di Sharon Tofanelli
A certe storie, a certi libri si deve arrivare preparati. In un certo
qual senso, li si può equiparare al primo rapporto sessuale: strascichi
perturbanti, esplosioni multisensoriali. Una gamma sgargiante di colori, di
odori e suoni prende a impazzare con una passione non priva di sadismo.
Quando l'imbuto che è Lisario inizia a inghiottire, nella testa
del lettore si spalanca un caleidoscopio. E no, non si torna indietro.
Il romanzo di Antonella Cilento si apre sulla Napoli barocca, la Napoli
delle folle inferocite e dei teatranti squattrinati, dove mezza Europa va a
defluire come l'acqua giù per i canali di scolo. Nella città del chiasso, del
turpiloquio e dei santi venerati, Belisaria Morales -ovvero Lisario- è la voce
che ha da tacere, la femmina immodesta, "malata dalla nascita di
straparola". Lisario osa leggere, osa scrivere e pensare.
Lisario dovrà pagare con la perdita della lingua.
Condannata al matrimonio, opera una protesta passiva, faticosa: sceglie
di dormire, dormire forzatamente, di essere la bella dormiente del rione. Al
destino della ribelle si allaccia quello di Avicente Iguelmano, il medico
fallito che è incaricato di porre fine al coma. Scrutato dal paese intero, da
quella Napoli poliocchiuta e popolaresca da Cunto de li Cunti, Avicente
desta Lisario con il piacere: quello di lei. E il suo spirito di uomo, di
individuo secentesco scivola nella confusione.
Perché Lisario è una donna e può conoscere l'ebbrezza dei sensi anche
senza di lui.
Poetico, passionale e tuttavia morboso, il romanzo sprofonda nei moti
interiori dei suoi personaggi, in particolare i maschili, frugando nei
meccanismi più sensibili e remoti. Avicente, che ha ottenuto Lisario la
miracolata in sposa, pur conscio del fatto che ha fatto finta, che lei, stupida
femmina, costola estratta, metà deficiente dell'uomo, per sei mesi è riuscita a
fingere il sonno e a beffarsi di una città intera; di più, sa che non lui l'ha
destata, ma lei stessa ha acconsentito a farsi destare. E' Lisario, la consorte
muta, a esercitare il potere. E c'è quel misterioso, quell'abominevole piacere
della donna, un piacere che non si può controllare, né imbrigliare:
«Loro godono e io non capisco come...godono anche senza di noi...»
«E che v'importa?»
«Perché...ci rubano qualcosa. [...] Forse possono fare altro senza
di noi [...] Immaginate che concepiscano senza di noi [...]: su chi
eserciteremmo la nostra...autorità? [...] Presto anche il denaro sarebbe nelle
loro mani...»
Altri personaggi s'intessono nella trama: Töde, l'anatomista asessuato
che stempera la frustrazione sezionando donne; Jacques Colmar, il maestro di
scena, che riamato ama Lisario; Michael de Sweerts, talentuoso pittore
omosessuale, innamorato suo malgrado di Colmar e condannato dal tempo e dalla
morale a detestare ciò che è. Un intreccio dinamico porta i personaggi a
incontrarsi e scontrarsi in un rutilante alternarsi di luci e di ombre, delle
battute più scurrili e della poesia più viva: lo studio di Avicente si
affastella di vulve disegnate; nei tendaggi smossi dal vento, Michael immagina
le sottane di una donna e si addolora; Lisario scrive in segreto lettere alla
Madonna; Colmar la intravede in chiesa, innamorandosi delle sue unghie sporche,
delle orecchie non lavate.
E' guerra dichiarata. E' guerra tra la ragione e l'umanità cruda; è un
gatto epilettico che piomba in laboratorio, seminando il caos. E' la crudeltà
di certi flashback, quando assistiamo all'Avicente bambino, trascinato dal
padre all'autopsia pubblica, costretto a fissare il cadavere, svenuto. E'
l'impatto di certe figure lontane, ormai deperite, come la madre, la
cristianissima madre di Michael: lei così pia, lui un'aberrazione. A far da
sfondo la Napoli tumultuosa di Masianello, tra epidemie, zoccole e fiamminghi, la Napoli dei cantanti
castrati e dei travestiti, la Napoli sboccata che i dottori disprezzano. Ciclo
dei vinti, fantasia erotica di un Verga nei fumi dell'alcool, con un ritmo
forsennato che per certe svolte pare quasi una fiaba, il punto di vista slitta
da personaggio a personaggio, ora inscenando azioni, ora trascrivendo diari
missive appunti, sino ad approdare al piano onirico: è il caso del sogno che
ricorre per ampia parte del romanzo, in cui un Avicente progressivamente più
folle si trova al cospetto dei santi, santi popolareschi, quelli che la città
ama, che si sporgono dal balcone e gl'imprecano addosso in napoletano.
Antonella Cilento |
E in tutto questo coacervo di lingue, di traumi e violenze, Lisario
pare irriducibile come un obelisco. Causa involontaria, in quanto femmina
disinibita, del tumulto che scuote la rete dei personaggi, lei non è partecipe
della matassa psicologica. I fatti le scorrono addosso puri, limpide le emozioni,
veritiere. Lei che è donna, dalla quale questo Seicento non si aspetta la
dignità della ragione, rimane al di fuori dai quei torbidi abissi. E tutti, noi
compresi, a scrutarla dall'esterno, oltre quell'afonia che l'ammanta di
segreto. Lei, che dà il nome al romanzo, rimarrà un mistero nella sua
semplicità sconcertante.
Questo libro? E' Lisario, nel nome e nell'essenza. Ti accoglierà
nel suo letto di lana grezza, un poco ruvido e lentamente stringerà la presa.
Sarà volgare, sarà diabolico e scurrile da farti scuotere il capo. Se griderai
al peccato, arrossirai nel sapere che un peccato lo s'interpreta, lo s'indossa
con convinzione. E Lisario non recita.
Perché Lisario è.
E in queste tre parole è l'intero dramma.
Antonella Cilento. Lisario o il piacere infinito delle donne. Mondadori
2014.
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