06 febbraio 2015

“Scene dalla vita di un villaggio” di Amos Oz




di Gianni Quilici

Amos Oz, come molti grandi scrittori, mi sembra utile anche per chi, avendo necessità espressive e qualche talento, vuole scrivere.
Prendiamo questo libro Scene dalla vita di un villaggio: otto racconti, che hanno tuttavia un filo di raccordo sufficientemente evidente per poter essere anche un romanzo.

Sono racconti, perché hanno un inizio ed una fine, che è, però, una sorta di sospensione, non una conclusione.

Potrebbero essere considerati anche un romanzo, perché coesi da uno stesso luogo, Tel Ilian,  piccolo paese israeliano,  in cui i protagonisti appaiono come tali in un solo racconto, ma riappaiono qua e là, anche se solo nominalmente. E’ come se ad Amos Oz interessasse connettere insieme varie storie in un solo spazio e tempo per far vivere come protagonista, con tanti comprimari, un villaggio. Ed in effetti Tel Ilian acquista, nei racconti di Oz, un’anima, una sua universalità.

Ma in che modo lo scrittore raggiunge questo risultato?
Attraverso i personaggi.
Amos Oz è, infatti, abilissimo a rappresentare personaggi. Ce li fa vedere fisicamente con dettagli o metafore originali e ce li fa sentire attraverso il flusso degli avvenimenti, creando una tensione narrativa e un’aspettativa nel lettore per un enigma, che rimane sospeso, non si scioglie. Ed in questo senso anche il villaggio acquista un corpo ed un’anima sua con i suoi vuoti, le sue serate afose e umide, gli anziani imbambolati selle soglie delle loro case, gli incontri e le chiacchiere e la mezzaluna che splende sopra la torre dell’acqua.

Faccio un solo esempio, sulla qualità dei personaggi, prendendo rapidamente in esame il racconto forse più poetico Estranei.
C’è un lui: Koli Ezra,  infelice diciassettenne con due gambe a stecchino, la carnagione scura e sul viso quasi sempre spalmata un’espressione di mesto stupore, perdutamente ma anche disperatamente innamorato, visto che lei ha quasi il doppio della sua età.
C’è una lei: Ada Devash, impiegata alle poste, nonché bibliotecaria, una trentenne divorziata, bassotta e ridanciana, rotondetta e simpatica, con occhi di un castano caldo, con un leggero strabismo che le dona, perché quel difetto pare quasi un vezzo.

Il ragazzo la sta aspettando, come la sera precedente, per accompagnarla dalla posta alla biblioteca, dove insieme distribuiranno i libri.
La poesia del racconto nasce dalla sottile maestria con cui Amos Oz riesce a far emergere il nugolo di pensieri, di immaginazioni, di sentimenti contrastanti nel ragazzo: la ricerca affannata di argomenti che possano interessarla, il  proposito di dichiarare il suo amore e il timore di essere deriso o comunque di suscitare pietà, fino a essere accarezzato come se fosse un bambino, e quindi anche la voglia matta di farle del male, di pestarla, di svegliarla; il desiderio prepotentemente fisico nel vedere la gonna salire sopra il ginocchio o nell’immaginare i  seni di lei premere sul suo petto, la gelosia verso l’autista di autocisterna, che forse l’aspetta davanti casa e che l’avrebbe poi abbracciata con le sue mani grassocce, e un’indecifrabile tentazione poi di proteggerla e difenderla da lui; ma Oz è sottile anche nel delineare la delicatezza della donna che non vuole ferirlo, ma neppure incoraggiarlo e che rimane però compiaciuta di questa attenzione profonda e sincera ed alla fine forse potrebbe abbandonarsi, solo che lui non osa, non capisce, chiede scusa, fugge…

Ecco, Amos Oz conosce i suoi personaggi, li conosce non per quello che sembrano, ma per il flusso contraddittorio dei movimenti interiori nella durata, consegnandoceli senza una conclusione, con un interrogativo,  come per dirci la vita continua, non sappiamo come sarà, questo è, però, un attimo, una sequenza intensa, che potrà rimanere scolpita e che ci riguarda.

Ma anche i personaggi che appaiono per poche righe, e poi spariscono, hanno una loro evidenza plastica. Un esempio.
In un altro notevole racconto Smarriti,  il protagonista, un immobiliarista, stanco con gli occhi che gli bruciano, decide di fare un giretto a piedi per il paese, che si trasformerà in un viaggetto pieno di sorprese. E la prima di queste sorprese, l’altra sarà ancora più sorprendente, è una donna, un’estranea che sbuca, non capisce da dove. Così Oz la descrive:

“Non era di qui. Era molto magra ed impettita, con un naso aquilino, il collo corto e massiccio, in testa un buffo cappello giallo pieno di spille e fibbie. Era vestita da escursionista, aveva uno zaino rosso sulle spalle, una borraccia legata alla cintura, degli scarponcini, teneva in mano un bastone e sull’altro braccio aveva appeso un impermeabile, non certo adatto al mese di giugno. Sembrava ritagliata da una pubblicità per viaggi alla scoperta della natura. Ma non qui da noi, in regioni ben più fredde. Non riuscivo a staccarle gli occhi da dosso.
La sconosciuta ha ricambiato con uno sguardo truce e penetrante, quasi feroce. Aveva un’aria altera come se mi disprezzasse dal profondo del cuore, o quasi volesse dire che per me non c’era nulla da fare lo sapevamo bene tutti e due. Era talmente pungente quel suo sguardo, che non ho potuto fare a meno di scostare il mio e allontanarmi (…). Dopo una decina di passi non ce l’ho fatta e mi sono voltato. La forestiera non c’era più. Inghiottita dalla terra. Ma io non riuscivo a mettermi il cuore in pace”.

Non la rivedrà più,  ma in questo breve passaggio lo scrittore ce la consegna incisa brillantemente: da un lato un po’ grottesca, “sembrava ritagliata da una pubblicità per viaggi”, dall’altra molto inquietante con quello sguardo truce e giudicante, che lascia poi una scia di mistero.

Amos Oz. Scene dalla vita di un villaggio. Traduzione di Elena Loewenthal. Feltrinelli.  

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