di Davide Pugnana
Credo sia la prima volta che mi capiti di iniziare una
recensione partendo da un piccolo aneddoto personale, quello che i francesi
chiamano il petit fait vrai. A poco o
nulla sono valse le più sottili strategie di resistenza all’io; o la feroce mortificazione
autocritica messa in atto per temperare, frenare, debellare qualsiasi
tentazione autobiografica. Uno alla volta, i numerosi tentativi di incipit
‘oggettivi’, tenuti sul filo di un approccio, come si dice in gergo, “lavorato
con distacco critico” sono precipitati nel dimenticatoio. Eppure mi ero
preparato a scrivere un’impeccabile, inamidata pagella del libro, puntellandola
di tutti i crismi dell’analisi critica: il tuffo nel magma dei concetti e delle
frasi per ridisegnarne la tessitura; l’elogio della finezza del tenore
intellettuale; la corsa - come si fa davanti ad un pensiero baciato dall’originalità
- ad accendere la luce nei corridoi laterali, per collegarli con stanze
inesplorate e porte comunicanti. Questo è il galateo di ogni buona recensione.
Ebbene, se questo metodo poteva calzare per molti libri sottoposti a recensione,
questa volta l’obbedienza all’oggettività dava allo scritto un vero e proprio
sapore di tema scolastico. Anche il tradizionale rimedio di lasciar sedimentare
la materia, ignorandola per settimane, fingendo che non esista o non possa aver
sviluppo, è apparso come un infantile gioco del nascondino. Alla fine ha vinto
la prima persona. Le prime parole che mi vengono sotto la penna sono, quindi,
queste note di diario, le sole capaci di restituirmi il senso di un incontro
speciale, prima che con un oggetto di carta con una persona. Anzi, con una
voce.
È vero che accade spesso – mi accade spesso - di
identificare uno scrittore con l’impressione che ne ebbi la prima volta. Anche
se passano gli anni, e scorrono altre letture, e il palato si impreziosisce di
nuove essenze, quella impressione può tornare prepotente a guidare l’ascolto.
Talvolta è una tessera interna al proprio gusto, il segno di una presenza
rimesta a metà tra l’intelligenza del cuore e quella della mente; altre volte
può mostrarsi giusta e vera. Il che vuol dire che quel contatto aurorale con lo
scrittore ha lavorato in un silenzio inavvertito, fino a condensare quella
prima impronta fugace nella consistenza plastica di una figura. Una figura che
finisce per appartenere all’intimo dominio della propria storia e biografia intellettuale.
Ora, Antonio Paolucci è legato per me all’impressione che ne ebbi quando sentii
la sua voce la prima volta. Cadde nella mia vita al di fuori dei contesti
ufficiali delle conferenze e delle lezioni (dove mi sarei aspettato di
scoprirla), visitandomi in un contesto di ovattata, normale, quotidianità. Non
è facile isolare il punto di inizio di un rapporto. Difficile tener separata la
folla di sensazioni nella loro successione narrativa. Ricordo solo che quella
voce mi colpì da subito per la grana, per la consistenza timbrica, lieve e
profonda. Velata e materica a un tempo. Questa voce singolare proveniva dalla stanza
accanto. Ricordo che mi ero fermato per ascoltarla, preso dallo stesso piacere
che si prova quando, camminando distratti per strada, da una finestra aperta un
suono ci raggiunge, magari una frase musicale o un motivo che ci sono familiari,
ma dei quali non ricordiamo la fonte. Non sembrava la voce cadenzata e
monocorde dei messaggi televisivi: quella voce umana che, filtrata dal
passaggio nell’audio meccanico e sparata nello spazio dai lati dello schermo o
dalla base, giunge spogliata di colori e stravolta nella forma. La voce che
arrivava dall’altra stanza era più calda ed effusiva. La sua tramatura fonetica
creava una tonda geometria senza smagliature calata in un’interna, serena
cavità minerale di quarzo che ne metteva in evidenza all’orecchio le trasparenze.
Trasportava nell’aria un ritmo, incarnava un dettato, segnava nella mente un’idea
di garbo che avevo ‘ascoltato’ sui libri o, raramente, raccolto in qualche aula
universitaria come un’epifania. Eppure, non potevo dire che fosse la voce di
Narciso, innamorata delle proprie risorse espressive e schiava d’una
compiaciuta abilità oratoria. Di un attore non aveva la dizione educata e pulita.
