di Sharon Tofanelli
C'è un tempo specifico per
leggere Donne Innamorate, un tempo che non può essere troppo anticipato,
o ritardatario. Donne Innamorate più che apprezzarlo lo si vive. Ed è in
quel momento, quello in cui lo si riconosce come parte integrante del nostro
vissuto, che iniza a esercitare quel magnetismo vago.
La seduzione di Donne
Innamorate giunge ad amplesso ultimato.
Dove sta il fascino? E'
riassumibile in una frase: semidei in estasi, senza pietà.
Perché semidei? Perché in
quest'opera, in questo testo dalla trama prettamente decorativa, è l'io dei
personaggi a regnare. Quattro individui, due coppie, un'omosessualità: Gerald,
Ursula, Birkin, Gudrun. Lawrence ne traccia la psiche con una precisione
allarmante, costringendo il lettore a un'intimità forzata, via via più intensa,
fino alla perdizione.
Personaggi ribelli e insofferenti
alla civiltà, i quattro vivono in preda a passioni e inclinazioni, ora
isolandosi, ora tenendo polemici teatrini. Dapprima generano in noi la
confusione, loro e quel ripetersi di azioni irrazionali, di frasi cavate da un
subconscio che nella vita di tutti i giorni nessuno adopererebbe: Gudrun che
danza tra i buoi, Birkin nudo e abbarbicato all'erba, Ursula ginocchioni ad
abbracciargli l'inguine.
E tuttavia, a poco a poco
capiamo. E capiamo che analizzarli è sciocco. Poiché i quattro ci sono
superiori, come tutti i satiri, tutte le ninfe e le grazie lo erano ai greci. E
lasciamo che giochino, lasciamo che strepitino e s'incapriccino con la
riverenza e la pazienza che useremmo con un dio infante.
Perché in estasi? Perché in Donne
Innamorate, in cui Lawrence profonde tutto l'esotismo che gli arriva da
quella sua vita da ramingo, è palpabile quella pigrizia da harem, quella patina
di languore che esercita la parola, ora sqisitamente straniera, ora densa di
termini ricercati, in particolare in certe descrizioni apparentemente
superflue, ma essenziali in un romanzo del genere.
A ciò si accompagna quella
tensione, quella percezione che qualcosa deve accadere, quell'aspettativa di
sesso o di morte -e nessuno dei due verrà a mancare- che culmina nei capitoli
centrali. Donne Innamorate è un testo che sussurra, un'unghia
gentilmente passata sul braccio per provocarne i brividi. E' l'istante di certe
epifanie che allarmano improvvisamente i personaggi, che li volgono all'atto
creativo o distruttivo, senza che il perché sia spiegato. Come l'estasi dei
santi, neppure questa ha un'esplicabilità, è indubbiamente carnale, ma mistica
al contempo. E pare così giusto che a esserne colpiti siano individui dalla
sensibilità estrema, epidermica. Birkin, Gerald, Gudrun, Ursula: non sono
persone, sono fiori. Pare quasi un sadismo accanirsi su di loro.
Questo ci porta all'ultimo punto:
senza pietà.
Perché senza pietà? Perché
piacere e dolore si abbattono sui personaggi con violenza, infischiandosene di
tanta delicatezza. Al richiamo dell'eros si deve rispondere, rispondere o
morire.
E mentre Birkin, quintessenza di
Lawrence, fallisce ripetutamente nei suoi tentativi di razionalità, altri
soccombono nella propria impossibilità a piegarsi: e arriva la morte a
perseguitarli.
Natura madre e matrigna, questa
prende via via piede, assume più potere, impera. Se i primi
capitoli si
consumano in città e paesi, gli ultimi vedono i quattro smarrirsi nel nitore
delle Alpi svizzere. E' come se l'intero romanzo fosse un corpo che rotola per
un pendio, sempre più rapidamente, verso un destino ineluttabile. A tanto è
giunto Lawrence, l'artista perseguitato dalla tubercolosi, che ha scandalizzato
la società del Novecento, prima con la natura aperta della sua relazione, che
prevedeva anche l'omosessualità -a tal proposito, Gerald pare tratto da
Middleton Murry, amante di sua moglie, con cui lo stesso aveva un rapporto
particolare-, poi con una portata di romanzi ai quali l'Inghilterra non era
ancora pronta. Romanzi che dovranno pagare con roghi e censure. Romanzi tra i
quali Donne Innamorate è un apice.
E pensare che Lady Chatterley doveva
ancora arrivare.
David Herbert Lawrence. Donne innamorate. Newton Compton.
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