27 dicembre 2008
"L'anulare" di Ogawa Yoko
di Gianni Quilici
Ciò che affascina in questo breve romanzo di questa giovane giapponese Ogawa Yoko (Okayama 1962) sono due elementi in apparente contrasto tra loro: da una parte c'è una scrittura lineare, essenziale e tradizionale in una storia che può apparire anche dimessa, perché resa al massimo grado naturale e, seppure strana, verosimile; dall'altra invece questa stessa storia si fa sempre più enigmatica ed inquietante fino a sfiorare immaginativamente, senza però mai rappresentarlo, l'horror, e, ciò che più conta, a prefigurare una metafora aperta a diverse letture (cioè ambigua) della società contemporanea e nipponica innanzitutto.
Ogawa Yoko tratteggia benissimo la protagonista: una giovane ragazza, timida e sottomessa, che ha subito una piccola amputazione all’anulare e che si trova segretaria di un laboratorio alquanto strano; invece il signor Deshimaru, proprietario del laboratorio rimane, enigmatico e inquietante, nell'ombra: forse mostruoso orchestratore, forse dotato di potere ipnotico. Il laboratorio, un palazzo fatiscente, carico di ricordi e di stanze, è lo scenario in cui il signor Deshimaru trasforma oggetti normali della vita quotidiana, che persone normali portano al laboratorio, in “esemplari” simili, simboli a testimonianza imperitura.
Un romanzo che ci trascina dentro un'atmosfera allucinata e folle nel modo più efficace: lasciandoci alla soglia e facendoci soltanto immaginare...
Immaginare non soltanto “cose orripilanti”, ma ciò che noi siamo o ciò che possiamo diventare: strumenti in mano a “qualcuno”, che può soggiogarci e da cui desideriamo essere soggiogati. Qui ci si potrebbe “perdere” in un reticolato di discorsi sociologici...
Ogawa Yoko. L’anulare. Traduzione di Cristiana Ceci. Pag. 103. Adelphi, Milano 2007. € 9.
25 dicembre 2008
"Un terribile amore per la guerra" di James Hillman
di Emilio Michelotti
Gli estimatori di James Hillman sanno che dal grande vegliardo della psicoanalisi americana non devono aspettarsi rigore e scientificità. Anche in questa recente fatica balzano in primo piano più che ineguaglianze e ingiustizie, nazionalismi e imperialismi, figure archetipiche capaci, a suo dire, di condizionare l’umano agire.
Come in René Girard, l’opzione per la pace di Hillman non nasce da una visione ottimista della ‘natura umana’, anzi. Per entrambi, seppure – mi pare - con differenti scrupoli di legittimità, antropologica, violenza e sacro – considerati costruttori della civilizzazione della ‘scimmia nuda’ – si identificano.
L’invito provocatorio è quello di aprire gli occhi su questa terribile verità: la guerra sarebbe pulsione primaria e ambivalente, dotata di una carica libidica al pari dell’amore e della solidarietà. Ogni scelta pacifista sarà vana finché Ares non verrà riconosciuto come forza primordiale accanto ad Afrodite.
Più che un’incarnazione del Male la guerra è, per Hillman, una costante costitutiva dell’umanità, in grado di determinare il nostro comportamento tanto più potentemente quanto più ne rinneghiamo la cogenza.
James Hillman, Un terribile amore per la guerra, traduzione di Adriana Bottini, Adelphi Edizioni, Milano 2005.
22 dicembre 2008
"Franny e Zooey" di J. D. Salinger
di Gianni Quilici
Confesso una prevenzione. La prevenzione che Salinger avesse scritto un solo (forse perché mitico) romanzo “Il giovane Holden”; e che gli altri si potessero ignorare.
Mi è successo di trovare su una bancarella questo Franny e Zooey per pochi euro; l'ho comprato comunque curioso, non capivo se erano due romanzi brevi o uno solo, ho iniziato subito a leggerlo e ne sono rimasto subito attratto.
[L'attrazione nasce da questo: il romanzo ti tira, non sei tu che devi tirarti il romanzo].
Eppure la storia è esilissima, non c'è una vera trama, non succede niente di rilevante da un punto di vista drammaturgico. C’è la crisi mistica di Franny, una ragazza appartenente ad una numerosa famiglia di origine irlandese composta di ex bambini prodigio. Ci sono i dialoghi tra Franny e suo fratello Zooey, tra Zooey e sua madre e l’impalpabile presenza degli altri fratelli e sorelle.
Ma cosa mi ha attratto?
Lo scandaglio psicologico. Franny, la ragazzina fragile e bellissima che Lane, il (suo) ragazzo aspetta alla stazione, non è soltanto rivelata nella sua profondità, ma questa profondità è radicale, costretta quasi senza volerlo a non accettare le approssimazioni concettuali e esistenziali di Lane. Salinger ce la presenta nella sua impossibilità dolorosa di comunicare con il ragazzo, a cui pure tiene-teneva tanto.
Con il fratello di lei, Zooey, la radicalità si moltiplica fino a diventare quasi delirante. Zooey è spietato nello smontare e distruggere sadicamente le ragioni che stanno dietro le parole ed i comportamenti falsamente intellettuali, falsamente religiosi fino, però, a diventare esso stesso vittima della sua capacità introspettiva.
Ciò che emerge in generale è la famiglia Glass, non omologabile, anzi “unica” con una madre volitiva e petulante, ed una serie di figli, oltre Franny e Zooey, di cui si parla, ma che non appaiono, uno di essi, non potrebbe: si è suicidato.
Questo scandaglio psicologico è intrinseco a uno stile inconfondibile, di cui vorrei sottolineare almeno due elementi:
i dialoghi, che sono spesso concettuali, investono la cultura, la psicologia, la religione;
e la scomposizione in dettagli di sguardi, movimenti, pensieri con una successione foto-cine-fotografica di immagini visive o psichiche, che vanno in zone oscure della psiche, poco definibili.
