di Davide Pugnana
“sì che dal fatto il dir non sia diverso”
(Dante)
(Dante)
Esiste un connaturato senso di appartenenza dello scrittore alla sua materia. È un rapporto viscerale, irripetibile e doloroso. Nato da una corpo a corpo quotidiano, questo scavo raggiunge un luogo sepolto - un luogo d’intensità (la felice definizione è dello psicoanalista Aldo Rescio), nel quale una vita rinasce, e trova un senso, attraverso l’uso d’una lingua nuova. Ma non sempre questo legame segue un movimento che dal soggetto si riversa sull’oggetto. In alcuni casi, è vero il contrario: ci immergiamo in una materia trasformata in mondo scritto, assaliti dalla sensazione che essa sia animata da un’istintiva volontà: un sapiente fiuto che la spinge a scegliere il suo cantore vero. Calandoci nella pelle di alcuni libri, si ha l’impressione - confessata raramente - che quest’oscuro innesto di esperienze di voci, di corpi, di suoni, di spazi; di empietà e di preghiere; di slanci e ritrosie; di tempo perduto e ritrovato; di oggetti interni immobili e scheggiati, di fantasmi, di nomi, di cose; di atavici divieti e brucianti bugie - sia restituito al lettore in maniera riuscita proprio perché caduto nelle mani dell’unico, esclusivo destinatario. E, quindi, viceversa, che i libri non riusciti abbiano inscritto il loro fallimento nella caduta della materia in mani sbagliate. Ad ognuno è data la possibilità di attingere in un serbatoio comune, per temi e forme; tutti possiamo, ad esempio, metterci davanti al Vesuvio, guardarlo da lontano o camminarci sopra; oppure distenderci in un lembo di prato per cogliere e annusare ginestre - ma ad uno solo di unire le due cose in una perfetta catena di versi e ricavarne un’analogia così potente da farsi allegoria di un universale destino umano, giocato tra precarietà del vivere e coraggiosa resistenza etica. Sono consapevole che quest’approccio sia abbozzo di una teoria sghemba e alquanto donchisciottesca, da valutare en passant e col sorriso sulle labbra. Ma leggendo l’ultimo libro di Ornella Marmeggi quest’idea è tornata a visitarmi; a suggerirmi il tentativo di considerare quanto narrato nelle pagine di “Ciglia bianche. L’angelo barbone” (ECIG, Genova, 2011) come il frutto compiuto, per metà, da una scelta e da un’organizzazione dell’autore; e, per l’altra, da una sorta di forza innominata che scorre sotterraneamente lungo l’interno risvolto speculativo del libro e vi traccia dentro un disegno, nel quale l’uomo si ritrova, suo malgrado.
I
A quale genere letterario appartiene “Ciglia bianche.L’angelo barbone”? Se dessimo retta allo studioso Gerard Genette, all’importanza delle soglie e di tutto ciò che avvolge il libro costituendone la sua vita materiale - la copertina e il suo risvolto; il suono evocativo del titolo; il timbro cromatico; il disegno - penseremo ad una raccolta di fiabe. Il titolo ci suggerisce che perno narrativo è un angelo umanizzato, travestito da barbone, con una cifra somatica - non si sa ancora se eroica o malvagia - stilizzata in un paio di ciglia bianche. In basso, l’uniforme campitura rossa della copertina è interrotta da una miniatura. Ritagliato in una finestra di gusto orientaleggiante, si delinea un paesaggio minuziosamente descritto, già preludio figurato di una storia che s’annuncia allestita tra mari e colline: c’è una notte d’inverno; c’è una piccola abitazione col camino acceso, immersa in una campagna ridente; più avanti, si alza una scogliera sulla sommità della quale campeggia solitario un faro, dietro cui si dilata il filo dell’orizzonte, un’esile corda tesa che divide un frammento di vasto mare tremolante da un cielo in cui nuvole scorrono, pigre e zigzaganti. Distante da tutto questo, siede una fanciulla; ha i piedi poggiati sull’erba, un gomito sulle ginocchia e una mano sul viso, coperta da una volùta di capelli increspati, culminanti in punte aguzze, che la rendono simile ad una fata o una piccola fiammiferaia.
Questo è ciò che possiamo ricavare fermandoci sulla copertina, prima soglia; e, svolgendone una particolareggiata descrizione, ricavare gli elementi di fondo. Ma, spesse volte, i dintorni del libro sono una segnaletica fallace.
Se oltrepassiamo il frontespizio e, attraverso l’indice, ne scorriamo l’architettura complessiva, la suggestione fiabesca cederà il passo ad un altro genere letterario: il poema in prosa. Il suo codice è scolpito nell’organizzazione della materia. Ci sono due soglie interne, che fungono da perimetro sacro al corpo centrale, ossia allo spazio in cui è racchiuso il cuore della storia: una narrazione scandita, a sua volta, in due tempi, di otto tappe ciascuno. Come in ogni poema, il libro si apre con un Prologo e si chiude su di un Epilogo.
II
Nel Prologo, la narrazione prende le mosse da un abbrivio accordato da un verbo e da un sostantivo magici, figli dei grandi incipit poematici: “Ascolto il canto…”. Anche Omero e Virgilio; Ariosto e Tasso, hanno depositato, sulla soglia del loro primo verso, il verbo “cantare”. C’è in questo verbo un rilascio di tensioni, quasi un abbandono faticosamente conquistato. Questi poeti cantavano gli dèi mescolati agli eroi; la vastità del mare e l’inesorabilità del Fato; le armi impugnate per amore e l’amore sporcato di sangue e morte in battaglia.
L’io narrante che prende la parola in “Ciglia bianche” ci avverte che la sua storia nasce dall’ascolto: non intonerà il canto; ma, simile a uno scriba, ne saprà registrare e trascrivere le infinite modulazioni. Ci narrerà tutto, perché il suo talento è rimanere seduto ad ascoltare. Questa scelta porta in sé l’idea di accoglienza: come vedremo, uno degli impulsi più profondi della scrittura creativa di Ornella Marmeggi.
Il primo suono è quello dei gabbiani e del vento. Il libro è ancora da fare. Porterà nelle sue pagine bianche questo volo, questo vento; intreccerà delle storie che avranno un incerto destino. Un destino che s’incarna in tre immagini-metafora. Sarà una goccia d’acqua; un seme tra i rovi; una fiammella che illumina la strada. O si trasformerà in tutte e tre le cose. Ma affinché questo sia possibile occorre “infrangere un patto” : vincere un diaframma antico, una resistenza che lavora a frantumare la parola; che si dà come grumo emotivo, zona d’ombra psichica. L’esperienza diventa inaccessibile quando si carica di un’intensità la cui fiamma è inenarrabile. Per avvicinarla ci vogliono gli anni e la distanza. Per accettarla ci vogliono l’ironia e il disincanto. Per romperne l’aura protettiva ci vuole una fanciullesca fede nella poesia e nella memoria. Per metterla in scena ci vogliono molti libri che la scalfiscano, sbucciandone i primi strati. Si può narrare senza infrangere nessun patto; ma ne usciranno pagine vuote; o pagine scritte troppo bene; o visioni di esperienze ridotte e travestite, prossime al tradimento. Ornella vuole rompere il giocattolo, proprio come farà, nel centro del libro, con Ciufeca, la bambola di celluloide: “L’afferrai e la sentii fredda e dura, istintivamente la scaraventai lontano, la testa si staccò dal resto del corpo e rotolò per la stanza”. Infrangere un patto genera dolore; ciò che era rimosso e mitizzato appare sotto forma umana. Occorre coraggio e fiducia. Occorre prima di tutto autorizzarsi a fare questo “terribile meraviglioso viaggio”. Accettare, attraverso la parola scritta, di condividerlo con l’altro, coscienti che egli non ci accolga o ci diventi fratello.
III
Il primo capitolo - L’angelo del faro - chiama sulla scena narrativa il faro sulla scogliera, presente nella miniatura in copertina. L’attacco è una lunga meditazione che sciama lungo le pareti nude di una vecchia baracca. Vicino si alza il faro e all’intorno c’è il mare, vasto e pulsante, che ferisce i sensi col sapore di salsedine e piccole gocce d’acqua salata. La sola presenza in tanto silenzio è il lavorìo di un ragno che tesse la sua tela. Deposto sui bordi sfrangiati di questo attraversamento memoriale, il ragno è molto più che figurina di un bestiario privato; la sua paziente tessitura avviene sotto lo sguardo vigile dell’io narrante, che si ferma a descriverne “il sottile filo che per lui significa sopravvivenza”. La sua presenza diventa un correlativo oggettivo capace di incarnare una funzione peculiare della scrittura: la tessitura. La memoria si organizza in un testo: l’io viaggia al fondo dell’interiorità, la percorre per riannodare le fila di alcune esperienze. Così, ogni frase del libro, è un filo d’Arianna, sgomitolato a ritroso nel labirinto della psiche; ogni parola è un “sottile filo che significa sopravvivenza” dell’evento biografico, tolto al suo breve durare e sagomato in nuovi orizzonti di senso.
Fin da questo primo capitolo, la voce narrante si sdoppia, assumendo su di sé due funzioni: è l’autore che, nel presente, tesse la sua tela memoriale, filo per filo; e si ri-crea come ‘personaggio’ che ha fatto esperienza e ha maturato il distacco necessario, la lucida lontananza, per descriverla. È questo il carico di responsabilità della scrittura autobiografica - il terzo genere letterario che struttura la narrazione di Ornella. Nella filigrana stratificata del suo libro, fiaba, poema e autobiografia, si fondono e lavorano a preparare la robusta tela capace di reggere l’incandescenza dolorosa del patto infranto. Per tutta la lettura del libro, non dobbiamo mai dimenticare che l’io narrante prende la parola infrangendo un patto.
In questa cornice marina, dentro una vecchia baracca, inizia la storia. Si apre la “strada dei ricordi”. Sfilano come tessere di un mosaico le scene dell’infanzia e dell’adolescenza; la maternità; l’amore; il senso di scacco e di fallimento: tutte le latitudini, atroci e bellissime, che riempiono ogni esistenza. Ricordo che in molti suoi testi, Freud per descrivere alcune agnizioni inconsce, o per definire la Ragione stessa, usa la metafora dell’esile “fiammella”: un fuoco tremolante; fragile privilegio che ci può essere tolto in qualsiasi momento. Così per l’io narrante: “Improvvisamente il ricordo di una fiammella emerge dal profondo dell’anima portandomi indietro nel tempo, mi rivedo lungo il sentiero fiocamente illuminato dalla luce del faro con la disperazione di chi, stanco di soffrire, si presta a porre fine alla sua esistenza.”
La “strada” dei ricordi è spazio e tracciato simbolico della maturità; ma rischiarata da questa fiammella che affiora dal profondo, diventa “sentiero”: si rimpicciolisce e conduce il lettore in una scena più piccola, una miniatura solcata da un serpentinato rigagnolo di terra. Quest’atmosfera di lieve regressione, di fiaba miniata in linee purissime e fantastiche, dove il tempo si fa immobile e dilatato, sarà una costante degli interni descritti nel libro: è la grana sottile di quell’aria di famiglia, quasi sogno di comunità, che permea il rito della preparazione della tavola; il sedersi a pranzo; lo scambio del cibo, nobilitato a dono; l’accensione della stufa; le notti riscaldate dal tepore dei corpi. In questa visione, la luce della fiammella si con-fonde con quella del “faro”: presenza totemica e rivelatrice del viaggio per l’alto mare aperto dei ricordi. Per lo scrittore, il faro non è solo spunto e tentazione romanzesca; si carica di valenze simboliche e mitiche. Nell’immaginario fantastico di Ornella, il faro compare con la forza che assume nei versi di Baudelaire: è “l’eco rinviata da mille labirinti” per illuminare maledizioni, bestemmie, lamenti; estasi, grida, pianti; è “un grido ripetuto da mille sentinelle”; “un richiamo di caccia in vasti boschi perso”; è il segno di un “singhiozzo ardente che tra le epoche trascorre / per morire sulle rive della tua eternità”.
Il ragno; la fiammella; il faro: sono i tre talismani che preparano il tempio per la parola del secondo narratore.
IV
Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more;
(Dante, Purg., VIII, vv.1-6)
Perché i ricordi delle esperienze siano tessuti bene occorre crearsi una “lingua”. E’ questo il viatico sacro di ogni scrittore, la sua maggiore fatica. Sulla lingua si interroga l’io narrante muovendo i primi passi nella sua storia: “Significa avere il coraggio di voltare una pagina scritta per trovarne una bianca, da scrivere in una lingua che molti non comprenderanno.”
La “lingua” capace di accedere al passato e di infrangere il patto, Ornella - autore e personaggio - la troverà nel colloquio con un altro narratore. Un primo passo verso questo nocciolo doloroso è il racconto dell’attrazione del vuoto, dell’impulso all’annullamento di sé, che assale l’io narrante nel buio della scogliera: “Accovacciata sull’alta scogliera dalla quale avrei certamente immolato la vita in olocausto, udii i passi sicuri di un misterioso personaggio dirigersi verso il mio altare.” Qui si colloca uno dei tanti magistrali colpi narrativi del libro. Ornella non ci descrive il dramma psicologico adottando un punto di vista interno, ad esempio attraverso un monologo interiore, nel quale confluisca la cronaca minuta degli attimi che conducono un’anima agli estremi del nulla; la sua scelta espressiva spiazza le aspettative del lettore: muta registro linguistico e attinge parole dal fondo di una religiosità inquieta e tormentata, introducendo così nel dettato piano del racconto una screziatura lessicale feroce, al limite del visionario: la scelta del suicidio è il gesto di chi ha deciso di immolare la vita in olocausto, sopra un altare. Un passaggio di analoga maestria narrativa, rivelatore del talento di fissare la complessità di un personaggio o un giro psicologico con pochi mezzi formali, lo ritroveremo più avanti, nella seconda parte del libro, nell’episodio della violenza infantile.
Nel pieno di questa crisi avviene l’incontro straordinario. Chi è che cammina su quest’oscura costa di terra rocciosa? Che si avvicina alla piccola baracca sbrecciata immersa nella notte? Chi è colui che sa entrare nel vivo di questa scena fantasmatica, intima e raccolta, dopo che la ferita malinconica della lama lessicale ha infranto la bolla sognante? Un “misterioso personaggio” si annuncia a “passi sicuri”. L’io narrante ci informa che è la notte di San Lorenzo. Vuole documentare tutta l’eccezionalità dell’apparizione; vuole essere preciso, come tenesse un diario di bordo: è il primo indizio di un tempo umano. Una rassicurante cronologia da calendario.
“Chiamami Mistral”, risponde l’ignoto camminatore notturno. E sentiamo un sussulto. C’è in questa risposta, modulata sotto la notte in faccia al mare, un sapiente richiamo. Il lettore corre con la mente al memorabile attacco di quel poema romanzesco che è il Moby Dick di Melville: “Chiamatemi Ismael”, è la celebre autopresentazione del narratore, il marinaio illetterato arrampicato sul castello di prora. L’apparizione numinosa di Mistral è tutta racchiusa nel giro serrato di queste due parole, dirette e gravi. La logica del poema sottostante continua ad agire: Mistral veste il ruolo del Virgilio dantesco che corre in soccorso del pellegrino smarrito, proprio nell’istante in cui le larve più nere lo hanno risospinto nella terribilità, senza consolazione, della selva.
Come ci viene descritto Mistral? È “un uomo già avanti negli anni: i suoi capelli erano lunghi e bianchi come la barba che scendeva a sfiorargli il petto e due occhi profondi riflettevano l’intero universo.” Ma il suo ritratto è disseminato per tutto il libro; i lettori dovranno completare la sua figura raccogliendo dentro i capitoli gli indizi, fisici e psicologici. Mistral è simile al sacchetto di conchiglie che donerà ad Ornella: sul piano narrativo, ha un abito umano robusto e sensibile; ma ogni guscio, ogni cartilagine, ogni sfumatura che lo costituisce va osservata in sé, pezzo dopo pezzo, e solo in ultimo nella totalità che le racchiude. Mistral ci apparirà come un’entità misteriosa e solo nel procedere del suo racconto lo vedremo umanizzarsi. Troppo spesso, leggendo un testo, ci dimentichiamo l’importanza della scelta dei nomi. In una narrazione, come in un testo poetico, il nome proprio non è mai senza ragione. Ce lo insegna Proust: il nome è un luogo, nel cui humus accadono fertili associazioni e attraverso il quale un’intera esistenza può risuscitare intatta. Per Mistral questa spazialità magica vale come rivelazione del personaggio. Personaggio che diventerà narratore di secondo grado: Ornella si ritirerà sullo sfondo e cederà a lui la parola della narrazione, lasciandoci spettatori di un meraviglioso (auto-)ritratto.
Mistral compare nella vita di Ornella per aiutarla a “spingere la spada nella sua zona d’ombra”, ad infrangere fino in fondo quel patto antico. Ha una voce sapienziale. La voce di chi impartisce lezioni leggendo direttamente nel libro che la natura squaderna. Insegna con mente pulita; condivide un sapere legato al ciclo naturale delle cose; guarda nel cielo i disegni delle costellazioni. Da alchimista, ragiona sugli elementi che il fuoco non dissolve ma trasforma; da filosofo, condivide con Montaigne l’arte di imparare a morire, staccandosi dalle cose e imparando a vivere sotto la luce del transitorio. Nel libro, la bellezza dei dialoghi con Mistral è tutta nella sua capacità di ripulire le parole da ogni solipsismo, per donarsi all‘altro. La loro lega possiede una trasparenza minerale: durevole, tersa ed essenziale. Sono parole che ogni volta portano alla luce ciò che già esiste nel cuore di Ornella: forgiate nel solito alfabeto sapienziale, pur senza conoscersi.
A partire dal quarto capitolo - Le notti con Mistral - siamo immersi nel vissuto del nuovo narratore ed è come se un secondo libro gemello scorresse nel grembo del primo. Mistral arriva dal mare, con una barca di nome Elizabeth. La sua appartenenza al mare conferma un’intima natura melvilliana. Nel capitolo eponimo - Ciglia bianche - narra le sue origini. Il tema della memoria, il recupero dei ricordi, è svolto dall’oralità viva di Mistral. L’infanzia felice; l’adolescenza e quell’episodio traumatico che cade, simile a una pietra contundente, nella spensieratezza dei suoi quattordici anni. Durante la visione di vecchie pellicole di guerra, compare l’immagine di “una catasta di giovani uccisi”, “centinaia di corpi formavano montagne umane, i primi piani degli occhi mostravano occhi aperti incorniciati da folte ciglia bianche di ghiaccio, candide come le loro anime senza peccato.” Mistral non regge la vista di quelle ciglia bianche e la pietà lo vince. Il velo si squarcia. Sviene e si risveglia, penetrato dalla prima rivelazione della morte. È il male dentro la Storia, provocato dall’odio e dalla stupidità dell’uomo.
Le “ciglia bianche” sono commovente motivo di iconica purezza: il segno della pietà umana che si stacca dal nodo di corpi ammassati; una nota figurativa che, per intensità drammatica, richiama le scarpette rosse della bambina ebrea uccisa e gettata su una carretta, che gli occhi di Oscar Schindler non sanno sostenere. Sapremo che Mistral viene dalla Russia. La sua ipersensibilità si è strutturata in una passione per la letteratura, coronata da laurea. È un esule volontario, fin da giovane. Ha viaggiato molto. Porta cuciti nella sua figura alcuni tratti inconfondibili dei personaggi di Steinbeck. Avvezzo a tutti i mestieri e rotto a tutte le navigazioni, sulla sua linea destinale incontrerà Klaus, un “vecchio lupo di mare” che lo ospiterà nella sua barca, l’Elizabeth, fino a donargliela, poco prima di morire. Nell’avventuroso romanzo del suo io ci sarà posto anche per il grande amore: Kuma. Ne nascerà uno degli episodi di più vibrante pathos del libro.
Un terribile meraviglioso viaggio che Mistral narra e condivide con Ornella; e attraverso cui il patto verrà infranto. Quando Ornella - io narrante di primo grado - riprenderà la parola avrà ritrovato il senso della vita e con esso il coraggio di dare un nome alle cose. Vinte le ultime resistenze interne si accede alla seconda parte del libro: “Sapevo perfettamente che avrei dovuto raccontare il mio pezzo di storia, così era l’accordo.”
V
Si dovrebbe riflettere a lungo per parlare
Di certe cose che così si persero,
quei lunghi pomeriggi dell‘infanzia
che mai non tornarono uguali - e perché?
Dura il ricordo - : forse in una pioggia,
ma non sappiamo ritrovarne il senso;
mai fu la nostra vita così piena
di incontri, di arrivederci, di transiti
come quando ci accadeva soltanto
ciò che accade a una cosa o a un’animale:
vivevamo la loro come una sorte umana
ed eravamo fino all’orlo colmi di figure.
Eravamo come pastori immersi
in tanta solitudine e immense distanze,
e da lontano ci chiamavano e ci sfioravano,
e lentamente fummo - un lungo, nuovo filo -
immessi in quella catena di immagini
in cui duriamo e ora durare ci confonde.
(Rilke, Infanzia)
“Ciglia bianche. L’angelo barbone” è una libro bifronte. Un dittico che racchiude la storia di due vite, unite da un’assoluta affinità elettiva. Se la prima parte del libro è il pannello di Mistral, la seconda è il pannello su cui scorre la corrente impetuosa del vissuto di Ornella, che si slega come un’onda che ha superato ogni dolorosa resistenza e ha infranto il divieto del patto.
Un grido corale apre la nuova scena. C’è la nascita di una “fantoccia”. Un orologio di campanile batte le nove del mattino e per le vie del paese corre la notizia. È un malpelo. Ha i capelli rossi. Forse sarà maliziosa e cattiva. Forse sortirà una vena birbona. Il proverbio sancisce lapidario questo segno funesto: “Pelo rosso cattiva lana!”. Ma un gallo ha cantato e ha mitigato il malaugurio. Nonno Goffredo compra una bistecca e offre alla puerpera il “premio”; mentre nonna Adele intona “la canzone dei soldati che partivano per Tripoli.”
In questo microcosmo gremito e festoso si svolge il romanzo familiare di Ornella. Comincia qui la scrittura della sua vita. È un ritorno doloroso ai luoghi del passato. L’autobiografia è arrivata alle sue scaturigini: il nucleo irradiante della psiche e della scrittura; la formazione prima della struttura elementare della personalità; la tessitura di voci, suoni, profumi, gesti, luci e ombre che ci ha fasciati - la materia di cui siamo imbevuti fino al midollo. Il primo tempo e il primo spazio. È l’Heimat: il luogo d’intensità originario, che crescendo perdiamo, ma verso il quale tutta la vita desideriamo tornare.
Pagina dopo pagina, il romanzo familiare si ramifica, si complica, si tinge dei chiaroscuri delle proibizioni, dei misteri quotidiani, delle sofferenze; ma anche delle piccole gioie intime. La casa, la famiglia; il difficile rapporto con la madre; il padre inaccessibile; la precoce esperienza dell’emarginazione e dell’esclusione sociale nella comunità scolastica- altro nucleo portante della creatività di Ornella. E quel leitmotiv straziante, quella grande solitudine che possiamo cogliere sulle labbra di tutti i bambini: “nessuno mi spiegava mai nulla…”. Da domande viscerali come questa nasce quella necessaria vocazione all’infelicità che alimenta la ricerca della scrittura. Si scrive per trovare un risarcimento, non una consolazione. In questo libro, Ornella arriva alla parola ritrovata. Questo viaggio dentro la sua memoria, il coraggio di raccontare tutto quanto punteggia la sua esistenza, si rivela, al contempo, un’esplorazione della sua vocazione, osservata alla radice. La lingua della narrazione si fa fresca e sorgiva; assottiglia la gravità delle meditazioni - più estese nelle pagine d’esordio - s’affolla di cose. Come la lingua di Mistral, essa ha il compito di chinarsi sulla bambina dai capelli rossi, per spiegarle tutto con innocente stupore.
Conosciamo così l’intima scena dell’infanzia della “fantoccia” ; i giochi e le risse; l’inflessione ironica, sognante, lievemente empia; la curiosità ficcante; l’intenso primo tempo dell’amore alla madre, che la psicoanalisi chiama odio. Conosciamo la vitalità e il precoce senso della natura: la fusività panica con i mandorli in fiore e i campi di papaveri. Da un pertugio, spiamo il pianto del padre, sotto le lenzuola e il ’pater familias’, l’idolo che si allontana e si avvicina, simile a quelle nuvole altissime che formano lo sfondo pittorico del libro. Sappiamo anche le paure provate nel buio della camera da letto; l’attaccamento a Salomé, la bambola di pezza che funge da nume tutelare della stanza; e attraverso la quale Ornella riesce a condensare il senso del passaggio dai giocattoli di panno, di caldo artigianato, a quelli industriali di celluloide, rappresentati da Ciufeca.
E poi c’è questo sguardo curioso che dal suo angolo visuale, intensissimo, coglie tutti i sottili giochi segreti degli adulti. Uno sguardo guidato dal dubbio, mosso dal sospetto; nutrito da uno stupore che - nel libro - è sempre diviso tra fuga nella cecità, ricerca della verità e infrazione del velame protettivo, con il quale il mondo adulto fascia la realtà. Dall’interno del microcosmo d’origine, Ornella “fotografa e archivia” un preciso universo di cose domestiche: avaro di oggetti; pervaso di ostinato silenzio; percorso da rumori, da canti, da odori e da gesti; pieno di zone magiche, come la dispensa delle delizie golose, vegliata da nonna Giuseppina; c’è la storia del diploma del Nonno e la stufa accesa nelle gelide mattinate invernali, quando fuori fa ancora buio e tutto riposa nel sonno, salvo quel corpo paterno, sviluppato dal lenzuolo bianco che lo ricopriva come un sudario.
Per quanto la narrazione sia accordata ad un felice ritmo vicino all’oralità, e per quanto la parola sia crudele e contundente nel violare i segreti di casa, su tutta la rievocazione vive il riscatto di un pudore infallibile. “Il pudore - scrisse Cesare Garboli - è una strana forma di confidenza” , che affiora quando l’io si riscrive in un romanzo e decide di infrangere l’atavico riserbo che sigilla la memoria familiare - ossia l’archivio di quel romanzo non scritto, in cui l’amore e l’odio, la struggente poesia e il crimine, l’eroismo e la follia si mescolano per darci la storia di quelle famiglie tolstoianamente infelici; ma infelice secondo una cifra assolutamente irripetibile.
Quando la scrittura riesce ad accedere in questa materia, e a riviverla in una matura e compassionevole ‘seconda volta’, allora si innesca un’estrema confidenza interiore, emendata da ogni sovrastruttura educativa, da ogni pubblica messinscena. Perfino i filtri dell’autobiografia letteraria non reggono più davanti alle ore del giorno, alla poesia di quell’arte povera che ha il passo delle vita di sempre. Quel sempre che è vita quotidiana salvata dalla percezione intensa di una bambina nata per scrivere. E allora, vinto l’oblio dell’abitudine che “fotografa” ma non archivia, ecco le belle, infinite, interminabili giornate infantili di luce eguale, terribilmente veritiere; le giornate di quando le cose sono giare ermeticamente chiuse, vicine però ad essere infrante; e quel tempo che si nutre d’attesa e di gioia di vivere.
Davanti a pagine come quelle narrate in “Mandorli in fiore” o in “Capelli rossi, cattiva lana”, hanno vita breve i raffinati strumenti di introspezione psicologica misurati, o semplicemente giustapposti, alla sottigliezza evocativa di episodi quali le passeggiate campestri; lo specchio nella camera da letto, che restituisce la vita del corpo acerbo o lo stravolge nella violenza. La stessa dimensione religiosa ha risonanze inedite nella natura infantile descritta da Ornella: tutt’altro che roussovianamente innocente, essa convive col furore, con l’odio, con la bestemmia, col sovvertimento eretico dell’ordine, dell’istituzione; eresia che ha l’accento acuto di Mario e l’effetto dissonante ma vero dei quindici cucchiaini che sferzano i bordi e il fondo delle ciotole metalliche.
Abbiamo capito che lo sguardo d’en bas di Ornella non ingrandisce il mondo; lo avvicina quando può ancora farlo; quando la sua interiorità ha la porosità di chi è dentro le cose. Per questo il suo racconto non nasce dalla schietta registrazione della cronaca familiare, o dal gusto del ricordo. Non c’è la parola rotonda di un io strutturato. Non c’è il moderato cantabile della memorialistica che ordina le epoche della vita, colorandole di aneddoti, di motti di spirito, di estroversa gioia di vivere o di storiche testimonianze. La parola scritta di Ornella, la marca del suo stile, è tutta bagnata da quella notte che apre il libro e che potrà essere narrata solo per intermittenze del cuore: lembi luminosi di un paesaggio di oggetti interni che la lama di luce del faro, con le sue minime pulsazioni, rivelano, sollevando ad uno ad uno il velo dei divieti sulle cose e riposizionandolo. E quando si mette davanti alla notte dell’infanzia, Ornella non dimentica la “precisione dei sentimenti infantili quando essi siano stati capaci di cogliere, con tutta incoscienza, con assoluta disinvoltura, sotto la buccia della ’realtà’, la realtà, e adesso chiedano con veemenza a una mente adulta la grazia di essere riconosciuti per essenziali, di essere risuscitati dall’oblìo in cui di norma li lascia cadere la nostra presuntuosa e superficiale disattenzione.” Sono ancora parole di Cesare Garboli, che ben si attagliano alla ricomposizione del lessico famigliare di Ornella. Così, anche se volano le generazioni, i mondi di cose descritti dagli scrittori continuano a parlarci di sé, a resistere, a mantenere intatto il sapore dell’infelicità familiare; a dare epico respiro alla tribù originaria, legata da un crisma di sangue e comuni viscere. Quando Ornella delinea, in pochi rapidi tocchi, gli estremi genealogici della sua tribù, ne escono profili di medaglioni di un’araldica romanzesca che ci piacerebbe sviluppata in novelle a sé, come nel caso della figura del Nonno Goffredo: “Dovete sapere che lui aveva avuto nove figli maschi, l’unica femminuccia era morta prima di nascere, cosicché ogni bambina che nasceva in famiglia faceva brillare di lacrime i suoi occhi. A tutte aveva offerto le sue braccia lunghe e magre per cullare e la sua voce incerta per cantare dolci ninne nanne. Alto, magro, una bella testa di capelli bianchi, mio nonno era fiero del suo diploma liceale che gli conferiva un certo prestigio agli occhi di tanti che negli anni cinquanta non sapevano ancora né leggere né scrivere. Peccato che le sue idee politiche lo avessero portato a fare il falegname, e a rinunciare ad una brillante carriera di impiegato in un’azienda mineraria”
Il romanzo familiare di Ornella è un dagherrotipo pieno di fascino, nel quale il volto della fantoccia dai capelli rossi non rimane nella penombra; non si ritira né si nasconde dietro l’adulto; ma si mette in gioco col suo sguardo pungente, e mobilissimo, pronto a spostarsi su cose e persone nel momento in cui “nascondono” i crimini della quotidianità vera: il sangue; la malattia; la sessualità. Immersa nella scrittura, Ornella non protegge i suoi ricordi; non li annebbia né li edulcora; non li sottopone al filtro dell’estetismo letterario. Per lei, ricordare non significa rimpiangere; niente è più lontano dalle sue pagine che un verde paradiso infantile. Simile in questo a Natalia Ginzburg: “Le piacciono non le menzogne dell’infanzia, ma le verità degli adulti.” Ma ricordare non basta, occorre scavare sotto la buccia della realtà; far sentire sempre - scandita, distinta, dissonante - la pulsazione del vero; quella che Ornella ricompone con modulata espressione, trovando uno strumento stilistico di lineare vocalica purezza, di dolcezza di tocco prossima alla rarefazione fiabesca; ma tenuta vicina al reale da una parola sovente crudele e affilata. Ne esce un sapiente parlato, immediato e privo di oscurità compiaciuta, e per questo profondo.
VI
“Ma tutto quello che ci tocca, te
e me, insieme ci prende come un arco
che da due corde un suono solo rende”
(Rilke, Canto d’amore)
Natale 1987 è l’ultimo capitolo del libro ed è il punto in cui la struttura della narrazione rivela la sua geometria circolare. Come nelle prime pagine, Ornella torna alla scogliera, alla piccola baracca, attraverso un sentiero sassoso. E’ cambiata e internamente guarita. Ha scoperto che la sua vocazione è autentica ed è riuscita ad infrangere il divieto e a scrivere la sua scena d‘origine. Il titolo documenta l’evento, come per la prima apparizione di Mistral: è il giorno di Natale del 1987. Il paesaggio è lucidato da un vento di libeccio; l’aria è di vetro. A poco a poco, riaffiora dalla filigrana la miniatura fiabesca: la baracca si trasfigura, Ornella si dirige alla “casa magica” per cercare Mistral. La raggiunge una “fragorosa risata”; proviene da un boschetto di pini: “mi girai di scatto e lo vidi: indossava la solita casacca e un paio di jeans stinti, sul suo volto il sorriso mostrava una fila di denti appena un po’ ingialliti. Scoppiai a ridere anch’io, correndo verso di lui per piombargli fra le braccia.”
La scena del pranzo di Natale; dello scambio dei doni, tra i quali il sacchetto di conchiglie, tante quanti i giorni trascorsi insieme è tutta pervasa da una carezza lirica che non ci lascerà più fino alla fine. La materia che forma la vita di Mistral si è mescolata con quella di Ornella. Non si sono scelti, ma sono stati l’uno per l’altro “meravigliosamente presenti”.
Un ultimo desiderio mi permette di finire questa recensione. Da tempo cercavo un libro al quale poter affiancare un pensiero di Rainer Maria Rilke, trascritto e lasciato riposare per anni dentro un taccuino. Ero certo che mai l’avrei condiviso con qualcuno, o lo avrei usato come sigillo di commento ad un libro. Potevo leggerlo a me stesso, impararlo a memoria per ingannare le piccole e lunghe attese quotidiane. Ma il libro adesso è arrivato; e per quanto io abbia scomodati i versi di Dante e di Baudelaire, le verità di Proust e di Freud, l’acutezza ermeneutica di Garboli, i generi letterari: tante chiavi per illuminare le zone non dette e i livelli profondi del testo, tutto ciò non bastava, mi appariva anzi incompleto. Mancava una voce. Ho riaperto il taccuino e ho capito che solo quelle parole trascritte da I quaderni di Malte Laurdis Brigge di Rilke potevano infondermi la certezza di aver restituito il midollo segreto di “Ciglia bianche. L’angelo barbone” senza aver tradito la visione e l‘esperienza di Ornella. Ancora una volta, il più bel commento è la voce di un poeta che illumina quella di un altro poeta:
“Per un solo verso si devono vedere molte città, uomini e cose, si devono conoscere gli animali, si deve sentire come gli uccelli volano, e saper i gesti con cui i fiori si chiudono al mattino. Si deve poter ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e a separazioni che si videro venire da lontano, a giorni d’infanzia che sono ancora inesplicati, ai genitori che eravamo costretti a mortificare quando ci porgevano una gioia e non la capivamo (era una gioia per gli altri), a malattie dell’infanzia che cominciavano in modo così strano con tante trasformazioni così profonde e gravi, a giorni in camere silenziose e raccolte, e a mattine sul mare, al mare, a mari, a notti di viaggio che passavano alte rumoreggianti e volavano con tutte le stelle, e non basta ancora per pensare a tutto ciò. Si devono avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di partorienti, e di lievi, bianche puerpere addormentate che si richiudono. Ma anche presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la finestra aperta e i rumori che giungono a folate. E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino.”
Ornella Marmeggi. “Ciglia bianche. L’angelo barbone”. ECIG – Genova, 2011
Pag. 175 – 13 euro
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