03 agosto 2009

"La lentezza" di Milan Kundera


di Emilio Michelotti

Vincent si porta le dita al naso, l’odore di femmina dopo l’amplesso gli fa scordare per un attimo la sua insaziabile sete di velocità.
Fermarsi, rimandare, ritardare, tenere sospesa più a lungo possibile l’eccitazione. C’è un ineffabile alone di sensualità che le donne custodiscono e riescono a calibrare con astuzia. Oltre questo nelle nostre vite non c’è che banalità, se le si guarda da un punto appena eccentrico; tale angolo prospettico ci può consentire di irridere loro e trattarle con i più esilaranti degli sberleffi. In fondo non meritano altro.

Alle due storie, lontanissime nel tempo ma non nello spazio, che Kundera sa intrecciare con il solito sarcasmo, al lettore salta subito agli occhi che se ne può aggiungere una terza. E’ quella che l’autore sperimenta con la moglie Vera, autentico campione di perspicace lentezza, accomunata alle altre donne del racconto da un’incrollabile fiducia nella necessità di assaporare con calma l’esistenza. Non così Immacolata, avida telecronista d’assalto, che ha più fretta e più palle di un uomo.

Accadde che, oltre duecento anni fa, uno scrittore noto come Vivant Denon dette vita al personaggio di Madame de T: gli intrighi di questa maschera di fine Settecento sembrano essere il modello, o forse meglio l’archetipo, dell’universale permanenza della capacità avvolgente della seduzione e dei tranelli femminili.

Come macchiette, marionette, pupi, ci affolliamo sul palcoscenico di una grottesca rappresentazione, ognuno occupato a scalzare l’altro, a ridicolizzarlo, a creare intorno a se stesso un’aura di esecranda sacralità. Si finisce così per prendere sul serio perfino i più buffoni di noi, coloro che riescono a vendere come intrigante e poetica l’immagine di una luna “buco di culo spalancato sull’universo”. Il disprezzo per gli altri è vissuto soggettivamente con la convinzione teologica di appartenere a una classe di eletti.

Nel tratto autoironico che sta dietro la caricatura di un intellettuale ceko, eroizzato senza meriti dalla stupidità del vecchio regime, Kundera cela il sospetto che tale tipologia sia da estendere erga omnes. Nel teatro dell’assurdo nel quale ci accalchiamo non c’è posto che per la corsa frenetica dell’esibizione. Eppure un odore ci può rimandare in modo del tutto involontario ad una inconsapevole appartenenza alla natura selvaggia, e quindi a una remota libertà. Può, come le nuvole in un famoso corto di Pasolini, riconnettere le tracce di umano che sono in noi al fluire impalpabile del respiro cosmico.

Milan Kundera – La lentezza – traduzione di Ena Marchi - Adelphi edizioni, 1999 e 2002