Se non si coglie questa psicologia comportamentale la narrazione può apparire pesante o poco scorrevole; in realtà fornisce invece quegli elementi di psicologia del profondo, che rendono articolati, sorprendenti e appassionanti i personaggi e le vicende stesse.
Jerome D. Salinger. Franny e Zooey. Traduzione di Romano Carlo Cerrone e Ruggero Bianchi. Einaudi 1979, 176 pag. € 13.50.
Il pianoforte come solista
di Nicola Amalfitano
In epoca preromantica, il clavicembalo perde gradatamente importanza come strumento solista, dal 1750, poi, viene definitivamente soppiantato dal pianoforte che realizza i nuovi ideali stilistici di valorizzazione dell'intensità e della cantabilità dei suoni.
Dal punto di vista tecnico, in quanto strumento a corde percosse, il clavicordo, piuttosto che il clavicembalo, è l'antenato del pianoforte; tra i costruttori si sperimentano innovazioni per adeguare il clavicembalo alle nuove esigenze dei compositori e, infine, Bartolomeo Cristofori, ai primi del '700, inventa il "gravicembalo col piano e forte". Si tratta di un clavicembalo opportunamente modificato nella tavola armonica e nella tastiera, le corde non vengono pizzicate, ma sono colpite da appositi martelletti in modo da adeguare l'intensità sonora in funzione della forza applicata. La strada è ormai segnata e il pianoforte, in breve tempo, assume forma e struttura ben definite, pressoché simili a quelle attuali. Nel corso degli anni si apportano migliorie per irrobustirne la struttura e rendere più efficiente la cassa armonica, le corde aumentano di spessore e di lunghezza; risultano essenziali le modifiche introdotte verso il 1780 da Silbermann e da Andreas Stein, suo allievo.
Intorno al 1750 non esiste ancora una scrittura specifica per pianoforte, i compositori si limitano a trascrizioni di brani originariamente scritti per clavicembalo; i due figli di Bach, Johann Christian e Carl Philipp Emanuel, rappresentano una prima fase tendente al rinnovamento, ma le loro partiture ancora risentono dello stile galante.
Haydn e ancor di più Mozart, riservano una maggiore attenzione virtuosistica al nuovo strumento.
Muzio Clementi è, finalmente, il primo compositore a dare una connotazione propria alla scrittura per pianoforte; il suo stile ricco di sonorità, dinamismo, contrasti, segna il passaggio dall'età di Haydn e Mozart a quella di Beethoven; significativa è l'opera "Gradus ad Parnassum".
Con Beethoven, il pianoforte acquista una dimensione "orchestrale". Come nelle sinfonie, Beethoven cerca nel pianoforte sonorità altrimenti impensabili nel clavicembalo, va alla ricerca di nuove e poderose forme espressive, le scale, gli arpeggi, gli accordi a volte lasciati in sospeso, non sono virtuosismo di moda, ma esprimono tensioni e sentimenti di un animo che cerca nella musica la sua liberazione.
Il romanticismo rappresenta il periodo d'oro per il pianoforte: i compositori sperimentano nuove espressioni, vanno alla ricerca di sonorità sempre più raffinate, si cimentano in ardui virtuosismi, caratteristica di questo periodo è la figura del virtuoso, interprete e compositore, come Chopin e Liszt.
L'impressionismo pone fine alla figura del virtuoso e porta alla ribalta musicisti tra i quali spicca Debussy: il pianoforte è come un pennello, con tratti brevi, fuggitivi, quasi indefiniti, si trasmettono all’ascoltatore impressioni, emozioni, sensazioni legate alla natura.
Sul finire dell'ottocento, nel mentre si riduce l'interesse dei compositori, il pianoforte solista trova nuove affermazioni nelle nascenti espressioni musicali del ragtime, del blues, del jazz.
In epoca preromantica, il clavicembalo perde gradatamente importanza come strumento solista, dal 1750, poi, viene definitivamente soppiantato dal pianoforte che realizza i nuovi ideali stilistici di valorizzazione dell'intensità e della cantabilità dei suoni.
Dal punto di vista tecnico, in quanto strumento a corde percosse, il clavicordo, piuttosto che il clavicembalo, è l'antenato del pianoforte; tra i costruttori si sperimentano innovazioni per adeguare il clavicembalo alle nuove esigenze dei compositori e, infine, Bartolomeo Cristofori, ai primi del '700, inventa il "gravicembalo col piano e forte". Si tratta di un clavicembalo opportunamente modificato nella tavola armonica e nella tastiera, le corde non vengono pizzicate, ma sono colpite da appositi martelletti in modo da adeguare l'intensità sonora in funzione della forza applicata. La strada è ormai segnata e il pianoforte, in breve tempo, assume forma e struttura ben definite, pressoché simili a quelle attuali. Nel corso degli anni si apportano migliorie per irrobustirne la struttura e rendere più efficiente la cassa armonica, le corde aumentano di spessore e di lunghezza; risultano essenziali le modifiche introdotte verso il 1780 da Silbermann e da Andreas Stein, suo allievo.
Intorno al 1750 non esiste ancora una scrittura specifica per pianoforte, i compositori si limitano a trascrizioni di brani originariamente scritti per clavicembalo; i due figli di Bach, Johann Christian e Carl Philipp Emanuel, rappresentano una prima fase tendente al rinnovamento, ma le loro partiture ancora risentono dello stile galante.
Haydn e ancor di più Mozart, riservano una maggiore attenzione virtuosistica al nuovo strumento.
Muzio Clementi è, finalmente, il primo compositore a dare una connotazione propria alla scrittura per pianoforte; il suo stile ricco di sonorità, dinamismo, contrasti, segna il passaggio dall'età di Haydn e Mozart a quella di Beethoven; significativa è l'opera "Gradus ad Parnassum".
