di Gianni Quilici
Ci sono delle foto
che chissà come mai, mi chiedo ora, si
scolpiscono indelebili, memorizzandosi senza alcuno sforzo concentrativo.
Una è questa di
Letizia Battaglia, vista molti anni fa, forse sul quotidiano Lotta continua, poi ritrovata più tardi
su riviste o libri. Sicuramente la ragione è oggettiva (nella foto in sé),
forse anche soggettiva (nella storia del mio sguardo).
Tralasciando
tuttavia ragioni interne e personali, ci sono (penso) in questa immagine tre
elementi evidenti, in cui il contrasto dà forza e armonia allo scatto.
Innanzitutto ad un
immediato sguardo risalta la contrapposizione cromatica tra il nero dello
sfondo della porta di legno ( si potrebbero notare ad essere pignoli quelle
scalfitture e linee che fanno pensare a pennellate vagamente avanguardistiche) e
il bianco del vestito e della pelle dell’adolescente.
Poi la bellezza
del pallone, grande e ben disegnato con esagoni bianchi e neri, tenuto su una
mano a lato dalla ragazzina come possibile contingente segno di identità (“amo
il calcio”).
E’ vero, è uno
sguardo profondo, intenso, come rileva la Battaglia, ma anche diffidente, quasi
non volesse essere catturato dall’obiettivo, in un volto spiccatamente mediterraneo
con sopracciglia e capelli nerissimi che le ricadono sulla fronte. Ma
l’elemento più interessante risiede forse in quel braccio, esile e nudo, alzato sopra il capo, che sembra un gesto mutuato da spettacoli televisivi o da
foto di modelle e attricette.
Da qui un
possibile azzardo sociologico: per un verso si può credibilmente immaginare
un’infanzia di bambina vissuta prevalentemente sulla strada; per un altro verso
si può credibilmente ipotizzare la presenza sottilmente condizionante di una
televisione, che, da qualche anno, si era incuneata nell’immaginario
adolescenziale e non solo. Da qui: la tenerezza.
Letizia Battaglia.
Palermo, quartiere La Cala. 1980.
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