di Mirta Vignatti
Ho letto “Una casa
alla fine del mondo” di Michael Cunningham, autore del capolavoro “Le ore”, che
rimane uno dei 10 libri più importanti che mi siano passati tra le mani
quest'anno.
Una casa alla
fine del mondo è un'opera prima e risale al 1990, ma più che romanzo di
formazione si pone già come lavoro maturo e ambizioso: l'autore, nonostante sia
agli esordi, sa dimostrare una grande perizia nel tratteggiare personaggi e
situazioni e, soprattutto, padronanza nell'organizzare la struttura narrativa
divisa in punti di vista dei diversi personaggi (prevalentemente 5) che
diventano altrettanti io-narranti, alla stessa maniera che nel capolavoro Le
ore.
Anche se a quello
la materia narrativa avrebbe portato, Michael Cunningham non si limita ad un romanzo di
sentimenti, di analisi intimistica dell'evoluzione di pre-adolescenti che
diventano uomini. L'autore ambisce a riportarci il disagio e gli effetti di una
discutibile educazione familiare su un'intera generazione cresciuta in una
emblematica città statunitense del Middle West, nel periodo del post-Woodstock,
e ci riesce appieno.
Personalmente non
sono propensa ad incasellare certi autori nel novero della cosiddetta
“letteratura gay”, ma certo -tra tutti gli scrittori che hanno scelto a livello
personale di vivere una diversa affettività e di rispecchiarla nelle proprie
opere- (e penso a David Leavitt e al nostro Pier Vittorio Tondelli, se proprio
un paragone bisogna fare) Cunningham giganteggia e si fa il vuoto intorno in
quanto a eleganza di stile, capacità introspettiva, talento narrativo e
sincerità nel descrivere i rapporti personali senza mai speculare con facili
morbosità.
Il titolo del
romanzo ha a che fare con l'idea di casa come isola, come spazio eletto dove
approdare insieme a compagni e compagne affini, dove vivere, maturare e
realizzarsi insieme, puntellandosi l'un l'altro perché da soli si andrebbe alla
sbando. Due sono le case-approdo in questo romanzo: un appartamento a New York
e, alla fine, una casa colonica nei pressi di Woodstock. Ma in entrambi i casi
una fuga vanifica l'ideale della famiglia allargata, a significare i profondi
disagi nelle capacità interpersonali dei personaggi.
Questo concetto di
spazio dove “ritrovarsi” e “ritrovare” anime affini, lo troveremo in seguito
anche in “Dove la terra finisce”, libro del 2002 dove Cunningham descrive
Provincetown e Cap Code, una sorta di Finis Terrae scelta da artisti, scrittori
e comunità gay più che per viverci, per condividere con persone “scelte” i
frammenti della propria esistenza. Una sorta di fuga dal mondo omologato del
benessere e dello stress, dal mondo dei rapporti freddi e superficiali verso
un'idea di nostalgica utopia.
Michael
Cunningham. Una casa alla fine del mondo. Bompiani
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