Con Beethoven, il pianoforte acquista una dimensione "orchestrale". Come nelle sinfonie, Beethoven cerca nel pianoforte sonorità altrimenti impensabili nel clavicembalo, va alla ricerca di nuove e poderose forme espressive, le scale, gli arpeggi, gli accordi a volte lasciati in sospeso, non sono virtuosismo di moda, ma esprimono tensioni e sentimenti di un animo che cerca nella musica la sua liberazione.
Il romanticismo rappresenta il periodo d'oro per il pianoforte: i compositori sperimentano nuove espressioni, vanno alla ricerca di sonorità sempre più raffinate, si cimentano in ardui virtuosismi, caratteristica di questo periodo è la figura del virtuoso, interprete e compositore, come Chopin e Liszt.
L'impressionismo pone fine alla figura del virtuoso e porta alla ribalta musicisti tra i quali spicca Debussy: il pianoforte è come un pennello, con tratti brevi, fuggitivi, quasi indefiniti, si trasmettono all’ascoltatore impressioni, emozioni, sensazioni legate alla natura.
Sul finire dell'ottocento, nel mentre si riduce l'interesse dei compositori, il pianoforte solista trova nuove affermazioni nelle nascenti espressioni musicali del ragtime, del blues, del jazz.
17 dicembre 2008
"Il mondo è una prigione" di Guglielmo Petroni
di Gianni Quilici
Sorpresa! Un romanzo scritto da Guglielmo Petroni (Lucca 1911- Roma 1993) nel 1945 e pubblicato, dopo diverse traversie editoriali, nel 1948 da Mondadori, che non è stato -per quello che ne so- “letto”, “stampato” “caldeggiato” per le scuole, come si dovrebbe, e che conserva intatto, dopo 60 anni dalla sua comparsa, la sua forza visiva, morale e politica.
Ed è proprio per questo -per la sua asciutta, profonda, inesorabile ricerca della verità innanzitutto in se stessi- che il romanzo è stato criticato e osteggiato dalla cultura della sinistra. Qualcuno disse che trattava la lotta di liberazione «con un'ombra di disfattismo». Per Petroni fu un colpo durissimo: «Ciò rappresentò un dolore per me che la Resistenza l'avevo fatta nel segno del Partito comunista. La rivista Rinascita pubblicò addirittura un articolo dove si affermava che questo libro era una specie di denigrazione della Resistenza».
È un breve romanzo, composto da dodici capitoli titolati. Ogni capitolo, una sequenza.
A leggerlo si rimane colpiti da due aspetti, che integrandosi, sono oggi segno della modernità del romanzo, mentre allora venivano condizionati dalla “ideologia resistenziale”.
Il primo aspetto: la rappresentazione cruda e nello stesso tempo ricca di personaggi.
Due esempi. Il ritorno a casa dopo la prigionia, da Roma a Lucca. Qui si colgono la miseria e la distruzione diffusa dalla guerra, fino a toccare l'apice: sopraggiunge la notte, lo scrittore affamato, sfinito con le gambe che gli si piegano, con il freddo crudele, non trovando nessuno che lo ospiti, neppure in una capanna, decide di sdraiarsi all'aperto sotto una tettoia, quando improvvisamente appare un cane nero enorme, ringhioso, che gli si avventa addosso...
E poi, i capitoli sulle (luride) carceri in cui viene rinchiuso, dove è sottoposto a interrogatori e a torture interminabili. «Furon tre giorni d'interrogatorio quasi ininterrotto - scrive Petroni nel romanzo - tre giorni snervanti i quali mi diedero stranamente una specie di forza che mi pareva di avere del tutto perduta dentro la cella. Ora erano cortesi e perfino affabili, ora chiamavano un energumeno col petto ricoperto di medaglie e di croci, mi mettevano bocconi su una scrivania e mi frustavano ridendo come se facessero per giuoco»
Il secondo aspetto è quello più originale e moderno: ed è il malessere di vivere. Quando Petroni, il 3 giugno, esce dalle carceri, paradossalmente non sente nessuna soddisfazione, anzi, sente la nostalgia dei giorni trascorsi, uguali, lenti, pieni di noia e di sonnolenza in prigionia. Perchè dietro la libertà c'è una vita tutta da rifare, perché la guerra e le tragedie sociali non erano soltanto fuori di lui, ma pure dentro, in mezzo ai segreti più intimi. Il primo passo per ritrovare la vita era da ricercarsi, secondo Petroni, nella profondità della nostra tradizione e storia.
Insomma Guglielmo Petroni scrive un romanzo politico (sulla Resistenza attraverso la prigionia) ed insieme esistenzialista. Un romanzo che non dice soltanto, ma rappresenta, dietro cui si scorge un esistenzialismo radicale di chi non rinuncia alla verità con se stesso. Ecco la ragione per cui si può leggere oggi, dopo 60 anni, e sentirlo vivo come allora.
Guglielmo Petroni. Il mondo è una prigione. Postfazione di Stefano Giovanardi. Universale Economica Feltrinelli. Pag. 118. € 7,00.
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11 dicembre 2008
L'opera buffa
di Nicola Amalfitano
L'opera buffa vede le sue origini in Italia, con Napoli e Venezia fra i maggiori centri di sviluppo; grazie all'introduzione di significative innovazioni quali il canto simultaneo di vari personaggi, la valorizzazione dei diversi ruoli vocali, il dinamismo del discorso musicale, svolge in tutta Europa un ruolo importante nel processo di evoluzione del teatro d'opera.
I primi tratti dell'opera buffa, detta anche commedia per musica, si manifestano agli inizi del 1700 quando, tra un atto e l'altro del melodramma, si intrattiene il pubblico con "intermezzi", ovvero brevi spettacoli a soggetto popolare accompagnati da musica allegra.
