13 febbraio 2010
"Il clown" di Athos Bigongiali
di Luciano Luciani
“Un clown ad Auschwitz, disse! Che storia! Conosco gente che farebbe carte false per averla.”
E’ una battuta di Flora, ex attrice, riciclatasi in età matura come agente cinematografica dei suoi colleghi di una volta e, in tre parole chiave, - clown, Auschwitz, storia - riassume tutta la complicata alchimia del romanzo di Bigongiali.
C’è la comicità del clown, il personaggio comico per eccellenza del mondo circense, e c’è Auschwitz, il campo di concentramento tedesco nella Polonia sud-occidentale, 60 km ad ovest di Cracovia: ovvero l’inferno totale, l’orrore assoluto, la tragedia “senza se e senza ma”. Il luogo delegato dai vertici nazisti all’annientamento degli ebrei europei, dei prigionieri russi, degli oppositori politici, zingari, omosessuali e non solo: e quindi l’oscenità delle camere a gas, lo Ziklon B, le fosse scavate tra i boschi, la tragica contabilità finale che, solo ad Auschwitz, giunse a 1 milione e 100 mila morti.
Tra queste due polarità, il comico per eccellenza e la tragedia assoluta, le linee di forza di una storia. Una vicenda complessa, quella di Helmut Doork o Helmut il Grande, clown tedesco di qualche fama ma ormai in disarmo, che non fa più ridere nessuno e che si è messo a bere. Nel bistrot di una Parigi ancora occupata dai tedeschi, Helmut Doork si ubriaca e prende di mira Hitler, lo sbeffeggia, ne fa l’imitazione. La Gestapo, sempre vigile, lo arresta e lo spedisce in un campo di rieducazione. Le prime tappe di un annichilimento dell’anima che lo porterà ad esibirsi di fronte ad un nuovo pubblico, i bambini del campo: “aveva preso a seguirli dovunque, la mano pronta a truccarsi il naso di rosso, finché un giorno per puro caso si era trovato ad accompagnarli sul treno che stava giusto per partire, destinazione ignota” (p.142). Auschwitz, probabilmente.
Aiutante - carnefice di bambini o vittima lui stesso, Helmut Doork, destinato a sparire insieme ai suoi piccoli disperati spettatori? Angelo pietoso delle sofferenze estreme dei più deboli tra i perseguitati, a cui intende regalare un ultimo sorriso, o mostruoso pifferaio di Hamelin, complice del Boia e del Male?
Il libro non offre risposte sicure. Forse l’uno e l’altro…
Ma questo è solo il prologo del romanzo di Athos Bigongiali, autore abituato a selezionare una scheggia di storia recente per intriderla di un sapiente mix di fantasia e realtà, di invenzione e documento e quindi raccontarla come vera, secondo il punto di vista di personaggi minori, marginali, e secondo le movenze della ballata epico - lirica di impronta popolare.
Solo il prologo, abbiamo detto: sì, perché il romanzo di Bigongiali non appartiene al genere “concentrazionario” o alla narrativa documentaria sull’Olocausto. L’Autore ancora una volta ci sorprende per il suo punto di vista diverso ed eccentrico, quello chiarito nella Nota che precede il Capitolo I, secondo cui nel 1971, Jerry Lewis, il celeberrimo nipote Picchiatello del cinema comico americano degli anni Cinquanta e già allora considerato un maestro del cinema, decide di girare un film sulla vicenda di un clown tedesco, svanito nel nulla, nel buco nero del campo di sterminio.
Un film tragico e sfortunato che, come raccontano poche avare note di cronaca, procurò all’attore non solo enormi problemi finanziari, ma soprattutto un’angoscia interiore ed esistenziale che non si è mai placata negli anni.
Tanto che Lewis non ha mai voluto parlarne diffusamente, limitandosi solo ad accennare, e piuttosto malvolentieri, a un lavoro da lui diretto ed interpretato, mai del tutto portato a termine, mai rielaborato, mai proiettato. Un film fantasma, affondato da polemiche e litigi con i produttori e gli autori del soggetto; da una selva di vincoli e divieti, che probabilmente impedirono al film, che però esiste, di raggiungere il pubblico. Un film maledetto con al suo centro un personaggio altrettanto maledetto, il cui mistero, quello della sua vita e della sua morte (si salvò? passò per il camino? collaborò col boia o tentò davvero di far sorridere sull’indicibile?) è progressivamente e dolorosamente ricostruito, riesumato quasi controvoglia, dal protagonista del romanzo, Raul Piccolomini, controfigura di Jerry Lewis e suo istruttore in materia circense. nel corso della tormentata lavorazione del film. Raul Piccolomini, ovvero uomo piccolo, in contrapposizione ad Helmut il Grande, anch’egli un solitario saltimbanco ormai avviato ad un definitivo viale del tramonto, un vecchio artista da casa di riposo.
Il mistero del film rimanda e si specchia nell’indecifrabile personaggio ispiratore: un clown ambiguo, elusivo, sfuggente che rende tali anche gli altri due clown, Jerry. Lewis e Raul Piccolomini: “Ma la storia di Doork è quella originale, no? E’ la matrice di tutte le altre e forse non solo di quelle dei clown.” (p.193)
Ovviamente fittissimi tra le pagine i richiami cinematografici e le citazioni; disincantata la descrizione del mondo del cinema con le sue durezze e i suoi compromessi, i suoi personaggi precari e avventurosi.
Ma i risultati migliori Bigongiali li ottiene dalla descrizione di certe ‘terre di mezzo’: il rimanere perennemente in bilico tra verità storica ed invenzione; il continuo oscillare tra la dimensione provinciale, Pisa, che cominciamo a scorgere dalla stazione di San Rossore e rivediamo spesso dall’ottica minima di una pensioncina familiare e gli scenari delle grandi metropoli europee: Parigi, Stoccolma; gli spostamenti nel tempo tra uno ieri, gli anni della guerra, resi cupi e terribili dalla ‘banalità del male’ e una quasi contemporaneità, gli anni settanta, descritti in maniera storicamente credibile attraverso azzeccati particolari narrativi: gli studi cinematografici di Tirrenia, l’estate della costa tra Pisa e Livorno, le manifestazioni contro Nixon e per il Vietnam…
Tutto immerso in una scrittura che tende a dare alla vicenda un tono quasi da fiaba, dove terza persona e monologo interiore, realtà, memoria e sogno si intrecciano con grande abilità affabulatoria, il cui merito maggiore è quello di non voler dire tutto, lasciando al lettore l’ultima, amara, conclusione.
Athos Bigongiali, Il clown, Giunti, Firenze, pp. 200, E. 12,00