23 giugno 2023

“Delhi” foto di Tano Siracusa

 


di Gianni Quilici

       Era la prima volta che Tano Siracusa andava in India. Siamo nel 1989 a Delhi. E come scrive nel libro uscito da pochi giorni,  Sconfinamenti (Editore Antipodes) questa è la prima foto che scatta, dopo essere uscito  dall’aeroporto. 

       Mi sono chiesto, in modo futile, se una foto, una foto per esempio come questa, possa valere un viaggio. Certamente no, perché l’ambizione di un vero fotografo (e Tano Siracusa lo è) è rappresentare  una realtà (grande o piccola che sia) scoprendone la profondità e le articolazioni.  Realizzare un reportage insomma per dare luogo magari, prima o poi, ad un libro. Perché un viaggio impegnativo, come partire dalla Sicilia fino a raggiungere l’India, nasce come reportage. E un reportage è, per un certo verso, simile a un doc film, in cui il movimento è dato da un montaggio, dove la successione di immagini abbia  forza documentaristica e magari, nei casi migliori, possa sentirsi come emblema e metafora di quella realtà.

       Questo scatto, per esempio, non è soltanto una mera documentazione, perché ha anche una risonanza metaforica, che illumina ciò che era ed ancora oggi è l’esistenza di gran parte della popolazione indiana. E’, cioè,  una di quelle immagini che va oltre la cornice stessa che delimita la foto.

       Infatti, se la guardiamo per la prima volta, ciò che subito colpisce  sono in primo piano le dita delle mani sproporzionate rispetto al resto dell’immagine. Dita grandi da adulto, rovinate, consumate dal lavoro e dai lavori. Dita che vengono evidenziate con più nettezza da un aspetto formale: il colore argenteo, scintillante del finestrino del taxi (così ci informa lo stesso Tano Siracusa ragionando nel libro sullo scatto) e le dita scure di ciò che quasi subito vediamo essere quelle di un bambino.

       Ma ciò che rende poetico questo scatto è il netto contrasto tra queste dita enormi da adulto lavoratore, che si attaccano quasi rapaci al finestrino, con il volto, ripreso a metà e sfocato, di cui si intravedono appena gli occhi contratti dallo sforzo.

      C’è in questo volto un incrocio dialettico tra sofferenza e  desiderio. Perché il bambino si aggrappa tenacemente al finestrino? Forse vuole fermare il taxi per chiedere qualcosa? O forse semplicemente vuole fuggire in altre realtà per un istinto incontrollabile?

       Altro contrasto tra l’energia delle mani e la loro impotenza. La macchina andrà e lui resterà. L’inizio di una storia e la sua fine. Nello sfondo lo scorcio di un’auto e  un muro indefinibile di un grigio nerastro. Senza orizzonte alcuno.

      E’ comunque uno di quegli scatti che colgono velocissimamente l’attimo. Una concatenazione, dove convivono simultaneamente   il malessere e il desiderio, l’energia fisica e l’impotenza in un circolo che gira su se stesso, ritorna sempre da capo.

      Resta lo scatto. Un grande scatto di cui oggi si potrebbe dire paradossalmente  valeva la pena fare quel viaggio anche soltanto per quello. Uno scatto dove coabitano il caso, l’occhio che ha visto, la prontezza dei riflessi, la scelta istintiva della, inquadratura e infine anche la fortuna che qualche volta ti bacia nel cogliere quell’attimo che se non lo prendi sparisce.

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