Dapprima sono brevi dialoghi con spunti comici, a volte grotteschi, che coinvolgono il pubblico borghese in quanto propongono i semplici modelli della vita quotidiana; presto, però, gli intermezzi si strutturano in genere teatrale a se stante. A differenza dell'opera seria che adotta stereotipi aristocratici e mette in mostra il potere e la ricchezza, l'opera buffa porta sulla scena personaggi che il pubblico ben conosce perché fanno parte della sua realtà quotidiana. I cantanti non impersonificano eroi mitologici o cavalieri di corte, bensì raffigurano persone vere, tratteggiate nel loro usuale modo di vivere. Si evidenziano le caratteristiche e gli aspetti tipici delle figure messe in scena e le forme musicali, vivaci, briose, tengono ben desta l'attenzione del pubblico. I personaggi sono oggetto di enfasi ironica ed i singoli ruoli vocali vengono calzati sulla tipicità del personaggio per rappresentarlo nel modo più comico possibile; ecco, quindi, apparire sulla scena il servo imbroglione, il vecchio avaro, la servetta che vuole spadroneggiare, il maestro di musica intrigante. Alla struttura fastosa e imponente dell'opera seria, la "commedia per musica" contrappone forme e strutture snelle e vivaci, orchestrazione ridotta, contrasto tra le voci e l'uso predominante del recitativo sulle arie.
Tra le prime espressioni dell'opera buffa è da menzionare assolutamente "La serva padrona" di Giovanni Battista Pergolesi; ancora sono da ricordare Niccolò Piccinni con "La Cecchina" su libretto di Carlo Goldoni, Giovanni Paisiello con "Nina ossia La pazza per amore" e Domenico Cimarosa con "Il matrimonio segreto". Sul finire del 1700, l'opera buffa attenua le sue caratteristiche di comicità con l'inserimento di momenti di malinconia e di lirismo; nel 1780 si parla ormai di melodramma giocoso e a questa tipologia possiamo riferire "Le Nozze di Figaro" e il "Don Giovanni" del grande Mozart. Con "L'elisir d'amore" del 1832 di Gaetano Donizetti, possiamo considerare ormai definitivamente chiusa l'esperienza dell'opera buffa; Gioacchino Rossini, con "L’italiana ad Algeri", "Il barbiere di Siviglia" e "La Cenerentola", costituisce il trait-d'union tra l'opera buffa e il melodramma ottocentesco.
L'opera buffa vede le sue origini in Italia, con Napoli e Venezia fra i maggiori centri di sviluppo; grazie all'introduzione di significative innovazioni quali il canto simultaneo di vari personaggi, la valorizzazione dei diversi ruoli vocali, il dinamismo del discorso musicale, svolge in tutta Europa un ruolo importante nel processo di evoluzione del teatro d'opera.
I primi tratti dell'opera buffa, detta anche commedia per musica, si manifestano agli inizi del 1700 quando, tra un atto e l'altro del melodramma, si intrattiene il pubblico con "intermezzi", ovvero brevi spettacoli a soggetto popolare accompagnati da musica allegra.
Dapprima sono brevi dialoghi con spunti comici, a volte grotteschi, che coinvolgono il pubblico borghese in quanto propongono i semplici modelli della vita quotidiana; presto, però, gli intermezzi si strutturano in genere teatrale a se stante. A differenza dell'opera seria che adotta stereotipi aristocratici e mette in mostra il potere e la ricchezza, l'opera buffa porta sulla scena personaggi che il pubblico ben conosce perché fanno parte della sua realtà quotidiana. I cantanti non impersonificano eroi mitologici o cavalieri di corte, bensì raffigurano persone vere, tratteggiate nel loro usuale modo di vivere. Si evidenziano le caratteristiche e gli aspetti tipici delle figure messe in scena e le forme musicali, vivaci, briose, tengono ben desta l'attenzione del pubblico. I personaggi sono oggetto di enfasi ironica ed i singoli ruoli vocali vengono calzati sulla tipicità del personaggio per rappresentarlo nel modo più comico possibile; ecco, quindi, apparire sulla scena il servo imbroglione, il vecchio avaro, la servetta che vuole spadroneggiare, il maestro di musica intrigante. Alla struttura fastosa e imponente dell'opera seria, la "commedia per musica" contrappone forme e strutture snelle e vivaci, orchestrazione ridotta, contrasto tra le voci e l'uso predominante del recitativo sulle arie.
Tra le prime espressioni dell'opera buffa è da menzionare assolutamente "La serva padrona" di Giovanni Battista Pergolesi; ancora sono da ricordare Niccolò Piccinni con "La Cecchina" su libretto di Carlo Goldoni, Giovanni Paisiello con "Nina ossia La pazza per amore" e Domenico Cimarosa con "Il matrimonio segreto". Sul finire del 1700, l'opera buffa attenua le sue caratteristiche di comicità con l'inserimento di momenti di malinconia e di lirismo; nel 1780 si parla ormai di melodramma giocoso e a questa tipologia possiamo riferire "Le Nozze di Figaro" e il "Don Giovanni" del grande Mozart. Con "L'elisir d'amore" del 1832 di Gaetano Donizetti, possiamo considerare ormai definitivamente chiusa l'esperienza dell'opera buffa; Gioacchino Rossini, con "L’italiana ad Algeri", "Il barbiere di Siviglia" e "La Cenerentola", costituisce il trait-d'union tra l'opera buffa e il melodramma ottocentesco.
10 dicembre 2008
"Come le mosche d'autunno" di Irène Némirovsky
di Gianni Quilici
Iniziandolo a leggere ho pensato “non mi piace”, perché d'istinto non amo la nostalgia, che trovo un sentimento che falsa il passato e che fa, quindi, vivere in un presente discutibile.
