foto di Gianni Quilici |
Renzia D'Incà ha pubblicato quattro raccolte di poesia e due saggi di teatro, ha vinto nel 1995 il Premio Poesia inedita Montepulciano ed il premio Fabbri nel 1997. Nata a Belluno nel 1966, risiede a Pisa dove lavora nella formazione e ricerca teatrale e universitaria.
Ho tra le mani il suo ultimo libro “Il Basilisco”. Leggo l'inizio, la prima strofa.
Ho incontrato il tuo occhio
sulla soglia e sono morta
morta di paura morta di voglia.
Si colgono già in questi primi versi alcune peculiarità della raccolta.
La prima: la musicalità travolgente di chi si lascia andare, sentendosi libera in un duplice senso: libera (meglio: non condizionata) dalle regole codificate del linguaggio poetico; libera di trasmettere tumultuosamente ciò che si potrebbe chiamare pre-conscio, ossia quei pensieri, impulsi, di cui si ha una conoscenza spuria, perché compressi da una resistenza interna e che richiedono uno slancio creativo, che è anche sofferenza, per essere liberati e riportati alla luce.
Ne nasce una sorta di danza (poetica) con una struttura strofica fluente, senza alcuna punteggiatura e mobilissima, dove a danzare è solo l'io (poetico) della protagonista, mentre l'Altro rimane sullo sfondo, immobile e silenzioso, ma continuamente cangiante.
La seconda peculiarità: il desiderio e la paura, due sentimenti che incontrandosi-scontrandosi producono un lungo martellante grido d'amore insaziabile, inappagato, vorace, deriso e derisorio eccetera, eccetera. Questo grido è flusso della coscienza che nella pagina diventa flusso della poesia (viene in mente Patrizia Valduga di Medicamenta o certi versi dialogici della Achmatova), che ha, nel continuo andirivieni, il suo codice più segreto e sottile. Perchè in questo flusso, che, apparentemente almeno, è incoerente e irrazionale, c'è lo zampillare, devastante e disarticolato, onirico e regressivo, mutevole e teatrale, della creazione continua. L'interlocutore, a cui l'io protagonista si rivolge, può essere tutto: Dio-Padre-Mito-Poveraccio; in ultima analisi, può essere la proiezione dello stesso io nella sua voracità di ricerca della simbiosi.
Per questo è indovinata la scelta della strofa-frammento, perché è come un ricominciare sempre da capo, perché inesauribile è la forza delle pulsioni, che vengono da lontano.
Ed anche efficace lo scorrere fluido dei versi, che si fanno ora invocazione ora maledizione, ora adorazione ora fuga.
La poesia è spesso diretta, chiara; colpisce frontalmente con il suo erotismo incensurato, ma spesso è anche simbolica, metaforica. Metafore o similitudini ardite, colte, originali.
“Il basilisco” è inoltre una storia, meglio frammenti di storia, che si offrono -se si vuole- ad una interpretazione psicoanalitica, che sia però libera e aperta al mistero.
Da ultimo (riporto) una strofa tra le tante, che dia il senso dello spessore poetico di Renzia D'Incà:
di te m'accingo a scrivere ancora
di te mi nutro mio pasto crudo
Prima ti lecco ti mordo ti rosicchio
ai bordi, dopo ti ingoio intero
infine ti sputo, oh mio rifiuto.
Quanto ci sarebbe da dire sullo spessore psicologico ed esistenziale di questi versi nel loro incontro con un linguaggio poetico ricchissimo di implicazioni formali!
da Arcipelago, periodico dell'Arci di Lucca
Renzia D'Incà. Il basilisco. Edizioni del Leone, 2006. Pag. 45. € 7,00.
Arcipelago 2008