foto di Gianni Quilici
Questo racconto di Angelica D'Agliano è stato scritto appositamente per un incontro -spettacolo "Vedrai vedrai... Vedrai che cambierà" realizzato durante la Festa di SEL Piana di Lucca, con il proposito di collegare la Parola con la Musica, dando un Senso alle une e alle altre.
Angelica ha scelto la parola Carne ed ha lasciato trasparire il suo pensiero attraverso un racconto, il racconto che possiamo leggere qui sotto.
"Carne" è un racconto secco, di una secchezza dolorosa e implicita ed ha un andamento dialettico-musicale. Per un verso il bimbo (immaginiamolo in un film) appare immobile, statico ("si lasciava vestire"); per un altro invece è mobilissimo: noi leggiamo nei suoi pensieri un misto di disgusto (per un padre "perfetto", per il taglio dell'anatra naturalmente "perfetto") e di pietà (per i piccioni). Tutto questo attraverso dettagli precisi e associazioni di pensiero conseguenti. La sintesi conclusiva giunge rapida e secca, e lascia risonanze. Tratteggia, in qualche misura, un destino.[Gianni Quilici]
Carne
Una domenica di sole un bambino si lasciava vestire per il pranzo
della festa. La tata, una tata bionda e misera e grassa, spiegava la
camicia sulla quale era ricamata una caravella e una fila di bottoni
faceva riflesso della luce e il riflesso odorava di glicine e gli
altri fiori secchi che riposavano in una coppa per rallegrare la
stanza. Il bambino sapeva che avrebbe sceso le scale e trovato un
tavolo grande, più alto di ogni altra cosa, e al confine del tavolo un
padre fragrante di colonia dal collo un po' strozzato da una cravatta
squisita e lucidissima. Egli avrebbe inciso un budino di brodo
ristretto e una volta giunti al culmine del pranzo avrebbe fatto
scoprire un vassoio e nel fumo sarebbe apparsa un'anatra incrostata di
sale e ancora sfrigolante; ed egli l'avrebbe tagliata nel senso della
lunghezza, dal cerchietto dell'ano fino alla gola e nel piccolo spazio
del corpo si sarebbe rivelata una pasta di formaggio e altra materia
speziata da mangiare col pane.
Sapendo tutte queste cose, che accadevano ogni domenica, il bambino si
lasciava vestire. La tata portava forcine dorate e parlava con una
voce e l'accento dei popoli dell'est. Quando si chinava il bambino ne
sentiva i movimenti, la morbidezza delle braccia da fornaia e le
ginocchia farcite grasso. Così la tata lo vestiva e gli mostrava una
nuca bionda e poca peluria sul collo. Quella domenica accadde che essa
starnutisse: piccole gocce di fresco si posarono sul dorso del piede
del bambino come un'acquasanta. La tata, che se ne accorse, pulì con
un lembo della manica e lunghi rintocchi suonarono dal campanile del
paese. In quel momento il bambino pensò alle passeggiate in piazza
nelle mattine incerte, quando il tempo è rancoroso e non si sa se
metterà a pioggia. Il bambino pensò a quelle passeggiate e provò
compassione per i piccioni, le uniche creature a lui note che avessero
un piccolo spasimo, come un tremito o una vergogna, ogni volta che
sporcavano di guano un cornicione o un monumento – e quasi senza
ragione, o forse per troppe, lo stomaco strinse un nodo che non poté
più essere sciolto.
Angelica D'Agliano
20 agosto 2012
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