Tuttavia a fine lettura mi sono ricreduto.
“Come le mosche d'autunno” è un romanzo autobiografico e non lo è.
Per un verso, infatti, Irène Némirovsky sceglie come protagonista una vecchia nutrice e questo le consente di filtrare la sua storia attraverso altri occhi. La vediamo all'inizio benedire i giovani rampolli di quella famiglia quando partono baldanzosi per la guerra, assistere all’uccisione di uno di loro durante la rivoluzione russa; correre, con i gioielli cuciti nell’orlo dell’abito, dai padroni a Odessa, dove sono scappati; ed infine trasferirsi a Parigi in un mondo che non riconosce, da cui si sente profondamente estranea.
Per un altro verso, però, questa è anche la storia della scrittrice stessa, nata a Kiev nel 1903, fuggita con la famiglia in Francia nel 1919 e morta ad Auschwitz nel 1942.
La figura della vecchia nutrice consente tuttavia a Irène Némirovsky di proiettare sentimenti e pensieri che in buona parte, sono stati anche dell'autrice, ma tenendoli a distanza.
La Némirovsky dà alle stampe, in Francia nel 1931, Come le mosche d’autunno, scolpendolo in pochi capitoli di nemmeno 100 pagine.
La forza di questo breve romanzo risiede in almeno tre ragioni.
1) La protagonista è ben delineata nei suoi sentimenti dominanti:
l'amore di chi si identifica totalmente nella famiglia aristocratica, che ha sempre servito da due generazioni e che le consente di schierarsi, senza alcuna ombra, contro la rivoluzione russa; la nostalgia profonda verso un passato che non c'è più e l'impossibilità di poterlo far risorgere; l'angoscia infine per non ritrovare più a Parigi ne' gli inverni russu con la neve, con il fiume ghiacciato, ne' la vecchia famiglia nobile e fiera, che aveva vissuto e che ora era inesorabilmente cambiata: rumorosa e sciatta.
2) Il finale con la morte della vecchia nutrice, è splendido sia per la sua lapidarietà, sia perché delinea una fine più grande: la morte di un mondo, quello aristocratico ebreo-russo.
3) Infine, scegliendo come protagonista l'occhio della nutrice, Irène Némirovsky costruisce un romanzo per sottrazione, eliminando moltissima parte degli avvenimenti storici (guerra e rivoluzione), ma facendoceli percepire intimamente.
Irène Némirovsky. Come le mosche d’autunno (Les mouches d’automne). Traduzione di Graziella Cillario Adelphi, 2007.
08 dicembre 2008
Tra Barocco e Romanticismo
di Nicola Amalfitano
Intorno al 1750 si diffonde in Europa il cosiddetto stile classico, che mira a valorizzare l'armonia con forme semplici ed ordinate; si parla anche di classicismo viennese in quanto la città di Vienna diventa il punto di riferimento per tutti i musicisti dell'epoca.
Abbandonando le ultime espressioni della musica barocca, lo stile galante o “Rococò”, in Francia e lo “Stile Espressivo”, in Germania, i compositori classici puntano all'equilibrio delle parti ponendo nuova attenzione all'armonia e alla melodia. Nel periodo barocco, il singolo movimento era rappresentato da un soggetto che veniva enunciato all'inizio e poi elaborato e articolato mediante ripetizioni in sequenza; adesso, invece, siamo in presenza di fraseggi più articolati, capaci di generare nel singolo movimento un'ampia gamma di contrasti. Il Classicismo ingloba e supera le strutture e le forme del Rococò e dello stile Espressivo; pone l'accento su forme pacate esprimendo un linguaggio organico, rispettoso delle proporzioni. La melodia, il ritmo, l'armonia, sono trattati con equilibrio secondo lo schema strutturale noto come “forma sonata”. Da questo schema si sviluppano le sonate, i quartetti e le sinfonie. Anche nella musica vocale i compositori mirano all'equilibrio fra musica e dramma, sicché i cantanti lirici non hanno più grande libertà di improvvisare virtuosismi.
In pieno Illuminismo, la musica, oltre al pubblico rappresentato dalle corti aristocratiche, vuole raggiungere una platea molto più vasta di ascoltatori, soprattutto quelli provenienti dalla borghesia emergente, che sempre più peso acquista nella vita pubblica. Il Classicismo semplifica le strutture musicali liberandole dalle complicazioni tecniche allo scopo di farsi comprendere da tutti, non solo dai tecnici; la musica deve raggiungere il cuore e la mente degli ascoltatori. Assistiamo, quindi, non solo alla formazione di un nuovo pubblico, ma anche alla nascita di un mercato musicale determinato dal declino del mecenatismo musicale. Aumentano i luoghi deputati all'esecuzione musicale; oltre che nei teatri, nei palazzi nobiliari, nelle chiese, adesso si fa musica anche nei caffè, nei salotti della borghesia e nelle sale da concerto. Gli organici strumentali devono tener conto delle nuove esigenze, di conseguenza si ampliano in funzione degli spazi e delle nuove forme musicali; nell'orchestra scompare il clavicembalo, sostituito prima dal fortepiano e poi, definitivamente, dal pianoforte; l'orchestra sinfonica si arricchisce di nuovi strumenti: i clarinetti e i timpani.
Tra i tanti compositori di questo periodo sono da ricordare gli italiani Boccherini, Cherubini, Paganini e ancora Stamitz e C.P.E. Bach. Le figure dominanti sono costituite da Haydn, Mozart e Beethoven; quest'ultimo per il suo carattere di libertà e indipendenza e per l'uso frequente delle tonalità minori in senso tragico, anticipa quello, che dopo il congresso di Vienna, sarà il romanticismo musicale.
