Iosif Brodskij, come Pasolini e Paul Celan, è caduto dentro un secolo terribile, nel quale più volte la poesia è stata messa in crisi e data per morta, come recitava lapidaria la sentenza di Adorno: “scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto possibile scrivere poesie.”
Malgrado il pessimismo del filosofo, poeti come Brodskij, Mandel’stam, o Ungaretti e Quasimodo da noi, non hanno mai perduto il senso della resistenza etica. Nessuna concezione della poesia può essere messa sotto accusa: i grandi autori non sono mai stati tanto poeti quanto in tempo di precarietà, di crollo dei paradigmi umanistici e di perdita delle certezze storiche.
Questo dato di fatto è talmente ficcante da diventare il cuore geometrico dell'attività poetica di Brodskij. Nelle pieghe dei suoi versi di marmorea bellezza classica sono passati i mestieri più disparati: il fresatore in una fabbrica di Leningrado; l’addetto alle caldaie in un bagno pubblico; l’assistente in un anfiteatro di anatomia; l’operaio avventizio per una missione di geologi in Siberia; e tra queste navigazioni possiamo inserire anche il nomadismo, a piedi tra Russia e Asia Centrale o arrampicandosi sui ghiacciai del Pamir senza provviste e senza attrezzatura alpinistica.
In tanto dinamismo Brodskij riuscì a trovare il tempo di istruirsi, imparando numerosissime lingue e giungendo a conoscere alla perfezione l’inglese e il polacco; e ad impegnarsi nella militanza politica, aderendo al realismo socialista del suo tempo. L’uomo esplorò la sua condizione fino in fondo: lavorò, studiò, militò, coltivò gli ideali buoni della sua generazione, e fece in tempo a farsi arrestare con l’accusa di “parassitismo”, quindi ad essere spedito in un ospedale psichiatrico e poi al confino in una lontana regione del Nord, per scontare cinque anni di lavori forzati. Nella sua vita Brodskij provò quell’esperienza della persecuzione tout court che lo rese un autentico personaggio kafkiano. Occorrerà aspettare il 1989 per vederne la “riabilitazione”. Questo è l’uomo che miracolosamente è riuscito a sopravvivere.
Il poeta continuò ininterrottamente il suo lavoro di scavo dentro grandi temi metafisici ed esistenziali. Ed è singolare che di tanta variata e inaudita materia biografica non ritroviamo che un pulviscolo di vicende sparse in versi di classica perfezione. Al Brodskij poeta interessava la tenuta e la purezza della difficile e calibrata arte della versificazione. Egli sapeva bene che il testo poetico sarebbe stata la vera forma con la quale la Storia l’avrebbe ricordato. Se la vita quotidiana trasvolava tra bordi sfrangiati e precipizi spalancati sull’assurdo, all’opposto la ’vita in versi’ andava costruendo un abito di bronzo imperituro, inciso di assimilazioni classiche; di dialogo con la tradizione; di recupero di un senso arcaicizzante, lavorando a innovare strutture metriche come odi, ballate, elegie; e di segreto nutrimento nella pratica di lettura e traduzione di poeti metafisici inglesi del XVII secolo, quei John Donne e Andrew Marwell dai quali Brodskij imparerà a trasformare il suo pensiero in materia da poemi. Non stupisce che proprio la fama di Brodskij abbia ricevuto il sacro battesimo di W.H. Auden, all’epoca vero e proprio classico vivente della letteratura inglese.
“Il vero pericolo per uno scrittore non è tanto la possibilità (e non di rado la realtà) di una persecuzione da parte dello Stato, quanto la possibilità di farsi ipnotizzare dalla fisionomia dello Stato, una fisionomia che può essere mostruosa o può cambiare verso il meglio ma è sempre provvisoria. La filosofia dello Stato, la sua etica - per non dire la sua estetica - sono sempre ’ieri’. La lingua e la letteratura sono sempre ‘oggi’ e spesso (specialmente nel caso in cui un sistema politico sia ortodosso) possono addirittura costituire il ’domani’. Nessun poeta, messo davanti alla necropoli del “secolo breve”, si è piegato alla tentazione di fregiarsi “del titolo onorifico di ’vittima della storia’; la sua ricerca anzi si è sempre orientata verso la costituzione di un senso capace di restaurare quegli strappi feroci che la mano della Storia aveva lasciato sul corpo dell’uomo. La poesia del Novecento non ha mai giudicato gli oppressori secondo criteri di semplice moralità: tenendosi in uno spazio premorale ha cercato con lucidità di metterne a nudo le ragioni oscure di violenza e di distruzione."
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