Forse era la voce di qualcuno che stava leggendo un testo famoso, un classico
della letteratura o della storia. Ricordo bene che mi ero fermato d’improvviso,
proprio come fossi stato colto da una melodia trovata per strada. Ascoltandola
nelle sue vene possenti o seguendola nei suoi rivoli minuti; fermandomi nelle fessure
delle pause, in quelle crepe dove i concetti sembravano fissarsi in incanti
improvvisi, poi dilatati in immagini fatte metafora di un sottofondo allusivo, ecco
questa voce che scherzava e giocava con le parole e divagava in bellissimi
voli, era un luogo fisico meraviglioso. Una sorta di vasto tempio, antico e
moderno insieme. Un grembo arcaico. E in quel preciso momento, mi ha
attraversato il pensiero che non solo i nomi propri di persona sono luoghi di
intensità, come ci narra Proust nel finale di Du coté de chez Swann; anche alcune voci umane hanno in sé il
potere evocativo di disegnare luoghi, di allestire spazi permeati da
un’atmosfera che desideriamo abitare. Potevo spingermi ad affermare che in
quella voce enigmatica avveniva come “nel nome di Balbec, come nella lente
d’ingrandimento di quei portapenne che si comprano al mare, scorgevo onde
inarcate intorno a una chiesa di stile persiano.”? Non lo so. Di una cosa però
non avevo dubbi: quella voce nell’altra stanza era figlia dei libri. Con questo
non voglio dire che fosse “libresca”. Tutt’altro. Una voce nutrita dai libri è
uno strumento che porta in sé una fibra umanistica inconfondibile. È come
passare le mani su una stoffa per saggiarne la qualità nella sua esistenza
tattile. Qualsiasi cosa dello scibile essa tocchi o abbracci acquista un palpito
nuovo. Certo, non potevo negarne la fattura oratoria: le frasi, sinuosamente costruite
e inanellate con cura dialettica, erano degne di un fioretto sottile ed
elegante. A rivelarne però questa particolare natura non era la forma, bensì il
suo andamento: ossia quella cadenza in
prosa che sembrava restituirmi la grazia di stile di alcuni autori. Ad
esempio, poteva essere figlia del Seneca delle Lettere a Lucilio e dei Saggi
di Montaigne; della linea dei
moralisti classici; del timbro narrativo delle Vite vasariane o delle pagine di Luigi Lanzi, oppure poteva
essersi fatta sull’ampio respiro della lingua manzoniana. Impressioni, queste,
che tanto più confermavano la presunta consanguineità umanistica della voce nella
scelta felice di alcune immagini-metafora: spie che lasciavano affiorare, in
filigrana, il gusto educato e prezioso di un lettore di poesia.
Questa voce incarnava alla perfezione uno stile di
conversazione di cui, anni prima, avevo letto una descrizione in una raccolta
di scritti di Pietro Citati e che ora vado a recuperare. Vale la pena
riportarne un passo: “La scrittura è fissa: o almeno il movimento tumultuoso
delle parole cerca di trovare in lei una forma definitiva, sebbene il movimento
verbale vi palpiti ancora. La bellezza della conversazione sta nella sua
inarrestabile fluidità.”
Non credo di aver mai ascoltato una conversazione così
perfetta. Per me, la bellezza della voce nella stanza accanto era proprio
l’inarrestabile fluidità della conversazione che, solo più tardi, in una
seconda occasione portatami ancora una volta dalle mani del caso, avrei saputo
appartenere ad Antonio Paolucci. E, cosa ancor più impressionante, questa voce
singolare l’avrei riscoperta intatta e fedele a se stessa sulla pagina scritta.
Arte e bellezza (collana orso blu, Editrice La
Scuola, Brescia 2011) è, forse, il testo che più di altri restituisce alla
perfezione l’intuizione dell’accordo elegante, la giustezza di tono e la misura
classica della voce (la voce del pensiero) di un umanista del nostro tempo.
