26 settembre 2012

“Quartiere di Glasgow” di Bert Hardy






di Gianni Quilici

Come in un film neorealista
in cui molto è necessario
quasi nulla superfluo…

Due bimbi in primo piano
quasi frontali quasi intrecciati
sguardi sorpresi quasi di sfida
padroni della strada
vivi autentici
come lo sfondo nudo e indefinito
in cui si intravedono corpi
come realistici fantasmi


 di Davide Pugnana
Spesso lo spunto per un buon commento giunge da quel gioco di corrispondenze che Baudelaire saggista chiamava " l'occhio intellettuale": una sorta di adesione interpretativa al fatto artistico che non mette in gioco l'occhio di carne; ma gli scenari interni di un dialogo d'inconsci che dall'immagine di superficie ci sposta su altri livelli di senso e di contesto.

Sembra una contraddizione. Negare il primato all'occhio di carne, soprattutto davanti alla lettura di una fotografia o di un dipinto, suona come un errore di metodo, o, peggio, come un tradimento. E lo è, soprattutto quando ad essere percepiti sono scatti e composizioni pittoriche che chiedono di essere ri-creati secondo i loro fondamenti figurativi, perché su questi sono nati, robustamente ancorati alla loro base di realtà. Per cui non si capisce la loro portata se non si ripercorrono il disegno, il colore, la concezione dello spazio, i pesi compositivi; l'iconografia, e, in essa, il grado più o meno spiccato di mimesi con cui l'autore sviscera le cose del reale, le sbuccia e le trasmuta in puri simboli o in archetipi.

Orientandosi in questa direzione, la fotografia è stata letta in due modi: o imbastendoci sopra della cesellata 'letteratura' o andando ad attingere al gergo del vocabolario della critica d'arte. Nel caso di alcuni scatti, però, queste lenti dell'occhio di carne portano a risultati fuorvianti. Insistere a maneggiarle equivale ad usare un cannocchiale imperfetto, composto da una teoria di lenti ustorie.

Letta in queste due chiavi, quindi, anche l'immagine fotografica di Bert Hardy ci tenta verso il pathos retorico dei bambini dickensiani, della miseria impoetica, del neorealismo senza consolazione dei ragazzi di vita, delle infanzie mutilate; o, viceversa, ci stimola ad un elogio della fuga prospettica, del silenzio spaziale e desertico, a cui risponde il nodo plastico e dinamico dei due bambini, e quel palo che, felicemente fuori-centro, scandisce un'urbana sezione aurea resa possibile dalla verticalità del muro di sinistra.

Suggestioni e funamboliche percettive di fascino; ma calate nei reami di uno specchio dalla doppia deformazione: quella lirico-descrittiva e quella pittorica. Due vizi d'origine della critica fotografica. Nello scenario di Hardy non un accento o un sibilo increspa ai toni elegiaci dell'orfanità; né c'è una luce di meriggio o di crepuscolo che piova sulla scena addolcendola verso timbri evocativi e impressionistici. Il regno dello scibile fotografico come regno delle icone che si avvitano nell'occhio di carne e lì rimangono - ombre aggiunte alla grande galleria della storia dell'arte - qui non trova spazio.

 La rappresentazione di Hardy appartiene alla famiglia di quegli scatti davanti ai quali l'occhio fisico non serve; e occorre, per chiarirne la portata e la sostanza, cercare là dove pare impossibile qualsiasi lacerto, qualsiasi contatto o eco che non suoni posa intellettualistica. Un azzardo, certo; per quel tanto di arbitrario che sottintende, e tuttavia dimostrabile.

Un possibile anello di commento a questo scatto lo troviamo, ad esempio, in uno scritto di Walter Benjamin, dedicato all'analisi dell'infanzia secondo il suo mondo oggettuale: la tessitura di dettagli quotidiani che la definiscono, non i giochi fabbricati, ma gli scarti marginali che le mani adulte accatastano e quelle bambine riassestano in sensi e forme inedite:
 "I bambini sono fondamentalmente portati a frequentare i luoghi dove si lavora, dove in modo evidente si opera sulle cose. Sono attratti irresistibilmente dai materiali di scarto che si producono in officina, nelle attività domestiche o lavorando in giardino, nelle sartorie e nelle falegnamerie. Negli scarti di lavorazione riconoscono il volto che il mondo delle cose rivolge a loro, a loro soli. Con gli scarti di lavorazione i bambini non riproducono le opere degli adulti, tendono piuttosto a porre i vari materiali in un rapporto reciproco nuovo e discontinuo, che viene loro giocando. I bambini, in questo modo, si costruiscono il proprio mondo oggettuale da sé, un piccolo mondo dentro a quello grande. E bisognerebbe avere negli occhi le regole di questo piccolo mondo oggettuale quando si voglia creare qualcosa di appositamente pensato per i bambini e non si preferisca lasciare che sia la propria attività, con tutto quanto vi è in essa di funzionale e di accessorio, a trovarsi da sola la strada verso di loro."

In questo passaggio scorre intera la sostanza dell'immagine di Hardy: una sorta di 'sotto-fondo in figura' dell'icona fotografica, non visibile nello scatto nudo ma palpabile nei dettagli di contesto puramente 'normale' che Benjamin ci restituisce. E' questo il territorio dell'occhio intellettuale. Occorre andare a frugare nei pozzi del non-visto, anche quando abbiamo di fronte uno scatto come questo di Hardy, fermo nella sua accessibile e diurna pienezza di senso. Nessuna strozzatura drammatica viene a turbare questa infanzia; nessuna concessione al gusto del puro visibilismo. C'è una tessitura di oggetti minimi in cui i due bambini sono immersi e l'intrusione della parola di Benjamin ci fa andare al prima e al dopo di quei quattro passi sul marciapiede; ridona senso allo scarto di capitale importanza: alla gettatezza del punteruolo, che tra qualche istante verrà raccolto per una nuova destinazione.








Nessun commento: