08 settembre 2010

" Troviamo le parole. Lettere 1948-1973" di Paul Celan e Ingerborg Bachmann

di Davide Pugnana

ciò che essi (gli esseri umani) hanno pensato,
i sentimenti che hanno accompagnato le loro
decisioni e il loro progetti, i loro successi e
insuccessi; i discorsi con i quali hanno fatto
prevalere o hanno cercato di far prevalere
le loro passioni e la loro volontà su altre
volontà… Tutto ciò è taciuto dalla storia
e tutto ciò è dominio della poesia.
(Alessandro Manzoni)


I

Il Novecento è secolo generoso di destini incrociati. Scorrendo le biografie di artisti, letterati, filosofi, si scopre il lavorio di queste invisibili mani, sapienti nell’accostare e miscelare coppie memorabili. Coppie dal cui incontro e sodalizio sono nati frutti meravigliosi. Basti pensare all’incontro, umano e artistico, di Sibilla Aleramo e Dino Campana; di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir; di Martin Heidegger e Annah Arendt; Diego Rivera e Frida Khalo; oppure a vite parallele meno note al grande pubblico, ma altrettanto cruciali, come quelle di Paul Celan e Ingeborg Bachmann - due tra i massimi poeti tedeschi del secondo dopoguerra.

Il dialogo a distanza tra i due poeti; il loro amore vissuto in parte nella realtà e in parte risarcito e reinventato nello spazio della scrittura; l’alternarsi di slanci e silenzi; le loro risposte più intime davanti alle vicende assurde della Storia, davanti alla violenza distruttiva dell’uomo moderno; o il loro interrogarsi curioso sull’origine del male nell’uomo e sulla doppia natura della malinconia, intesa come tratto connaturato al genio creativo e come fondo oscuro dell’anima - tutto questo paesaggio interiore, dai chiaroscuri forti e dalle linee spezzate e ricongiunte a fatica, è oggi finalmente visibile nel carteggio che abbraccia un arco cronologico lungo diciannove anni (1948-1973).

Pubblicato da nottetempo, nella collana “ritratti”, “Troviamo le parole. Lettere 1948-1973” è uno degli accadimenti editoriali più importanti dell’ultimo anno. Il testo italiano mutua una più ampia versione tedesca uscita nel 2008 (Herzzeit. Briefwechesel), e dotata di apparati filologici attenti a vagliare la più piccola variante d’autore; mentre i curatori italiani, per maggior fruibilità, sfrondano il testo espungendo un saggio di due studiosi tedeschi e mantenendo, in appendice, l’ampia interpretazione a due mani di Hans Holler e Andrea Stoll, dal titolo “Il segreto epistolare delle poesie”: una lunga riflessione critica che porta il lettore all’interno del gioco di specchi, delle rifrazioni e proiezioni dell’io e dei suoi statuti; che aiuta a seguire l’intercambiabilità delle sue maschere e del suo linguaggio inconscio, attraverso il ricorrere ossessivo di lemmi appartenenti al campo semantico del buio, dell’angoscia, della colpa, del peccato, o, viceversa, della luce, dell’intuizione, dello slancio creatore, del fondo luminoso che si rivela per agnizioni: “sono parole chiave del dialogo epistolare, che insistentemente cerca di illuminarsi e non cadere nel silenzio, e questo spiega perché le parole tematiche nel carteggio assumano le più diverse modulazioni, variazioni e trasformazioni.”

Con queste parole del saggio, ci avviciniamo a toccare uno dei centri nevralgici più profondi del carteggio in sé, e, in particolare, di quello imbastito tra due, o più, scrittori. Il lettore non si lasci ingannare dalla naturalezza delle loro confessioni. Per loro, la lettera non è solo il luogo di una comunicazione immediata, un terreno sul quale riversare un vertiginoso flusso di coscienza; ogni affermazione non arriverà mai ad assumere fino in fondo la piega imprevedibile di uno sfogo d’umori e sensazioni in libertà. Nemmeno quando l’epistolario rimane chiuso nel circuito del privato - cioè si avvicina alla forma del diario o dello ‘zibaldone’ - rivela un’assenza di controllo e, più addentro, rinuncia alla seduzione di un certo margine di invenzione. Per lo scrittore ogni parola, anche quella che anima la più segreta delle scritture, è sempre soggetta al filtro di una coscienza critica; porterà sempre la cifra di fedeltà alla “costruzione”, connaturata al suo lavoro e all’educazione del suo sguardo-sul-mondo.

