14 agosto 2009
"Philo Vance, investigatore e superuomo" di Luciano Luciani
Il romanzo poliziesco made in Usa delle origini si ispirò più ai grandi modelli inglesi che all’americano Edgar Allan Poe. Nemo propheta in patria e, infatti, l’inventore del Cavalier Dupin era stato apprezzato più in Europa che negli Stati Uniti: gli americani non lo avevano percepito come un loro autore e i pionieri del genere l’avevano ben presto dimenticato per preferirgli i miti, i moduli, le convenzioni di Wilkie Collins, Conan Doyle, Richard Austin Freeman.
Una perdita di memoria e un complesso di inferiorità che pesarono per oltre mezzo secolo sulla produzione americana: lo conferma la scrittrice americana Anna Katharine Green (1846 – 1935) con il suo decoroso The Leavenworth Case: A Lawyer’s story, 1878, conosciuto in Italia, dove venne pubblicato agli esordi della mondadoriana collana dei “gialli” con il titolo Il mistero delle due cugine, 1929. Diligente ma prolissa descrittrice della psicologia dei personaggi, attenta ma convenzionale osservatrice degli ambienti e del costume della borghesia puritana, la Green ottenne negli Stati Uniti un grande successo di pubblico. Oggi, ce lo spieghiamo solo con la novità rappresentata dal suo poliziesco plasmato sui modelli dickensiani di moda in quegli anni in Gran Bretagna grazie ai lavori di Wilkie Collins, più “serio” e formalmente più curato, rispetto al melting pot costituito dalla letteratura popolare dei dime novel: opuscoli scritti in maniera sciatta, che contenevano una storia compiuta, a metà strada tra il racconto lungo e il romanzo breve, in vendita al contenutissimo prezzo di dieci centesimi, un dime, appunto e che proponevano tanto avventure western che celebravano i miti fondativi degli States banalizzando i temi della tradizione cooperiana, quanto racconti giudiziari e storie criminali. A Mistery Novel è il sottotitolo che la Green assegna a questo suo romanzo d’esordio, il cui successo sarà replicato cinque anni più tardi da un altro romanzo X.Y.Z. A detective story, 1883: due dizioni che saranno adottate d’ora in poi nei paesi di lingua inglese per definire un genere che sembra aver acquisito ormai una sempre più sicura coscienza della propria esistenza in quanto tale.
Pochi anni più tardi, fu tutta americana la fortuna di Arthur Conan Doyle: infatti, nel 1887 apparve sul “Beeton’s Christmas Annual for 1887” A study in scarlet, Uno studio in rosso, che l’anno dopo fu pubblicato in un volume autonomo. Scarsa l’attenzione del pubblico inglese, contraddetta di lì a un paio d’anni dai meno esigenti lettori americani che sancirono entusiasticamente il successo di The Sign of the Four, (Il segno dei quattro): una popolarità che tornò di nuovo in Inghilterra per poi dilagare nel resto d’Europa, in tutto il mondo e durare fino ai nostri giorni…
E dall’una all’altra sponda dell’Atlantico continuava a rimbalzare, acquisendo via via sempre nuove sfaccettature, particolari, tonalità la figura di un nuovo protagonista aristocratico per sangue o per denaro, snob, esteta e nietzschiano. Intorno all’ultimo prodotto di questa convenzione letteraria dura a morire, leggiamo quanto scrive Corrado Augias, lettore, scrittore e buon divulgatore delle problematiche relative al genere poliziesco:
“Nel 1923, quando aveva 35 anni Willard Huntington Wright (1888 – 1939) si ammalò di tubercolosi. Fino a quel momento era stato un brillante intellettuale nuovaiorchese, nativo di Charlottesville in Virginia e quindi ingentilito da un’aristocratica vena meridionale. Noto giornalista e critico d’arte, il giovane Wright aveva scritto per le migliori testate dell’Est e pubblicato, a 28 anni, un romanzo sperimentale (The man of promise) giudicato, almeno dalla critica, con grande favore.
Poi venne la Tbc e con la malattia la lettura, su ordine dei medici, solo romanzi “ameni”, vale a dire polizieschi. L’argomento lo appassionò al punto che Wright decise di scrivere una “storia” del giallo. Fortunatamente invece di un saggio scrisse un romanzo, La strana morte del signor Benson, che pubblicato nel 1926, segnò la prima uscita del detective Philo Vance e dello pseudonimo di S.S. Van Dine”.
Se Philo Vance non è il più originale dei protagonisti del genere - né il più simpatico, Raymond Chandler, non senza qualche ragione, lo definì “il personaggio più pomposo e balordo dell’intera narrativa poliziesca” - certo è il più colto: è un’autorità in materia di stampe cinesi e giapponesi, esperto di arazzi e ceramiche; collezionista di quadri e objets d’art che vanno da oriente a occidente, dall’antico al moderno, dai primitivi italiani a Cezanne e Matisse… Le sue raccolte avrebbero suscitato l’invidia di un eroe dannunziano. E’ anche straordinariamente colto: i corsi da lui frequentati comprendevano la storia delle religioni, la letteratura greca classica, biologia, educazione civica, e ancora economia politica, filosofia, antropologia, letteratura, psicologia teorica e sperimentale e lingue antiche e moderne… Scrive giustamente Augias che, al confronto della cultura di Vance, il mitico Sherlock Holmes fa la figura di uno studente di provincia. Elegante, insolitamente attraente, alto un metro e ottanta, aggraziato, capitano della squadra universitaria di scherma, eccellente giocatore di golf, nazionale di polo, gran viaggiatore, è il primo detective completamente americano nella storia del genere, anche se si ricollega alla ormai consolidata tradizione del detective-superuomo inaugurato da Poe con Dupin, riproposto da Matthew Shiel con il principe Zalesky e ribadito dallo scrittore Henry Cristopher Bailey con il suo Reggie Fortune, erudito, raffinato gourmet e gran conoscitore di vini francesi. Insomma, Philo Vance sembra tutto interno alle convenzioni ormai ben definite del genere: forse, però, come nota con grande acutezza Giuseppe Petronio nel suo fondamentale Sulle tracce del giallo, “dentro quella impalcatura da secondo Ottocento si muovono tante cose nuove e moderne, da Novecento”.
