Il libro come piacere. Ho in mano il libro di Luigi Faccini e penso a ciò che consigliava Giuseppe Pontiggia: “Fidati degli aspetti cosiddetti superficiali: la copertina, la grafica, l’impaginazione, il titolo” (1). Lo annuso sfogliandolo velocemente in tutte queste direzioni.
La copertina con grande foto pensosa di un angelo in BN; il retro: altra grande foto tra il surreale ed il cubista. La grafica con caratteri ariosi, ben leggibili e con fotografie di diverse dimensioni. L’impaginazione sostanzialmente ordinata, ma con la forza dinamica delle immagini. Il titolo, “C’era una volta un angelo di nome Willy”, che risulta enigmatico sospeso tra la favola, la parabola evangelica e forse chissà… Sono ben predisposto.
Inizio a leggere e quasi subito trovo, accompagnato dalla prosa di Faccini, il Vecchio Cimitero di Lerici abbandonato e devastato. Intollerabile per l’autore. Perché il Cimitero Vecchio è Bellezza di volti e di corpi di pietra vellutata, di steli a tempietto, di lapidi a croce, di lecci. Perché è Memoria, un “libro aperto che chiede di essere letto”. A priori almeno: un mistero da svelare!
Da qui la sfida di F. : “ Salvare! Salvare… Ti leggerò. Mi approprierò delle tue sembianze. Scoprirò il tuo parlare segreto. Farò in modo che tanti, insieme a me, ti pongano le domande eterne e provvisorie”
Così per un anno e più Luigi Faccini tende “i suoi agguati, armato di una Olympus 3000” fino a quando una mattina che minaccia di pioggia qualcosa di traballante, sotto il fogliame, impedisce la stabilità del treppiede… Che fare? Faccini raspa tra le foglie e il terreno ed estrae un frammento di pietra sporca: è un angelo adulto coperto da un panneggio botticelliano. Nella sua mano sta una rosa…. Un ‘segno’?
Ed allora partiamo, partiamo anche noi (lettori) per l’avventura.
L’avventura di chi può viaggiare immaginando, sul filo delle parole e delle immagini di Faccini.
Le prime foto: l’entrata nel Cimitero. Due dettagli di un cancello dagli ampi riccioli, socchiuso e che si apre tra le foglie e la luce.
Inizia poi la scrittura e, leggendo “è fin dai tempi più antichi che i legislatori vollero le sepolture fuori delle mura cittadine!…”, percepiamo una perplessità sottile, quasi evanescente. “Perché Faccini ci ha abbandonati,” pensiamo, “perché si è messo a leggere libri ed ora ci istruisce, prendendola così alla lontana?”
Fedeli comunque ad un viaggio che può avere le sue difficoltà, leggiamo scrupolosamente, fino a quando comprendiamo che parlare di Illuminismo e di Chiesa, di Napoleone e della Repubblica di Genova è necessario per andare oltre la soglia di quel Cimitero Vecchio e capire contesti, scelte, stili, dilemmi. Comprendiamo anche che questo libro, oltre che fotografico, è, e non può non essere, una ricerca storica. E questo finirà per appassionarci, perché ci costringerà ad un’immersione nel tempo dopo la quale cimitero, tombe, statue non saranno più gli stessi per una ragione molto semplice: la storia quando dà vita al presente “illumina”.
Il presente, appunto, che procede in ciò che il libro ha di più rilevante: il felice connubio tra parola ed immagine.
Proviamo a ritrovarlo insieme (questo connubio).
Il capitolo inizia con una foto in campo totale a tutta pagina d’un altare con due ragazze e un bambinetto nel contorno dei lecci. Nella pagina a lato il testo ci informa dapprima da chi, a favore di chi, e perché, è stato innalzato questo altare, per diventare poi analisi estetica ed ideologica dell’altare stesso. Una critica sottile, perché, attraverso la lettura dei volti e dei loro rapporti, l’autore coglie, di quell’altare, anche le ragioni ideologiche (la stabilità del presente e la fiducia nel futuro) .
Da qui le foto, che si succedono, acquistano una forza maggiore.
Primo: perché queste (le foto) vengono osservate anche con la lucidità delle parole premesse.
Secondo: perché sono montate (cinematograficamente) secondo una successione espressiva: dalla figura d’insieme fino ai primi e primissimi piani e attraverso angolazioni rivelatorie.
Terzo e soprattutto: le foto hanno comunque una forza in sé. Non riproducono naturalisticamente lapidi e statue. Le personalizzano. Soprattutto tramite il loro rapporto con la luce. Molte delle foto presenti nel libro sono una lotta con la luce. La luce crea contrasti, linee, bagliori, sottolineature astratte a volte straordinarie.
Un esempio?
Le foto di pagina 85 e 87, non a caso precedute da una didascalia a tutta pagina “l’ultimo regalo del sole”, dove la “lapide vellutata” viene attraversata per un istante, solo per un istante, da “lame incandescenti” di luce, che Faccini riesce a scolpire cogliendo la rapidità fugace di quell’attimo di luce, l’attimo così tanto celebrato da Cartier-Bresson.