In questa prospettiva, anche il carteggio tra Celan e la Bachmann si muove tra realtà dei fatti - storici e biografici - e fiction, intesa alla luce dell’elaborazione di un vero e proprio ‘personaggio’ . In questo dialogo, la distanza fisica ha un’incidenza forte: è la suggestione della lontananza a favorire il lavoro del desiderio e dell’immaginazione: chi scrive si rivolge ad un 'tu' fantasmatico, verso cui proietta le proprie pulsioni, idee, speranze e illusioni. Si innesca quel processo psicologico che Stendhal chiamava, nel De l’amour, “cristallizzazione”: si arriva a rivestire l’oggetto amato - ciò che non si può vivere fino in fondo (un amore, un’altra vita, un luogo ecc.) - di minute lamelle, di raffinate incrostazioni, tanto fitte da annullare il corpo originario. Siamo calati nella scena della parola erotizzata, che insegue l’oggetto che non può possedere davvero, e che ri-crea, risarcisce, con la parola scritta. Questo meccanismo, sottile e complesso, regola i tempi e i modi della scrittura epistolare dei due poeti. La stessa Bachmann porterà nelle maglie del suo romanzo Malina spunti presenti nel carteggio.

Ma leggere un carteggio significa già entrare nella tessitura vibrante di un “romanzo epistolare” polifonico, un romanzo solo in parte inconsapevole, disseminato di voci che tessono - per gemmazione spontanea - trame di vita, spaccati e suggestioni riconducibili a un intreccio funzionale alla narrazione. In Troviamo le parole, alle voci dei due poeti si affiancano quelle di Giséle Lestrange, sposa di Celan, e di Max Frisch, nuovo compagno di Ingeborg. Si allarga così il sistema dei personaggi e si moltiplicano i punti di vista intorno ai due protagonisti: si ha la sensazione di entrare in un affascinante caleidoscopio, nel quale al tradizionale modulo del triangolo amoroso si sostituisce la complicata geometria del quadrilatero.

Ad un secondo livello - forse più specialistico, ma non meno percepibile dal lettore - il carteggio tra due artisti rappresenta l’occasione voyeuristica di spiare dal buco della serratura la genesi e la preistoria di alcune opere; di entrare nel laboratorio creativo e di seguire l’accordarsi di parole in un verso, il recupero di un’immagine antica; o il corpo grezzo di un’idea che avevamo già trovata perfezionata in un romanzo. Allora in questa “stanza silenziosa”, come la chiamava Leopardi, ci è data la possibilità di leggere la ‘forma-lettera’ come un documento dalla natura complessa (a metà tra confessione umana e tensione inventiva) e come via d’accesso alla composizione dei testi pubblicati, cioè ai “monumenti stilistici”.

II

Ma chi erano Paul Celan e Ingeborg Bachmann? Dal carteggio, il lettore italiano ricava poco delle origini, della formazione e dei conflitti esistenziali e artistici che si muovono nelle lettere. È necessario ripercorre brevemente le loro vite e finire là dove le loro poetiche, prima che i loro vissuti, si intrecciano in un abbraccio fusivo (quasi-)unico nella storia della letteratura.

Lui, ebreo romeno di lingua tedesca, nato in Bucovia, a Cernovcy, nel 1920; lei, una giovane artista proveniente dalla provincia austriaca; figlia di un terra di confine, aspra e difficile, la Carinzia meridionale, l’heimat dove, nel 1926, era nata. Lui aveva perso, a ventidue anni, la famiglia, sterminata dalla “soluzione finale”, lo sterminio sistematico del popolo ebraico, legittimato dai gerarchi nazisti nella conferenza del Wansee del 20 gennaio 1942 - un evento e una data sui quali si costruirà tutto il suo percorso poetico; lei abbandona giovanissima Klagenfurt visita l’Austria, e avvia una carriera accademica brillante, laureandosi in filosofia e legge dando, dando prova di un’alta capacità di elaborazione filosofica: scriverà “contro” Heidegger e proseguirà le scoperte di Wittgenstein sui limiti dell‘espressione linguistica. Lui contraddirà il monito di Adorno - secondo cui dopo Auschwitz la poesia non poteva più esistere - scrivendo sul dolore generato dalla Shoah; sulla tragica data innominabile, se non con la perifrasi “quello che è stato”; facendo della sua parola poetica un mezzo per dare voce alle vittime dello sterminio. Lei andrà scoprendo la versatilità della sua mente; simile per poliedricità ad un’artista del Rinascimento italiano, ‘Inge’ sapeva attraversare tutte le forme espressive e rinnovarle dall‘interno: si nutrì prima di filosofia, pubblicando due opere; poi compose alcuni radiodrammi e un romanzo - salutato come un capolavoro - dal titolo “Malina”, primo tassello di una trilogia che la morte ha lasciato incompiuto; parallelamente, farà sua la frase del poeta inglese Coleridge “nessuno è mai stato grande poeta senza essere nello stesso tempo un profondo filosofo”: da questo humus nasceranno poesie di pensiero, belle come quelle del suo maestro Rilke.
Lui sceglierà di scrivere in tedesco, la lingua dei nazisti, gli assassini dei suoi genitori: ne farà una lingua unica, la purificherà da ogni residuo storico-politico e ne farà una Muttersprache, intesa nella doppia accezione di “lingua materna” e “lingua della madre”, il solo filo per incontrarla e farsi carico della sua “Incontestabile testimonianza”. Lei conoscerà lo spettro della malinconia dopo gli anni Sessanta: entrerà in depressione e comincerà ad assumere psicofarmaci che incepperanno il suo desiderio di scrivere e conoscere il fondo di tutte le cose.

Così ci avviciniamo al nucleo profondo - a quel dolore declinato in infiniti modi e nervature, lungo tutto il Novecento letterario - che lega queste due vite così distanti e antitetiche, per origine, formazione e pensiero. Il filosofo Emil Cioran scriverà di Celan: “Essere segnati dalla fatalità è un’elezione o una maledizione? Entrambe le cose contemporaneamente. Questo doppio aspetto definisce la tragedia. Ora Celan era un personaggio, un essere tragico. Per questo egli è per noi qualcosa di più che un poeta.”; mentre su ‘Inge’ scriverà pagine bellissime il nostro Pier Vittorio Tondelli: le sue opere “costituiscono grandi pagine di quella letteratura interiore in cui non si svolgono plot (intrecci), non si mettono in scena i popoli o i grandi avvenimenti della storia, ma dove gli eventi interiori assumono una potenza catastrofica. (…) La Bachmann ci offre per frammenti poetici le tappe di un martirio interiore che è insieme perdita del linguaggio e perdita della personalità, ma anche perdita della forma.”

Al centro della ricerca poetica di entrambi sta la volontà di lottare contro il silenzio (angoscia così ossessiva nel carteggio); di rendere testimonianza di qualcosa che deve essere fissato per sempre. Nel loro percorso di conoscenza e nell’esplorazione dei loro ’fantasmi’ (gli archetipi del padre e della madre, ad esempio) sembra ripresentarsi la lezione di Brecht. Il drammaturgo invitava ad una ricerca della “verità” capace di intrecciare la parola letteraria all’etica dello scrittore, aprendo così il cammino verso una lotta alla menzogna, all’ignoranza, agli schermi consolatori, o deformanti, di chi “non ha voluto vedere”. Una “verità dei fatti” che - secondo Brecht - poteva essere verificata piegando la propria scrittura verso cinque movimenti: il coraggio di scrivere la verità; l’accortezza di riconoscerla; l’arte di renderla maneggevole come un’arma; l’avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diviene efficace e l’astuzia di divulgarla.
Per Celan questa “verità” diventerà, via via, maneggevole e coraggiosa, avveduta ed efficace, attraverso il recupero di un dialogo con la madre, cercato e durato per vent’anni di poesia. Sarà la presenza di questo “Tu” - che dall’intimità (auto-)biografica passerà alla Storia, al dolore collettivo di tutti i popoli che soffrono nelle zone grigie delle ideologie, e di cui il poeta deve rendere testimonianza - a dare corpo di voce a quei nessuno che non hanno potuto farlo e non hanno avuto nemmeno il privilegio di una tomba. Affinché questo messaggio fosse possibile e universale, Celan creò una delle metafore più belle del Novecento: giovanissimo partì dall’immagine del papavero, facendo della poesia un’entità in bilico sui fragili petali rossi, lievi come la seta, ma forti tanto da circoscrivere un cuore nero. Poi portò la sua ricerca sulla “soglia” , chiamandola a definire questo confine incerto e aperto su di un mondo doppio, insieme familiare e straniero. Ma fu più tarsi che trovò il nome per la sua poetica: il “cristallo di ghiaccio” e il “meridiano" . La poesia è una ‘metafora respiratoria’; essa va incontro al mondo e agli uomini, in un abbraccio che riecheggia quello che ogni meridiano compie idealmente nel globo terrestre: “ Trovo qualcosa che è - come la lingua - immateriale, eppure è terrestre, planetario, qualcosa di circolare, che ritorna a se stesso attraverso entrambi i poli e facendo questo interseca persino i tropici: trovo…un Meridiano”. Il mezzo per questo viaggio diventa, nell’immaginario simbolico di Celan, una catena respiratoria: il messaggio corre di bocca in bocca nell’attimo della svolta del respiro, nell’istante tra espirazione e inspirazione; il poeta deve cercare il ’primo respiro’, quello che innescherà l’intero processo: il cristallo di respiro: “Corroso e scancellata/ dal vento radiante della tua lingua/ la chiacchiera versicolore/ dei fatti vissuti -/ la linguacciuta miapoesia, la nullesia./ Dal/ turbine/ aperto/ il passo attraverso le umane forme/ di neve - neve di penitenti, / fino alle accoglienti stanze/ dei ghiacciai, ai deschi. / In fondo/ al crepaccio dei tempi, / presso il favo di ghiaccio/ attende, cristallo di respiro, / la tua irrefutabile/ testimonianza.”

