Melfi meriterebbe
un giro più profondo e articolato la mattina: entrare nel castello, contemplare
il sarcofago, passeggiare nei vicoli del Borgo, fare un giro intorno le mura là
dove ciò è possibile… ma quando i viaggi sono brevi e altre cittadine
attendono…
Il primo paese,
raggiunto alle spalle, attraverso una strada secondaria: Rapolla. E l’inizio è
preoccupante: una via asfaltata e rattoppata, case grigie, deserto umano fino a
quando si trova una discesa ripida e stretta. “Dove siamo arrivati?” penso, ma
ecco la strada con negozi, corpi umani, parcheggio. Vicino la piazza, dove in
un angolo al fresco stazionano pensionati seduti su panche o muretti,
aspettando l’ora del pranzo, “Il centro storico?” “Di là”. Perplessi si sale a
piedi su strada asfaltata nel sole già alto
ed ecco in fondo una chiesa, la cattedrale di Santa Maria Assunta, con
una facciata, banalmente penso, juventina, tra il bianco e il nero.
foto Gianni Quilici |
Appiattito come un
tappeto sul sagrato un cane. Mi avvicino, alza il muso, mi guarda un istante,
ritorna ad appiattirsi. Siedo anch’io nell’ombra con un venticello che mitiga
il calore incombente e guardo la strada che qui si allarga confondendosi con la
piazza. Alcune donne sono sedute in un
angolo, là dove sembra iniziare il centro storico, quando ecco arrivare una
macchina piena di vestiti nel portellone rimasto aperto, sui sedili anteriori e
sopra il portabagagli sul tettuccio. La macchina fa un giro circolare e si
ferma. Ne esce un tipo, tira fuori una sigaretta senza accenderla e va a
parlare con le donne. Ricordo scene uguali nella mia corte nell’infanzia e
nella adolescenza. Arrivavano macchine o camioncini con vestiti o frutta e
verdure, le donne uscivano dalle case, guardavano, chiacchieravano, contrattavano,
mentre qui niente. Dopo avere appena
parlottato il tipo con la sigaretta spenta in mano risale in macchina e lo vedo
sparire con la sua mercanzia.
Il centro storico
sale e discende più grande di quello che presumevo, tra vicoli stretti e case abbandonate,
tra pietre, sassi e cemento, nell’abbacinante deserto umano e animale del
mezzogiorno. Una donna soltanto con occhi sgranati ed una fontana. “Come si
ritorna in piazza?” “Bisogna risalire e poi sempre sulla sinistra….” Andiamo. Un
giovane sbuca davanti tra luci e ombre. Scatto.
Eccomi posato su
una panchina all’ombra davanti al castello di Venosa con la torre cilindrica da
abbracciare nella sua possente nudità e un uomo in calzoncini corti e
canottiera rossa che pedala stancamente nella luce che brucia. Il museo
archeologico sta chiudendo e aprirà soltanto alle 15, come pure il Parco
archeologico, che ricordo magnifico con l’abbazia della Trinità, la chiesa
incompiuta e resti di anfiteatro. Possiamo soltanto fare un giro sul camminamento
del castello, ma niente si vede se non case e cortili che certamente non
abbagliano gli occhi. Il corso Vittorio Emanuele II attraversa il centro
storico ed è anche, purtroppo, l’unica via d’accesso per le auto. Ecco la
cattedrale più volte rifatta, il palazzo vescovile, e, così scrivono, la casa
di Orazio, povera casa in mattoni con una sua poesia tradotta su una lapide,
che fa immaginare Orazio bambino e adolescente in spazi che i suoi stessi versi
rendono mitici e che si possono appena appena immaginare guardando la collina aperta
davanti a noi.
Non sempre i
cartelli stradali verso Altamura sono chiari o presenti e così mi accade, ad un
incrocio di strade, di dovere uscire dall’auto con aria condizionata per meglio
capire. E vengo avviluppato da una vampata
imprevedibile di calore. Quando ritorno in macchina vedo 41° e mi ricordo soltanto
un momento simile. Era il primo
pomeriggio, in un paese tra Siviglia e Cordoba. Finita l’acqua e una sete
terribile. In strada nessuno. Entrai in un bar. Mi accolse inaspettato un buio
quasi totale, qualche avventore al banco e ai tavoli in silenzio.
Una strada dritta
porta ad Altamura, imbuco la circonvallazione o almeno credo. Immaginavo fosse
facile scovare il B&B prenotato. Invece sono spaesato. Dove andare? Ci
fermiamo in una rientranza della strada. Chiedo concitato. L’uomo mi guarda
perplesso. “Venga” Va alla sua macchina, mi chiede nome e indirizzo del
B&B, lo inserisce nel navigatore, trova la via, ci pensa un attimo. “Ecco
devi salire su a destra, sempre dritto, finché troverai…” Quando scoviamo la strada principale diventa,
invece, un problema individuare la traversa. Solita tiritera: vedo un tipo tarchiato
e calvo davanti a un bar, chiedo l’informazione, dopo un po’, da uno all’altro,
con una certa concitazione, si arriva a “chi sa”. Di questa disponibilità è
ricca la Puglia e a questa si aggiunge la curiosità di sapere chi sei, di interagire.
Altamura (bel
nome) ha un bel centro storico circolare ben delimitato, con al centro la
piazza del Duomo e la Cattedrale romanico-gotica rifatta a più riprese, su cui
si impongono il bel rosone e un ricchissimo portale. Ed è una cittadina molto
viva . Così almeno l’ho percepita in una serata-mattinata. Ci ho sentito
un’anima popolare, poco borghese. Una festa per la Nikon per quella
pavimentazione a tratti marmorea, per
quelle piazze, per quei vicoli e vicoletti in cui ti puoi imbattere in bambini
intenti a giocare, in grappoli di adolescenti, in donne sedute fuori al fresco a
chiacchierare e nella folla variegata, che scorre fino a tardi lungo via Federico II, che attraversa da sud a nord
l’intero centro storico.
Nel pieno della
notte, invece, la fatica di alzarsi dal letto per una sete terribile, con l’acqua
fredda del frigo quasi esaurita; la
perplessità di uscire seminudo con la bottiglietta in mano, tra vie deserte; e il
piacere di trovare l’acqua fresca nella vicina fontana.
E ancora una volta
il tempo stringe: niente Uomo di Altamura, lo scheletro umano preistorico,né le
mura megalitiche, neppure, a qualche Km nelle Murge, il pulo di Altamura, una
voragine profonda 75 metri
e larga 500 metri,
abitato nell’età neolitica.
Mi giustifico:”Sarà
per un’altra volta”. Il viaggio continua.
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