Questa bellezza scultorea che va scoperta per essere davvero assaporata è però nascosta, calpestata, abbandonata; la parola più giusta: “profanata”.
“Cronaca di una profanazione” è, infatti, il titolo a pagina intera che apre un capitolo soltanto fotografico (nulla c’è da scrivere, tutto si mostra nell’evidenza dell’immagine).
Una cronaca che nello stesso attimo in cui “denuncia” (lapidi spezzate, crepate e abbandonate per terra nella più desolante delle incurie) “rivela” la bellezza degli oggetti profanati: la parola scolpita sul marmo, le storie (la nostra storia) che queste parole lasciano trapelare…
E forse, a questo punto, è chiara la ragione civile e politica, da cui questo libro nasce. Faccini si rivolge a noi ( un noi vicino, coloro che fanno parte di quella storia, ma anche un noi più lontano, tutti noi che facciamo parte della storia umana) e ci chiede: “Amici, perché abbiamo lasciato che accadesse?” E soprattutto si chiede: “Chi sono i profanatori e perché lo hanno fatto?”
Non c’è, non ci può essere una risposta univoca e certa. “Cecità mentale, oscuramento del cuore? Imbecillità individuale, forse sanabile? O vuoto collettivo e orrore della naturalità inevitabile della morte?”
Tutto questo può coesistere, ma soprattutto a colpirci è la risposta più profonda (ultima) che F. ci dà: quella che, guardando al presente, vede il futuro.
E questo futuro è il business della morte, la sua crescente e rapida tecnologizzazione. Quando sarà possibile cliccare sulle “immagini pre-registrate del ‘caro estinto’, o su brevi clip o dilatate soap-opera? Allora il morto sembrerà vivo. Parlerà, reagirà, potrà addirittura confortarci. Dipenderà solo dai soldi…”
Così Faccini si chiede se non siano questi i profanatori del Cimitero Vecchio di Lerici? I figli di questo tempo a venire.
E l’angelo di nome Willy? Willy (in realta William MacKie) è la lapide inondata di luce, scoperta e fotografata fulmineamente. E’ l’amore più forte per F., perché è la storia che più colpisce la sua immaginazione, che è più vicina alla sensibilità dell’autore, che più si presta alle ipotesi più fantasiose: ingegnere meccanico scozzese a La Spezia, dotato di elevato ingegno, amò l’operaio, morì a soli 37 anni, tre figlie. Quante tracce per una ricerca? Che film!
E l’angelo? Se l’angelo immaginativo non può non essere che Willy, angelo morto giovane, quando era “quasi un bambino”; nelle “figure” del Cimitero Vecchio esso è, invece, il piccolo angelo pensoso del monumento dedicato alla giovanissima Maria Meire Gnetti, morta a soli 10 mesi. E’ l’angelo che troviamo anche nella copertina e che il Nostro rappresenta in ben nove fotografie, nove sguardi necessari di una scultura straordinaria per intensità ed astrazione. L’intensità del pensiero concentrato in una zona per noi misteriosa , l’astrazione della posatura abbandonata e distaccata, quasi lontana con la morbidezza della mano sfuocata, con la presenza di un bianco e di un nero tra loro opposti, quasi metafisici (seconda foto dopo la copertina).
Infine: mai dimenticarsi dei dettagli.
Quei segni che possono vivere anche di per sé, al di fuori del contesto dell’opera,
che possono risultare secondari, ma che, per qualche ragione anche personale, vogliamo estrarre dall’opera ed “evidenziare”.
- Una poesia di Loris Jacopo Bonomi che F. riporta nei ringraziamenti e che termina così:
Il silenzio
si farà presto
neve ghiacciata
e le parole
saranno cristalli da infrangere
per ritrovarci
- Una riflessione illuminante di F. sulla morte. “E’ l’inevitabilità della morte a suscitare il pensiero umano. L’immortalità ci renderebbe sterili, in ogni senso. A causa della sua mortalità l’uomo è diventato inventore di linguaggi, creatore di mondi sacri e profani, poeta sublime, delinquente efferato. Imperfetto sempre, ma teso al superamento di sé. Imperfetto e conturbante…”
- La dedica di F. al padre, un giovane uomo che morì a trent’anni su un incrociatore, affondato da un siluro inglese, insieme ad altri cinquecento marinai, il 20 gennaio 1941, in una notte di luna piena. Poche scarne parole, ma che evocano più di una tragedia.
Il mio (nostro) viaggio non è finito. Mi aspetta un altro viaggio, quello fisico, reale: il Cimitero Vecchio. Il viaggio ideale. Non il viaggio ad occhi chiusi, che ignora tutto, vergine, ma forse cieco.
Il viaggio che porta con sé le immagini e le parole del libro e mescolandole con la realtà può accendere altre immagini, altre parole … Altri viaggi immaginari, altri viaggi reali.
Giuseppe Pontiggia. Le sabbie immobili. Il Mulino.
Luigi Monardo Faccini. C'ERA UNA VOLTA UN ANGELO DI NOME WILLY 2001. De Ferrari Editore
Intervento tratto da “Cinema come un'infanzia” di Marina Piperno & Luigi Faccini. I Libri dell'Ippogrifo, 2006.
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