17 agosto 2009
“Viola” di Elisabetta Salvatori
di Gianni Quilici
Dino Campana è il poeta dell'eccesso: esistenziale e immaginativo.
In lui la poesia non è soltanto vita, ma è anche e soprattutto vita.
Vita come sperimentazione del corpo, degli occhi, dei paesaggi.
Rappresentarla non è facile. Si rischia l'estetismo (l'idealizzazione in nome della Poesia) o la banalità della superficialità.
Non è casuale che ci abbia provato Elisabetta Salvatori. Non è casuale perché i suoi spettacoli hanno spesso come protagonisti i diversi. Diversi, perché portatori di una vocazione, di un destino, di un Daimon. Alcuni noti come Ligabue e Campana, altri semplicemente personaggi del popolo.
Di Campana Elisabetta Salvatori ricostruisce la tragedia. Dei genitori che non lo amano, lo osteggiano, che forse, soprattutto la madre, hanno quasi bisogno che lui sia pazzo.
Questo sicuramente è la causa essenziale della vita tragica di Campana, costretto a dubitare fin da piccolo di sé, rimasto sempre ai margini e finito, come sappiamo, nel manicomio di Castel Pulci.
Vita tragica, ma anche esaltante. L'esaltazione è nella libertà selvaggia, che lo fa viaggiare vagabondo per il mondo. L'esaltazione è nella poesia che vive e che rappresenta, poesia misconosciuta, ma che costituisce la sua unica, vera, grande carta d'identità. Quella che lo ha fatto ri-conoscere.
Questi due elementi di fondo, la tragedia e la poesia, percorrono “Viola” in tutto lo spettacolo.
E' questo è il primo merito della Salvatori-scrittrice, presente in tutta la sua opera. Dare voce a dei personaggi, che hanno una storia con radici familiari e ambientali. Rappresentare le cause non solo gli effetti; l'individualità, ma anche il mondo che l'ha segnata.
C'è poi la recitazione. In “Viola” la Salvatori interpreta tre voci-volti: la narratrice partecipe, che racconta, a volte commenta la vicenda; l'interprete, che diventa personaggio nei ragazzi che prendono in giro il poeta, nella ragazza del popolo che ammira le poesie da lui recitate, in Campana stesso; ed infine, sia all'inizio, quando spiega, le ragioni di questo titolo (“Viola”); sia, alla fine, quando racconta la visita alla tomba del poeta, è lei stessa direttamente ad entrare in scena. Forse a sottolineare una adesione emotiva non soltanto intellettuale.
Avrei trovato forse ancora più efficace dare più spazio all'interprete, perché Campana, diversamente da Ligabue, ci ha lasciato l'eredità delle parole: oltre alle poesie, lettere, brani prosaici o di poesia in prosa.
Elisabetta Salvatori, invece, non recita Campana. Per scelta. Anche se non avrebbe avuto, credo, difficoltà ad inserire scorrevolmente suoi testi nella storia del poeta.
Ha fatto un'altra scelta. Canta “La speranza” “La chimera”... Canta, accompagnata da Matteo Ceramelli al violino e Fabrizio Calabresi al violoncello, le poesie di Campana, perché esse (alcune di esse) sono canti (orfici), che hanno una musica: ora languida, ora lampeggiante, ora allucinata...
Le musiche sottolineano alcuni passaggi. Calibrate. Trasportano verso l'alto e in profondità, fluide ma con un rapporto a volte aspro tra violino e violoncello.
Gli applausi convinti e prolungati del pubblico sottolineano che Elisabetta Salvatori ha raggiunto il suo proposito: raccontare una vita, raccontare un poeta. Trasmetterlo.
Viola. La vita di Dino Campana raccontata da Elisabetta Salvatori con Matteo Ceramelli al violino e Fabrizio Calabrese al violoncello. Ex Marmi, Pietrasanta. 13 agosto 2009.