03 ottobre 2017

"Cesare Brandi, o della scrittura tra Ingres e Medardo Rosso" di Davide Pugnana


 
Di Cesare Brandi possiamo anche non capire tutto. Ne siamo, anzi, quasi legittimati come dentro all'ermetica penombra trasparente di alcune pagine di Contini. La "Teoria del restauro" e, ancor di più, la "Teoria della critica" sono testi inconsapevolmente aristocratici che creano una dialettica insieme di prossimità e distanza col lettore, nel senso più alto di una sproporzione dovuta all'eliminazione di alcuni passaggi argomentativi, tipica dell'incedere ellittico dei grandi saggisti.
 

Possiamo non capire tutto di Brandi, eppure quell'elegante semioscurità ci ricompensa sempre dalla fatica della lettura. Questa vocazione filadelfica verso il lettore è tutta racchiusa nella sua lingua. Il suo modo di dominare il testo figurativo è l'uso di una lingua ricca e precisa; una lingua che organizza il controllo della forma. Naturalmente la lingua non è tutto, contano anche le idee presenti in un testo critico. Ma quando scrive, Brandi fa in modo che l'intera l'espressione visiva sia presente in ogni singola frase, anche se ogni singola frase è solo un frammento imperfetto di un'interpretazione via via approssimante verso quel mondo non scritto. Ogni sua frase sembra essere il sesamo che ci consente di entrare nel regno delle mille e una notte della realtà figurativa tradotta in scrittura. Da qui l'impressione d'esattezza delle pagine brandiane, che riesce a essere preciso anche quando parla di ciò che è sfuggente e complesso.

Due esempi:,
"Ma intendiamoci, non si vuole diminuire affatto questo genio [Ingres], che si arrampicò su se stesso, riuscì ad assidersi, come su un trono, su i suoi difetti, E che ricompensa: il più bel quadro forse lo dipinse a 82 anni, il famoso indimenticabile Bagno turco del Louvre, l’ultimo “tondo”, nel senso quattrocentesco della parola; dopo quell’altro ultimo tondo che aveva dipinto Michelangelo per i Doni. Solo al Bellini e a Tiziano capitò di arrivare così in forma alla vecchiaia: ma mentre per Giovanni Bellini e per Tiziano il percorso nel tempo valse un profondo rimescolamento, un’apertura nuova, Ingres arrivò al Bagno turco come se l’avesse dipinto un anno dopo La grande odalisca, o la Baigneuse. È che questa pittura di Ingres è stata sempre fuori del tempo, e, anche quando era ammirata, risultava sempre inattuale. Poteva così riproporsi tal quale nel 1862, quando il neoclassicismo era polvere e ossa, il Romanticismo in secca, e s’alzava l’alba trionfante dell’Impressionismo. Ma Ingres poteva avere dipinto il suo Bagno turco anche nel 1904, e Picasso averlo visto allora, con la stessa attualità con cui dentro di sé l’ha sentito, quello o quell’altro quadro di Ingres, per almeno vent’anni."
* * *
"Rosso, se possibile, esigeva nell’oggetto una partecipazione esistenziale ancora più pulsante, un’istantanea ancora più veloce; ma intuitivamente si rese conto che l’oggetto allora doveva venire “fermato” in qualcosa che fosse come il gesso in cui si stampa la forma, o rimanervi impigliato come la mosca nel miele. Egli investì l’oggetto della situazione esistenziale che apparteneva in proprio a lui, soggetto: e in questo investimento la spazialità che il modello sviluppava ritornò indietro, gli si depositò sopra come una nebbia leggera, una più densa atmosfera. Entro quel fluido di quasi medianico concepimento, la struttura fenomenica dell’oggetto, involato, fermato nell’attimo fuggente, si disfaceva in lucori appena desti, come di un lume che si accenda in una stanza buia, in fremiti pigri come di liquido denso increspato dal vento. C’era, in quelle cere, una così recente esistenzialità come d’un’anima appena sciolta dal corpo; quasi ancora imbrattata di residui di materia, in quella sua seconda nascita. Ed era il limite estremo, indubbiamente, di quanto con graduale consapevolezza, aveva costituito l’intenzionalità fissa della scultura dell’Ottocento."

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