di Alessandro Claudio Orefice
“Il mastro, il sigaro e la sedia – Romanzo calabrese” è il romanzo di Beppe Calabretta che narra di apprendimento e maturazione cognitiva, fisico-emotiva e sentimentale del protagonista, il giovane Vincenzo che nasce nel 1912 a Vela, un paesino immaginario del versante ionico della Calabria, sotto la formazione del Mastro (anarca-falegname) Andrea.
Non solo di Vincenzo: è anche la storia di una famiglia calabrese e, nel contempo, è la filogenesi della maturazione complessiva e del senso civico di cinquant’anni di storia (e di altri cinquanta, appena effigiati nel romanzo), da parte degli abitanti di Vela, un paesetto della Calabria che sorge al centro di un cratere verde, nei pressi del mare, la cui collocazione immaginativa, è posta tra le macchie della dorsale appenninica calabrese di Serra San Bruno.
Le pagine sono dunque percorse dall’apprendimento, giacchè, come dice Mastro Andrea a Vincenzo alla fine della guerra di liberazione ‘'il passato bisogna sempre averlo presente perché senza passato non si costruisce il futuro e soprattutto si rischia di imboccare di nuovo il cammino che ci ha portato dove ci ha portato”.
La famiglia è al centro del romanzo, vede protagoniste principali donne. Mariantò, Vittoria e Annina, rispettivamente nonna, zia e madre di Vincenzo che a loro volta imparano dalla vita, esprimendo sentimenti segnati da momenti di felicità e drammatiche disgrazie, dove dolce e amaro, senso d'ingiustizia e miracoloso apparire della provvidenza, si affrontano e si contendono la scena come in una tragedia greca.
La descrizione umana nel romanzo, tuttavia non ripropone pedisseque lezioni verghiane. Vero è che l’ombra di condanna alla sventura dei suoi protagonisti, potrebbe anche riconoscersi nella precoce morte in guerra di Nicola, padre che Vincenzo non ha mai avuto modo di conoscere. Ma l’evento luttuoso non è mai narrato aderendo all’ipotesi letteraria di una epopea dei vinti secondo una tradizione naturalistica (e conservatrice), anticamera di una rassegnata sconfitta, quale sorte segnata dei poveri e diffidente chiusura di una antropologia rispetto al cambiamento. Talchè il Mastro anarca, si propone come nume tutelare per la crescita di Vincenzo. Un solo breve e fugace accenno hobbesiano di inimicizia predestinata, pronto però ad essere contraddetto dall’orizzonte di eventi che si susseguono per il protagonista tra le due guerre mondiali in cui si sviluppa la favola di Vela, è dato dal fraseggio di Ciccio, l’amico fraterno di Vincenzo che desolato osserva dalla scogliera inverarsi la legge del più forte ed i pesci grossi che sopraffano i più piccoli.
I valori tradizionali e morali sono serbati da Nastro Andrea per essere trasmessi da protagonista ed essere messi alla prova, rispetto alle situazioni e alle scelte che si susseguono, come cartina di tornasole per verificare la loro tenuta e per misurarsi effettivamente con le problematiche che si presentano nella vita. In questo senso è un romanzo che si confronta con il futuro e (diversamente da quanto accade per molti romanzi di contemporanei autori calabresi che impiegano la memoria per rinserrarsi nell’elegiaco rimpianto di un primitivo benessere tradizional-rurale inesistente), per quanto narri di avvenimenti sostanzialmente limitate a problematiche storiche della prima metà del secolo breve, è un romanzo che parla dell’avvenire, non perde occasione per insegnare al lettore le condizioni della osservazione strategica, a negoziare con le condizioni del presente, ad elaborare strategie per affrontare il nemico e quelle del cuore per amare con lealtà l’amico.