Questo è il ‘luogo d’intensità’ dove si conclude il senso e il destino del poetare celaniano; quel processo cominciato nel segno del ‘papavero’ e approdato ad una discesa attraverso la neve sino alle accoglienti stanze di ghiaccio, in fondo al crepaccio dei tempi, dove attendeva il cristallo del respiro: la figura materna, ritta accanto alla testimonianza fattasi ghiaccio in cui addensano tutte le lacrime dei morti nell’aria; tutti gli ebrei trucidati aspettano lì, in un cristallo a sei punte, di essere liberati e consegnati alla memoria collettiva e al sentire umano.

Per Inge, invece, l’approdo alla “verità” si raggiungerà solo rompendo il ghiaccio del silenzio. Solo penetrando al di là di questo diaframma si potranno rievocare le “memorie taciute” dei “crimini accaduti sui luoghi reali del delitto, quelli interiori”. Solo guardando nel cuore nero del papavero - vicino a quella “malattia della morte” che ci abita, come la chiamava Marguerite Duras - il poeta potrà portare alla luce. La testimonianza e la poetica della Bachmann la ritroviamo tutta in un suo discorso pubblico: “Perché noi tutti vogliamo diventare vedenti. E solo dopo aver provato quel dolore segreto possiamo sentire (in modo diverso) ogni esperienza, ed in particolare quella della verità. Quando giungiamo a questo stato in cui il dolore diventa fertile, stato che è insieme chiaro e triste, noi diciamo, molto semplicemente, ma a ragione: mi si sono aperti gli occhi. E non lo diciamo perché abbiamo davvero percepito esteriormente un oggetto o un avvenimento, ma proprio perché comprendiamo ciò che non possiamo vedere. E l'arte dovrebbe portare a questo: far sì che, in tal senso, i nostri occhi si aprano. Lo scrittore - e anche questo è nella sua natura - è rivolto con tutto se stesso ad un Tu, all'uomo al quale vorrebbe far giungere la sua esperienza degli uomini (o la sua esperienza delle cose, del mondo e del suo tempo, sì, anche di tutte queste cose insieme!). Ma soprattutto egli vuole che giunga la sua esperienza dell'uomo che egli stesso o altri possono essere nel momento in cui sono al massimo grado uomini. Con tutti i sensi vigili, egli cerca di delineare la forma del mondo, i tratti dell'uomo in questo tempo. (…) Perché in tutto quel che facciamo, pensiamo e sentiamo vorremmo talvolta giungere fino al punto più estremo. In noi si sveglia il desiderio di oltrepassare i limiti che ci sono imposti. Ma, all'interno dei limiti, abbiamo lo sguardo rivolto a ciò che è perfetto, impossibile, irraggiungibile, che sia nell'amore, nella libertà o in qualche altro valore puro. Nel contrasto tra possibile e impossibile ampliamo le nostre possibilità. E secondo me ciò dipende dal fatto che noi stessi produciamo questo rapporto di tensione che ci fa crescere; che tendiamo ad una meta che veramente si allontana ogni volta che noi ci avviciniamo ad essa(…) perché la nostra forza è più grande della nostra sfortuna, che, anche se privati di molto, si riesce a rimanere in piedi, che si riesce ad essere delusi, che cioè si riesce a vivere senza farsi illusioni. Credo che all'uomo sia concessa una specie di orgoglio, l'orgoglio di chi, nella buia prigione del mondo, non si dà per vinto e non smette di cercare ciò che è giusto.”

Come avviene in narratori quali Proust, Virginia Woolf, Duras, o in poetesse suicide come Silvia Plath e Marina Cvetaeva, l’esperienza del dolore cui la Bachmann fa riferimento è ragione e scopo dell’attività artistica, la cui funzione è rendere “vedenti ” i lettori.

Paul Celan morirà suicida a Parigi, il 20 aprile 1970, gettandosi nelle acque della Senna; e sarà ritrovato solo dieci giorni dopo da un pescatore. Inge morirà a Roma, il 17 ottobre 1973, bruciata, in un incendio nel suo appartamento. Scriverà in Malina: “La mia vita finisce, perché lui è annegato nel fiume durante la deportazione. Era la mia vita. Io l’ho amato più della mia vita.”
Aveva scritto versi profondamente affini a quelli di Celan: “In questi giorni, mi levo con le betulle/ e sulla fronte ravvio le ciocche di frumento/ davanti a uno specchi di ghiaccio.


Paul Celan e Ingeborg Bachman. Troviamo le parole. Lettere 1948-1973. Nottetempo. Euro 25,00.