Nelle belle spirali dell’ intervista-conversazione con Carolina Drago, Paolucci
attraversa episodi nodali della sua biografia umana e intellettuale, muovendo
il ricordo sul doppio confine dell’educazione sentimentale e intellettuale e
della vitalità culturale, esperita sul campo. Dall’infanzia riminese, tra gli
oggetti preziosi della bottega antiquaria del padre, fino alle battaglie da
soprintendente; dalle opinioni sull’arte contemporanea al turismo culturale;
dalla gestione del “museo diffuso” alla vacua terminologia critica, dove le
parole non rispecchiamo gli oggetti (“beni culturali” invece che “belle arti”;
“territori” in luogo del più aderente “paesaggio”). Ampio spazio è riservato
alla questione della tutela del patrimonio culturale italiano. Paolucci sottolinea
il primato dell’Italia in questo ambito. L’episodio cruciale di questa storia
dai marcati chiaroscuri è quello che riguarda le scelte di Leone X: “Nel 1516,
un papa, Leone X, Giovanni Lorenzo de’ Medici, grande intellettuale e
straordinario umanista, decise che per amministrare il patrimonio storico e
culturale di Roma ci voleva un tecnico. Avrebbe potuto nominare come
Soprintendente al patrimonio artistico di Roma un alto prelato, un suo parente,
, un sostenitore politico e invece spiazza tutti. Nomina un tecnico e chiama il
più talentuoso di tutti: Raffaello Sanzio. Con Leone X, per la prima volta,
cinque secoli fa, si afferma il concetto che la potestà prescrittiva e
normativa nell’ambito dei beni culturali, deve essere affidata alla competenza
tecnica. Per questo quando si parla di manager dei musei, di ‘bocconiani’, che
dovrebbero governare ed amministrare i musei, io cito sempre Leone X dei
Medici.” Da questo punto massimo, collocato nel cuore dello spirito
rinascimentale, la storia della legislazione dei beni culturali in Italia
prosegue come un vettore che tocca disegni di leggi definiti, da Paolucci,
“capolavori di civiltà e di sapienza giuridica”, ulteriori conferme del primato
italiano e di nuove forme di cultura illuministica: l’editto Pacca del 1820,
nello Stato della Chiesa; la legge Bottai, nel 1939, in pieno fascismo.
Una legge, quella di Bottai, che aveva alla base “consulenti come Roberto
Longhi, Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi, storici dell’arte, teorici del
restauro, uomini d’eccellenza.”
A questo punto, vien fatto di chiedersi da dove provenga la
finezza d’eloquio di questa voce? Dov’è caduta la traccia dell’eco primario e
fondante, rimasto impresso per sempre nella gola? Qual è la sua lettera
scarlatta? Questa scaturigine può essere individuata in un anello della
formazione di Paolucci. Nel primo capitolo, L’amore
per la bellezza, egli ci racconta i suoi anni universitari a Firenze: “Dopo
il liceo sono andato a Firenze dove c’era la cattedra di Storia dell’arte di
Roberto Longhi, uno dei più grandi storici dell’arte italiani. A Firenze
c’erano musei, c’era in qualche modo la bellezza istituzionale: il Bargello,
gli Uffizi, Palazzo Pitti. Ho studiato lettere con indirizzo storico-artistico
e mi sono laureato a 24 anni con Roberto Longhi, con una tesi sulla pittura
ferrarese ed emiliano-romagnola del Quattrocento.” Roberto Longhi ha formato
una scuola di studiosi straordinari, nomi che vanno da Francesco Arcangeli a
Flavio Caroli. Figure di critici-scrittori che ci hanno lasciato tra le più
belle pagine della prosa italiana del Novecento. Ma Longhi, per chi lo ascoltò
e per chi lo lesse, per le generazioni di ieri e di oggi, fu anche un maestro
di stile e di bellezza oratoria. Di arte e bellezza della parola. Di Roberto Longhi,
anzi, si può dire ciò che Giorgio Caproni scrisse per Montale. Parafrasando il
noto epigramma: “Ciascuno ha il suo Longhi/ ritagliato a misura./ Vale quello
che vale/ secondo natura e statura.” Per il giovane Antonio Paolucci, questo
maestro dal fascino stregonesco ha certo costituito la cifra fondante della sua
voce, di oratore e di scrittore: “Roberto Longhi mi ha insegnato la conoscenza
tecnica dell’opera d’arte e , insieme, la capacità che ha la parola di
diventare mimetica della figura. Questo è un insegnamento prezioso: saper
scegliere le parole che riescono a restituire a te stesso e agli altri la
curiosità e la felicità che dà l’opera d’arte.”