Lasciamo ancora la parola al grande critico italiano: “Il più innovatore, un rivoluzionario addirittura, è proprio quel Van Dine che in apparenza è il più legato al modello. Il suo Philo Vance è, se fosse possibile, più dandy di Sherlock Holmes; la sua spalla è più Watson dello stesso Watson; i suoi omicidi hanno luogo tutti in ambienti aristocratici o del bel mondo, i suoi assassini sono tutti colti e intelligenti; la sua concezione del delitto è ancora ottocentesca: intorno a lui infuria già il gangsterismo, a Chicago imperversa Al Capone, e lui sentenzia, sprezzante e nicciano che ‘il crimine non è un istinto di massa se non in tempo di guerra, quando diventa uno sport osceno. Il crimine… è un fatto personale, individuale’ ”.
Contrariamente all’apparenza, dunque, per Petronio i romanzi di Van Dine non rappresentano un’esperienza statica nella storia del poliziesco, un consolidamento un po’ ripetitivo di situazioni e personaggi, ma dinamica. I suoi libri costituiscono “una specie di manifesto… di una poetica e di una epistemologia antipositivistiche, di un rifiuto ragionato e sprezzante della detection fondata sulle certezze scientiste”. Il dandy newiorchese non ha nessuna fiducia, infatti, nella criminologia o nell’antropologia criminale; per lui le prove indiziarie - impronte digitali, informazioni sulle ceneri di tabacco lasciate sul luogo del delitto, conoscenza delle diverse qualità di fango rimaste attacate sulla suola delle scarpe, i materiali consueti di ogni buon detective da Sherlock Holmes in poi - sono del tutto inadeguate ed inaffidabili e ad esse vanno di gran lunga preferite le teorie psicologiche e le ipotesi, per così dire, estetiche. La natura umana non può essere ridotta ad una formula e “la verità è che l’uomo, come la vita, è infinitamente complesso. E’ astuto e ingannatore, allenato da secoli ai tiri più diabolici. E’ una creatura scaltra e meschina che, perfino nel normale corso della sua vana e idiota lotta per l’esistenza, mente istintivamente e deliberatamente novantanove volte su cento”. Per Philo Vance, in perenne polemica con il procuratore distrettuale John Markham e con tutti i poliziotti che lavorano diligentemente sulle prove indiziarie, “nessun criminale intelligente lascerà le sue impronte per i vostri compassi e nastri misuratori”. Il disprezzo per il valore conoscitivo dei fatti non potrebbe essere più totale: ad esso va sostituito la conoscenza dell’uomo perché ribadisce Vance “… ogni atto umano, grande o piccolo, è l’espressione diretta della personalità dell’uomo e porta l’inevitabile impronta della sua natura”: la stessa svalutazione del dato di fatto che proprio in quegli anni si poteva ritrovare in tutta la produzione del decadente Pirandello e che un quarto di secolo più tardi, all’indomani del secondo conflitto mondiale, diventerà la cifra dei polizieschi di Friedrich Durrenmatt.
Philo Vance avrebbe risolto casi misteriosi fino al 1939, anno della scomparsa del suo creatore: oggi, lo scrittore americano è ancora letto e ripubblicato, anche se nessuno scrittore di romanzi polizieschi si attiene più al suo doppio decalogo, ovvero Le 20 regole per il delitto d’autore (Twenty Rules for Writing Detective Stories) spiritosamente suggerite da S.S. Van Dine in un articolo apparso nel settembre 1928 su “American Magazine”. Ne riportiamo le prime sette in quanto hanno costituito e costituiscono ancora i confini e i criteri a cui si attengono i cultori - scrittori e lettori, ancora peraltro molto numerosi - del cosiddetto “poliziesco classico” :
1.Il lettore deve avere le stesse possibilità di risolvere il mistero che ha l’investigatore. Ogni indizio e ogni traccia debbono essere accuratamente descritti ed annotati.
2.Il lettore non deve essere oggetto di trucchi e raggiri diversi da quelli che il criminale usa legittimamente nei riguardi dell’investigatore.
3.Le storie d’amore non devono essere troppo appassionanti: lo scopo è quello di condurre un criminale davanti ai giudici, non due innamorati davanti a un prete.
4.Il colpevole non deve mai essere né l’investigatore né uno dei poliziotti ufficiali…
5.Bisogna arrivare a smascherare il colpevole attraverso deduzioni logiche, non per coincidenze o per caso, o per una confessione non motivata…
6.In ogni romanzo poliziesco deve esserci un poliziotto e un poliziotto è tale in quanto indaga e deduce. Suo compito è di raccogliere indizi che permettano la cattura del criminale colpevole…
7.In ogni romanzo poliziesco deve esserci almeno un morto che più è morto, meglio è…
E così via… investigando.