Questo vale per tutte le lezioni che Mastro Andrea (che non è maestro scolastico, ma maestro di vita, sintetizzato nella ‘stoà’ espressiva non scholae, sed vitae discimus), tiene nei confronti di Vincenzo e che, come coerente esempio di formazione, non lesina a fornire neppure a se stesso, perché la disposizione a lottare è giusta se è perseguita in vista di istanze etiche,
Cosa fa il romanzo di Beppe Calabretta? Proprio come fa un Mastro, che dimostra all’apprendista Vincenzo la teoria del valore del lavoro, della vita famigliare e sociale, insegna il senso delle cose, a cominciare dallo stile di fruizione dell’esperienza di fumare un sigaro o fare una sedia per sè e per gli altri.
Quindi è un romanzo che mostra il senso rivolto a fare proprie le responsabilità, a pensare prima agli effetti delle proprie azioni riguardo a tutti i soggetti coinvolti, a ponderare il peso delle cose secondo griglie di rispetto di sé e degli altri.
Mostra esemplarmente, riuscendo dove la pedagogia spesso insiste inefficacemente, cosa sia bene e cosa sia male, cosa sia potere buono e cosa no, con chi convenga la lealtà e chi non la meriti. E lo fa secondo una scuola di insegnamento presocratico, che appartiene alla filosofia greca anarca che traduce Mastro Andrea in un capostipite eudaimonico, un po’ epicureo (vivi nascosto), un po’ stoico (non provocarti dolore).
Mostra a Vincenzo che la guerra non risponde a logiche di razionalità, che il modello assunto a base della fumata del sigaro, sottende logiche di fruizione, che lavorare il legno per fare sedie richiede di pensare prima per pro-mettere, pro-gettare pro-meticamente sulla base di quanto appreso.
In tutto questo scorgiamo un addio alle suggestioni che abitato il tempo dell’eterno ritorno, per predire il futuro, per approdare alla città scientifica, da un tempo ciclico ad una koiné collettiva del tempo per la Calabria, dove si studia, si scopre, si inventa, osservando. E in effetti è in questo senso che va letto il sottotitolo in copertina “Romanzo calabrese”.
Vincenzo si cementa chiedendo consiglio al passato per interpretare il futuro, misurandosi di continuo con il dubbio della sua insufficienza, a cominciare da quella della propria istruzione che perseguirà sempre, come modello per tutti e tre i figli (anche se crescendo li perderà di vista, sia pure solo fisicamente, senza averli mai raggiunti a Genova, Roma e Milano, dove porranno, dopo l’università, il centro dei loro interessi). Fino a quando, ormai nel XXI secolo muore, ormai canuto, con il suo sigaro in bocca, tenendo un libro in mano mentre riposa su quella sedia che, a sedici anni, aveva realizzato con le sue mani e grazie alle geometrie ed alle virtù strategiche e di comportamento, apprese da Mastro Andrea.
Il Mastro, si comporta così con lui come una figura prometeica che accompagna e insegna l’uso della tecnica che però non è mai un fine, semmai un mezzo per imparare a migliorare ad essere se stessi con gli altri, che coincide con il riconoscimento di sottomissione (necessaria e greca, eschilea) alla reciprocità, al limite per tutti: insomma Mastro Andrea e, poi, l’erede Vincenzo, mostrano un agire in una palestra generativa che è quella dell’incastro congegnato con mestiere di etica e razionalità, per stare in armonia in relazione con il mondo.
In 100 anni di vita seguiamo Vincenzo nel verificare, da insegnamento in apprendimento, la tenuta di queste premesse, le cui metafore fanno da cornice a tutto il romanzo.
Ne emergerebbe una forte fiducia da parte dell’autore nelle energie dell’uomo impiegate per dominare la storia guidato da valori di giustizia, secondo una lezione appresa nel lavoro e nella professione, nel mestiere di vivere la storia e secondo categorie del novecento. Di converso, stante lo scivolare veloce della seconda metà del secolo nelle pagine del romanzo, ne emergerebbe una sfiducia nell’affrontare la storia nell’ultimo ventennio di questo secolo.
Restano, pertanto, alcune domande riguardo alle scorciatoie esplicative in relazione al dubbio che l’autore non ritenga essere tuttora validi, forse perché usurati o perché di paradigma inefficace per una pedagogia del presente.
Beppe Calbretta. Il mastro, il sigaro e la sedia – Romanzo calabrese. Tra le righe libri - Italia 2015
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