L’insegnamento di Longhi lavora al fondo della capacità
mimetica che Paolucci ha di filtrare il pulviscolo di materia biografica,
umana, esperienziale e la percezione visiva dell’opera nei modi di un racconto:
di una narrazione fluidamente orchestrata e calibrata su tempi narrativi, fitta
di personaggi, di folle, di scenari storici, di luci e ombre, di oggetti. Come
quando Paolucci proietta la sua fantasia verso l’ideale epoca storica, verso
l’Heimat che il suo desiderio e il suo temperamento vorrebbero abitare: “Io
tornerei a Roma nell’estate del 1508. In quell’estate succede che un papa che
si chiamava Giulio II della Rovere chiama qui a Roma un ragazzo di venticinque
anni, che era Raffaello di Urbino e un giovane uomo di trentatré anni che era
Michelangelo Buonarroti e chiede a Raffaello di dipingere il suo appartamento
privato e a Michelangelo di dipingere la volta della Cappella Sistina. Chissà
com’era quell’estate del 1508? Chissà com’era Roma? Stava succedendo di tutto.
Era già arrivato Lutero, si era fermato a Santa Maria del Popolo, veniva dal
Nord, scendeva dalla Flaminia ed entrava dalla Porta del Popolo. Lutero si
ferma nella chiesa agostiniana di Santa Maria del Popolo, i suoi confratelli lo
ospitano e lui il giorno dopo comincia a girare per Roma, si fa in ginocchio la
Scala Santa, visita le basiliche, si ferma davanti alle venerabili reliquie
della cristianità, arriva a San Giovanni in Laterano dove c’era il governo
pontificio. Arriva a San Pietro che era ancora quella di Costantino, l’antica
San Pietro affrescata da Giotto. Come mi piacerebbe seguire i passi di Martin
Lutero in quell’estate! Lui che comincia a pensare a Roma come alla nuova
Babilonia, mentre i cardinali ricchissimi passano per la strade con la loro
corte, con le loro amanti.” E quando
Paolucci ci descrive le sue fantasticherie di passeggiatore solitario, nella
dorata solitudine delle gallerie vaticane, come un personaggio delle tele di
Pannini, la nostra stessa fantasia non può che tornare alle passeggiate di
Winckelmann e di Mengs al fianco del cardinale Albani, nelle belle serate
romane in villa.
Questa dote di narratore di affreschi storici, di vite
d’artista e di opere d’arte trasmutate in sostanza verbale, non permea solo la
produzione saggistica di Paolucci. Certo, esempi memorabili li possiamo trovare
nella Presentazione al catalogo della
mostra dedicata alle botteghe fiorentine del Quattrocento, laddove ci
accompagna nelle dinamiche dei rapporti maestro-allievo, “fenomeno complesso e
affascinante che chiede di essere capito al di là dei luoghi comuni e degli
stereotipi romantici.”. Li possiamo trovare nell’attraversamento della poetica
e della ritrattistica di Francesco Messina; e sono le pagine nelle quali lo
sguardo di Paolucci si ferma a spiegarci la koinè
plastica, le radici linguistiche della scultura italiana del Novecento: “I
maestri prima citati hanno inteso la tradizione non come manuale d’uso e codice
di riferimento ma come ‘lingua’; l’hanno assimilata e quindi usata con la
naturalezza e con la libertà con le quali ciascuno di noi usa la lingua nativa.