Intorno al 1750 si diffonde in Europa il cosiddetto stile classico, che mira a valorizzare l'armonia con forme semplici ed ordinate; si parla anche di classicismo viennese in quanto la città di Vienna diventa il punto di riferimento per tutti i musicisti dell'epoca.
Abbandonando le ultime espressioni della musica barocca, lo stile galante o “Rococò”, in Francia e lo “Stile Espressivo”, in Germania, i compositori classici puntano all'equilibrio delle parti ponendo nuova attenzione all'armonia e alla melodia. Nel periodo barocco, il singolo movimento era rappresentato da un soggetto che veniva enunciato all'inizio e poi elaborato e articolato mediante ripetizioni in sequenza; adesso, invece, siamo in presenza di fraseggi più articolati, capaci di generare nel singolo movimento un'ampia gamma di contrasti. Il Classicismo ingloba e supera le strutture e le forme del Rococò e dello stile Espressivo; pone l'accento su forme pacate esprimendo un linguaggio organico, rispettoso delle proporzioni. La melodia, il ritmo, l'armonia, sono trattati con equilibrio secondo lo schema strutturale noto come “forma sonata”. Da questo schema si sviluppano le sonate, i quartetti e le sinfonie. Anche nella musica vocale i compositori mirano all'equilibrio fra musica e dramma, sicché i cantanti lirici non hanno più grande libertà di improvvisare virtuosismi.
In pieno Illuminismo, la musica, oltre al pubblico rappresentato dalle corti aristocratiche, vuole raggiungere una platea molto più vasta di ascoltatori, soprattutto quelli provenienti dalla borghesia emergente, che sempre più peso acquista nella vita pubblica. Il Classicismo semplifica le strutture musicali liberandole dalle complicazioni tecniche allo scopo di farsi comprendere da tutti, non solo dai tecnici; la musica deve raggiungere il cuore e la mente degli ascoltatori. Assistiamo, quindi, non solo alla formazione di un nuovo pubblico, ma anche alla nascita di un mercato musicale determinato dal declino del mecenatismo musicale. Aumentano i luoghi deputati all'esecuzione musicale; oltre che nei teatri, nei palazzi nobiliari, nelle chiese, adesso si fa musica anche nei caffè, nei salotti della borghesia e nelle sale da concerto. Gli organici strumentali devono tener conto delle nuove esigenze, di conseguenza si ampliano in funzione degli spazi e delle nuove forme musicali; nell'orchestra scompare il clavicembalo, sostituito prima dal fortepiano e poi, definitivamente, dal pianoforte; l'orchestra sinfonica si arricchisce di nuovi strumenti: i clarinetti e i timpani.
Tra i tanti compositori di questo periodo sono da ricordare gli italiani Boccherini, Cherubini, Paganini e ancora Stamitz e C.P.E. Bach. Le figure dominanti sono costituite da Haydn, Mozart e Beethoven; quest'ultimo per il suo carattere di libertà e indipendenza e per l'uso frequente delle tonalità minori in senso tragico, anticipa quello, che dopo il congresso di Vienna, sarà il romanticismo musicale.
"BATTLE COMPANY" di Tim Hetherington
di Gianni Quilici
Quando entro nei sotterranei di Villa Bottini per la mostra “Battle company”di Tim Hetherington ho già visto dell'autore lo scatto premiato come migliore foto dell'anno 2008, dal World Press Photo. Di questa immagine avevo pensato che sì, è certamente una buona foto, perché attraverso lo sbadiglio di un soldato sul fronte di guerra si intuisce tutta la stanchezza e desolazione di essa, ma allo stesso tempo mi era sembrata troppo minimalista rispetto ad altri scatti presenti nella Mostra, che presentano una maggiore complessità di segni fotografici e di senso esistenziale. E devo dire che “Battle Company”, 2° battaglione aviotrasportato della fanteria americana impegnato in Afghanistan, ha suffragato, almeno in parte, questa mia impressione.
D'accordo, le foto di Tim Hetherington sono scattate nel teatro di una guerra tra le più atroci, l'Afghanistan al confine con il Pakistan, “epicentro della lotta americana contro i militanti dell'Islam”. Sono, quindi, immagini non soltanto coraggiose, ma importanti, perché rappresentano un conflitto che le grandi potenze hanno interesse a celare.
D'accordo, ci sono altri buoni scatti: i ritratti, i soldati che in circolo scavano la terra, l'uomo che tiene in braccio il bimbo gravemente ferito, il soldato che fugge...
Ma nel complesso mi pare che, in molti casi, non si vada oltre la semplice documentazione. I soldati che si arrampicano, i bimbi sdraiati per terra vicino alla scuola, il soldato che osserva la casa distrutta, la Valle del Pesh River in campo lunghissimo ecc, ecc, sono foto che descrivono situazioni fuori dall'ordinario, ma senza interpretarle, senza darne un senso più alto.
Basta fare una controprova: eliminiamo un oggetto senza grande importanza, che richiami la guerra come la semplice divisa. Quello che rimane ( i volti, il taglio dell'inquadratura, il contesto ambientale, i contrasti cromatici ) non è che prenda, che in qualche misura ti colpisca, che ti faccia pensare oltre, che ti commuova. Documenta. Informa.
Tim Hetherington. "Battle company". Mostra fotografica del LUCCA Photo DIGITAL fest.
Villa Bottini, Lucca. 22 novembre-8 dicembre 2008.
Quando entro nei sotterranei di Villa Bottini per la mostra “Battle company”di Tim Hetherington ho già visto dell'autore lo scatto premiato come migliore foto dell'anno 2008, dal World Press Photo. Di questa immagine avevo pensato che sì, è certamente una buona foto, perché attraverso lo sbadiglio di un soldato sul fronte di guerra si intuisce tutta la stanchezza e desolazione di essa, ma allo stesso tempo mi era sembrata troppo minimalista rispetto ad altri scatti presenti nella Mostra, che presentano una maggiore complessità di segni fotografici e di senso esistenziale. E devo dire che “Battle Company”, 2° battaglione aviotrasportato della fanteria americana impegnato in Afghanistan, ha suffragato, almeno in parte, questa mia impressione.
