pianeta.
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