Questo ha permesso loro di affrontare la ‘Modernità’ senza impacci, senza piombo
nelle ali. Come io che scrivo uso la lingua del Lanzi e del Vasari e non
saprei, né vorrei, usarne altre, così i maestri della ‘linea italiana’ hanno
usato la lingua di Arnolfo e di Donatello, del Laurana e di Desiderio essendo
consapevoli, tuttavia, che con lo strumento di quella lingua, essi erano
chiamati a raccontare la ‘Modernità’, a dar significato agli argomenti e ai
miti del XX secolo, non già a rievocare il passato.” Lo stesso palpito quasi di
stupore e il medesimo afflato che anima le pagine sulla scultura di Messina, o
le altre di pregnante, partecipata intensità, dedicate alle gipsoteche delle
Accademie (I gessi d’accademia, fratelli
sfortunati), lo ritroviamo nel tenore e nel ritmo di conversazione di Arte e bellezza, la cui fluidità argomentativa
raggiunge uno dei suoi apici nel capitolo quinto: Il museo ideale. Qui, Paolucci traccia la sua ideale collezione
museale e tocca una sapiente narrazione delle immagini d’arte.” Nel descrivere Las lanzas, La ronda di notte, la Madonna
di Senigallia, i Coniugi Arnolfini,
l’Olympia,
Guernica, la voce di Paolucci –
quella stessa voce che mi ha fasciato in un giorno di normalità quotidiana
nell’altra stanza e simile ad un’elegante prosa di quarzo - diventa un
perfetto, accordato, strumento di equivalenza verbale del fatto figurativo. Vibrano
rinnovate in quella voce, le picche della guardia e il sedere del cavallo di
Velazquez; l’anno 1642 nella vita di Rembrandt e “l’immersione dentro l’Umanità
che è pensiero e azione, giovinezza gloriosa e malinconici pensieri, il mistero
che incombe e la struggente bellezza del mondo dal quale è così doloroso
staccarsi”; “la poesia della vita silenziosa” degli Arnolfini, il cui gesto di
unione avviene negli amati “interni svelati di luce” e resi attraverso il
“silenzio tutto nordico di questa camera foderata di legno”; l’Olympia sentita
come idolo inaccessibile, enigmatica icona che “ci trasmette una specie di
fascino ipnotico, di orrore sacro”, con “il gatto nero che si inarca sul letto
come una presenza demoniaca” e “la serva negra che offre il bouquet di fiori”; il
Picasso “sensuale e mediterraneo, quello dei ritratti di donne di tori, di
centauri”, che riesce a fissare “lo splendore dell’eros, sulle donne, anche
quando le dipinge con un occhio solo e tre nasi”; e, passando per la stupenda e
spiazzante analogia tra l’Estasi di Santa
Teresa di Bernini e i Frammenti di un
discorso amoroso di Roland Barthes, Paolucci infine, arriva a parlare dell’autore
d’elezione, la ‘dichiarata passione’ per Raffaello Sanzio: “Con il suo genio è
riuscito a metabolizzare e trasfigurare tutto. Ha preso forme consegnate dalla
tradizione, il linguaggio degli italiani, e l’ha trasformato, l’ha fatto suo,
inventando la lingua di Raffaello che è il punto apicale della nostra lingua
artistica. […] Vorrei avere, di Raffaello, il ritratto di Baldassare
Castiglione, che è la raffigurazione dell’intelligenza e del gusto alla stato
puro.”
Mi chiedo spesso perché, di tanti autori che scopriamo e che ci
raggiungono in modi inattesi, durante la nostra vita, solo nel caso di poche
presenze ci assale il desiderio feroce di tornare a riascoltarne la voce. Di abitarla
come un luogo senza i cui confini e humus
sentiremo che l’esistenza stessa sarebbe infinitamente più povera. Sembra che
nel dialogo con le opere di questi autori, si apra uno spazio immutabile, dove
tutto rimane fissato al giorno e all’ora particolari del primo incontro, come
le sei del pomeriggio nella scena del tè del Cappellaio Matto. Talvolta cerco
di spiegarmelo riaprendo Proust, in particolare quel passaggio dove spiega che
i “luoghi che abbiamo conosciuti non appartengono solo al mondo dello spazio
dove per semplicità li collochiamo. Essi non erano che una parte esigua del
complesso di sensazioni confinanti che formavano la nostra vita d’allora; il
ricordo di una certa immagine non è che il rimpianto d’un certo istante; e le
strade, le case, i viali sono, ahimé, fugaci come gli anni.” Nel caso della
voce di Antonio Paolucci, non mi è possibile ridurre l’impressione del primo
contatto ad analisi razionale. Tanto la sua parola è coerente al pensiero, da
cui è nutrita e strutturata, che finisce per costituire un’arte della
conversazione e un abito della scrittura; un registro stilistico che appartiene
al dominio tutto dell’onesto umanesimo italiano. Questa voce, figlia della
lingua del Vasari e del Lanzi, accoglie gli oggetti delle belle arti, le opere
e le vite degli artisti, fino ad assorbirle e metabolizzarle; per riconsegnarle
infine, dopo un misterioso processo di trasformazione verbale, scomposte e
rievocate in dettagli meravigliosi, animate da un palpito dello sguardo che è,
prima di tutto, sentimento dello sguardo.
Antonio Paolucci, Arte
e bellezza, collana orso blu, Editrice La Scuola, Brescia 2011, pp. 93,
euro 10
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