D'accordo, le foto di Tim Hetherington sono scattate nel teatro di una guerra tra le più atroci, l'Afghanistan al confine con il Pakistan, “epicentro della lotta americana contro i militanti dell'Islam”. Sono, quindi, immagini non soltanto coraggiose, ma importanti, perché rappresentano un conflitto che le grandi potenze hanno interesse a celare.
D'accordo, ci sono altri buoni scatti: i ritratti, i soldati che in circolo scavano la terra, l'uomo che tiene in braccio il bimbo gravemente ferito, il soldato che fugge...
Ma nel complesso mi pare che, in molti casi, non si vada oltre la semplice documentazione. I soldati che si arrampicano, i bimbi sdraiati per terra vicino alla scuola, il soldato che osserva la casa distrutta, la Valle del Pesh River in campo lunghissimo ecc, ecc, sono foto che descrivono situazioni fuori dall'ordinario, ma senza interpretarle, senza darne un senso più alto.
Basta fare una controprova: eliminiamo un oggetto senza grande importanza, che richiami la guerra come la semplice divisa. Quello che rimane ( i volti, il taglio dell'inquadratura, il contesto ambientale, i contrasti cromatici ) non è che prenda, che in qualche misura ti colpisca, che ti faccia pensare oltre, che ti commuova. Documenta. Informa.
Tim Hetherington. "Battle company". Mostra fotografica del LUCCA Photo DIGITAL fest.
Villa Bottini, Lucca. 22 novembre-8 dicembre 2008.
"FOTOGRAFIE" di Alex Webb
di Gianni Quilici
E' un piacere degli occhi e di una mente, che non si accontenta di un primo superficiale sguardo, la Mostra “Fotografie”, che il grande fotoreporter americano Alex Webb ha presentato in anteprima nazionale a Villa Bottini per il LUCCAphotoDIGITALfest.
Lo si intuisce anche da ciò che lo stesso Webb scrive nella presentazione della mostra:
“L'unica cosa che so fare, è saper affrontare un luogo camminando. Questo è ciò che fa un fotografo della strada: cammina, osserva, aspetta, parla, e poi guarda e aspetta ancora un po', cercando di non perdere mai la certezza di trovare subito dietro l'angolo qualcosa di inatteso, di sconosciuto, oppure di nascosto di cose che conosce già”.
Ci sono qui alcuni aspetti che bene lo evidenziano come fotoreporter: la strada, il camminare, i luoghi, la pazienza e lo sguardo. Lo sguardo è formidabile. Ci sono delle foto che hanno del prodigioso. Perché l'autore è riuscito a cogliere in un attimo (velocissimo) la sincronizzazione di molti aspetti: oltre ai colori, ombre, geometrie, sopratutto persone in movimento, che per un momento si incrociano in situazioni particolari, sotto una luce particolare,ognuno con una sua misteriosa storia.
In Alex Webb ogni elemento fotografico viene esaltato ai massimi livelli: i colori (rosso, giallo, verde, azzurro, viola) sono accesi, sguargianti, ma naturali; le ombre e le geometrie nette; e le persone sono soggetti, per lo più inconsapevoli, di un teatro quotidiano, in cui mostrano loro stesse nel loro silenzio più che la maschera che inevitabilmente si portano addosso.
E' l'intreccio tra questa umanità povera, ma non affamata, viva ed espressiva nella sua immediatezza; è la molteplicità dei punti di vista, compresi le ombre e gli specchi; è la luce calda trasparente dei paesi tropicali come Haiti, Cuba, Nicaragua, Messico, oppure Istanbul che fa di “Fotografie” una mostra solare, senza che ciò diventi estetismo, e realistica, nella sua complessità esistenziale e sociale. Una mostra assolutamente da non perdere.
Alex Webb. "Fotografie". Mostra fotografica, organizzata da LUCCA photo DIGITAL Fest. Villa Bottini (Lucca). 22 novembre-8 dicembre 2008.
E' un piacere degli occhi e di una mente, che non si accontenta di un primo superficiale sguardo, la Mostra “Fotografie”, che il grande fotoreporter americano Alex Webb ha presentato in anteprima nazionale a Villa Bottini per il LUCCAphotoDIGITALfest.
Lo si intuisce anche da ciò che lo stesso Webb scrive nella presentazione della mostra:
“L'unica cosa che so fare, è saper affrontare un luogo camminando. Questo è ciò che fa un fotografo della strada: cammina, osserva, aspetta, parla, e poi guarda e aspetta ancora un po', cercando di non perdere mai la certezza di trovare subito dietro l'angolo qualcosa di inatteso, di sconosciuto, oppure di nascosto di cose che conosce già”.
Ci sono qui alcuni aspetti che bene lo evidenziano come fotoreporter: la strada, il camminare, i luoghi, la pazienza e lo sguardo. Lo sguardo è formidabile. Ci sono delle foto che hanno del prodigioso. Perché l'autore è riuscito a cogliere in un attimo (velocissimo) la sincronizzazione di molti aspetti: oltre ai colori, ombre, geometrie, sopratutto persone in movimento, che per un momento si incrociano in situazioni particolari, sotto una luce particolare,ognuno con una sua misteriosa storia.
In Alex Webb ogni elemento fotografico viene esaltato ai massimi livelli: i colori (rosso, giallo, verde, azzurro, viola) sono accesi, sguargianti, ma naturali; le ombre e le geometrie nette; e le persone sono soggetti, per lo più inconsapevoli, di un teatro quotidiano, in cui mostrano loro stesse nel loro silenzio più che la maschera che inevitabilmente si portano addosso.
E' l'intreccio tra questa umanità povera, ma non affamata, viva ed espressiva nella sua immediatezza; è la molteplicità dei punti di vista, compresi le ombre e gli specchi; è la luce calda trasparente dei paesi tropicali come Haiti, Cuba, Nicaragua, Messico, oppure Istanbul che fa di “Fotografie” una mostra solare, senza che ciò diventi estetismo, e realistica, nella sua complessità esistenziale e sociale. Una mostra assolutamente da non perdere.
Alex Webb. "Fotografie". Mostra fotografica, organizzata da LUCCA photo DIGITAL Fest. Villa Bottini (Lucca). 22 novembre-8 dicembre 2008.
05 dicembre 2008
ORIGINI DELLA CULTURA E FINEDELLA STORIA di René Girard
di Emilio Michelotti
Ricordate l’inizio di “2001 odissea nello spazio ”? La guerra fra le scimmie antropomorfe – una crisi mimetica radicale, innescata dal desiderio di due individui di possedere lo stesso oggetto – si placa con l’arrivo, chissà da dove, del monolito. Se al posto di questo simbolo pacificatore poniamo un linciaggio, l’omicidio di un capro espiatorio, abbiamo sintetizzato la ricerca ossessiva che da quarant’anni René Girard va svolgendo sulle origini violente delle istituzioni, delle norme etiche e della scienza, come è tratteggiata nello splendido libro-intervista "Origine della cultura e fine della storia".
Un’unica struttura ambivalente, l’imitazione, e il desiderio mimetico che ne consegue consentono l’incanalarsi della violenza collettiva verso la colpevolizzazione di un solo individuo, che diventa doppio mostruoso da sacrificare. La vittima è al tempo stesso l’altro, l’alieno, l’intoccabile che il sacrificio rituale riveste di sacralità: il mostro è anche il dio.
Centrale è il carattere inconscio del meccanismo sacrificale: la categoria usata è méconnaissance, conoscimento inconsapevole dell’ingiustizia connessa alla colpevolizzazione della vittima, vicina al doppio vincolo di Bateson (imitatemi-non imitatemi – modello-ostacolo), un autoinganno – tutti stanno mentendo e nessuno lo sa.
Da qui, dalla convinzione di stampo darwiniano della religione come motore primo della civilizzazione, nasce lo status di antropologia privilegiata che Girard riserva al cristianesimo. Il suo approdo al religioso è “ateo”, “scientifico”: il mito cristiano, riletto radicalmente, è rovesciato: esso dà delle origini mitiche la lettura che permette di smitizzare e sdivinizzare la natura omicida del meccanismo mimetico.
La nonviolenza è tutta da costruire, essendo la violenza il nostro elemento costitutivo. “Conversione” è allora la scoperta del nostro essere persecutori inconsapevoli: critica e discrimine, base del progresso culturale sono azioni di espulsione, divisione, vittimizzazione. Se, al termine dell’indagine, scopriremo che i colpevoli siamo proprio noi, continueremo ad abitare questo limite che conduce all’autodistruzione?
Sic transit gloria mundi.
René Girard. Origine della cultura e fine della storia. Dialoghi con Pierpaolo Antonello e João Cezar de Castro Rocha. Raffaello Cortina, 2003. € 22.00.
Ricordate l’inizio di “2001 odissea nello spazio ”? La guerra fra le scimmie antropomorfe – una crisi mimetica radicale, innescata dal desiderio di due individui di possedere lo stesso oggetto – si placa con l’arrivo, chissà da dove, del monolito. Se al posto di questo simbolo pacificatore poniamo un linciaggio, l’omicidio di un capro espiatorio, abbiamo sintetizzato la ricerca ossessiva che da quarant’anni René Girard va svolgendo sulle origini violente delle istituzioni, delle norme etiche e della scienza, come è tratteggiata nello splendido libro-intervista "Origine della cultura e fine della storia".
Un’unica struttura ambivalente, l’imitazione, e il desiderio mimetico che ne consegue consentono l’incanalarsi della violenza collettiva verso la colpevolizzazione di un solo individuo, che diventa doppio mostruoso da sacrificare. La vittima è al tempo stesso l’altro, l’alieno, l’intoccabile che il sacrificio rituale riveste di sacralità: il mostro è anche il dio.
Centrale è il carattere inconscio del meccanismo sacrificale: la categoria usata è méconnaissance, conoscimento inconsapevole dell’ingiustizia connessa alla colpevolizzazione della vittima, vicina al doppio vincolo di Bateson (imitatemi-non imitatemi – modello-ostacolo), un autoinganno – tutti stanno mentendo e nessuno lo sa.
Da qui, dalla convinzione di stampo darwiniano della religione come motore primo della civilizzazione, nasce lo status di antropologia privilegiata che Girard riserva al cristianesimo. Il suo approdo al religioso è “ateo”, “scientifico”: il mito cristiano, riletto radicalmente, è rovesciato: esso dà delle origini mitiche la lettura che permette di smitizzare e sdivinizzare la natura omicida del meccanismo mimetico.
La nonviolenza è tutta da costruire, essendo la violenza il nostro elemento costitutivo. “Conversione” è allora la scoperta del nostro essere persecutori inconsapevoli: critica e discrimine, base del progresso culturale sono azioni di espulsione, divisione, vittimizzazione. Se, al termine dell’indagine, scopriremo che i colpevoli siamo proprio noi, continueremo ad abitare questo limite che conduce all’autodistruzione?
Sic transit gloria mundi.
René Girard. Origine della cultura e fine della storia. Dialoghi con Pierpaolo Antonello e João Cezar de Castro Rocha. Raffaello Cortina, 2003. € 22.00.
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