“Creatura a disagio, spaesata,
il poeta intona nel folto dello sfacelo
i tempi di una sua ‘sinfonietta’,
recita i numeri di una guitteria,
stralunato,bramoso di cantilene e di Kitsch,
e così appassionato di metafisica,da sembrar
filisteo, come un archivista di Hoffmann.
E per affiorare dalla baraonda
della banalità, dal grigiore dell’iterazione,
non esita a travestirsi,
assumendo nomi diversi,
a cercare rifugio negli anacronismi,
indossando maschere ormai inusitate
di incantatori e pierrot,
sussiegose marsine e bombette.”
il poeta intona nel folto dello sfacelo
i tempi di una sua ‘sinfonietta’,
recita i numeri di una guitteria,
stralunato,bramoso di cantilene e di Kitsch,
e così appassionato di metafisica,da sembrar
filisteo, come un archivista di Hoffmann.
E per affiorare dalla baraonda
della banalità, dal grigiore dell’iterazione,
non esita a travestirsi,
assumendo nomi diversi,
a cercare rifugio negli anacronismi,
indossando maschere ormai inusitate
di incantatori e pierrot,
sussiegose marsine e bombette.”
(A.M.Ripellino,
Sinfonietta)
A gettare uno sguardo d’insieme sull’opera pittorica di Arnaldo Mangini ci sentiamo come rassicurati dal candore con cui egli dichiara l’eredità dei suoi padri elettivi. Così, dentro gli scenari delle sue tele il nostro occhio favoleggia di un mondo senza conflitti, senza incrinature drammatiche nel dialogo serrato con la tradizione novecentesca dei maestri: Magritte in primis; la lezione dell’automatismo surrealista e il pescaggio nella logica rovesciata dell’inconscio; qua e là, incursioni nell’atmosfera metafisica degli oggetti decontestualizzati, memore di quell’abrasione dechiriniana generata dal guanto di lattice arancione, pendente contro il frammento classico; e, proseguendo, si colgono sintesi alla Carlo Carrà nella semplificazione degli alberi, ritti come lame di coltello e silenziosi come obelischi, incastonati contro un cielo fabbricato per far da quinta alla plasticità delle nuvole, sparse e biancheggianti sopra i tetti delle case e sui birilli, mentre gli oggetti ludici del “secondo mestiere” di Arnaldo (la vita di palcoscenico) sono strumenti di una clownerie sul punto di dichiararsi figli del baule di Alberto Savinio; non ultimi, in questa galleria di padri, sono la chiostra di denti e le bocche urlanti di baconiana memoria.
Gli stessi
dispositivi formali sono in linea con un solido ritorno al mestiere pittorico:
il disegno tenuto alto nel nitore del contorno; le masse chiaroscurali; la
gestione attenta degli oggetti nelle scatole spaziali; la giustapposizione dei
colori puri; l’accurato grado di finitezza dei soggetti, si uniscono a formare
gli elementi costitutivi della lingua pittorica di Arnaldo Mangini, e,
largamente, della grammatica figurativa familiare alle nostre abitudini visive.
Pare insomma che in questo mondo pittorico tutto torni. Si prova quasi un
piacere prossimo alla gratificazione nel calare la ricerca di Arnaldo Mangini
nel solco della grande tradizione novecentesca, nel misurarla sulla lezione dei
maestri della modernità. Eppure se fermiamo lo sguardo su questo tavolo
espressivo, su cui le carte si dispongono ben allineate, sentiamo che ci assale
un sospetto. Si sa, quando in una ricerca pittorica i referenti stilistici sono
scopertamente confessati dobbiamo diffidare della loro reale incidenza. Nel
caso del mondo figurativo di Arnaldo Mangini, le fonti additate si scoprono
fragili crisalidi, a metà tra splendide bugie e parvenze formali.
Da dove vengono i sogni pittorici di Arnaldo
Mangini? Più che dal dominio della pittura, essi escono da un sistema di saperi
che l’artista ha interiorizzato nel tempo. Nessun sentimento, nessun palpito o
erotismo, nessun affondo lirico scuote la limpida luce meridiana di nocturne
(2013)1 o il corpo dell’Oca
italica (2012), riecheggiato con maestria nell’arco verde con il tricolore
sullo sfondo. Il viaggio a ritroso nella tradizione pittorica novecentesca ci
porta, quindi, ad un vicolo cieco. Il profondo nucleo generatore dell’immaginario
pittorico di Arnaldo è altrove.
A voler cercare il midollo conoscitivo delle
sue tele, tele così intimamente pensate, la bussola non si allontana dal
quadro sperimentale del primo Novecento; ma dal Nord delle avanguardie dobbiamo
spostare l’ago verso altri linguaggi. Tutto quanto compone le visioni
pittoriche di Arnaldo è permeato dalla letteratura e dalla psicoanalisi. Nomi
come quelli di Pirandello e Freud sono molto più che un letto di suggestioni
libresche. Termini quali umorismo e perturbante (2) si configurano come modelli attivi della ricerca espressiva di
Arnaldo: la loro simultanea presenza forma la graduazione necessaria affinché
possa avvenire la messa a fuoco delle lenti critiche sulla visione pittorica. È
dal loro terreno comune che prende corpo l’iconografia di Arnaldo, la cui cifra
di realismo visionario la rende stilisticamente tanto riconoscibile.
Esemplare
in questa direzione è Il mal di denti di Apollinaire (1997). Che cosa
vediamo? In pochi centimetri di tela (35X50), Mangini allestisce un sistema
simbolico nel quale gli elementi in gioco sono il ritratto di Apollinaire,
incastonato in una lunetta, fissato in un rictus e bendato per la ferita
di guerra; in basso, a fungere da contraltare muto, un toro rosso fa capolino
da una buca nel terreno e guarda il poeta; sullo sfondo, una gigantesca “A” è
inscritta in un rombo fatto di tiranti e sfere agli angoli, a sua volta
contenute in una seconda geometria rettangolare suggerita dal brandello di muro
e dal palo di metallo, il tutto organizzato in un calibrato schema compositivo.
La simbologia, colta e allusiva, non è di immediata lettura.
Lasciamo per un
momento in sospeso il rebus e passiamo ad una seconda tela: Ci rivedremo a
Filippi (2012). Qui tutto il proscenio è focalizzato sul gesto di saluto
dell’uomo in giacca e cravatta e dalla gigantesca bocca che pare scuotere le
fuggitive apparizioni alla sue spalle: il paesaggio tutto d’invenzione e le due
nuvole, pigre e svagate tra alberi e architetture, pronte a metamorfosarsi nel
numero 3. Descritta questa soglia, possiamo affidarci all’interpretazione
iconografica, isolare i soggetti e verificarne la tenuta alla luce di svariate
chiavi di decifrazione; ma ciò ci porterebbe lontano. Quello che deve emergere
nella presentazione di un artista è la sostanza primaria dei suoi dipinti:
quella che Karen Blixen chiamava “il disegno della cicogna”(3), ossia la figura complessiva che possiamo
ricavare dall’insieme di un racconto e che, nel caso della personale di Arnaldo
Mangini, si lascia scoprire e conoscere attraverso l’unità figurale della
narrazione per immagini. In questo senso, la compresenza, in mostra, di dipinti
e disegni suggerisce al meglio questa uniformità di poetica.
Dove possiamo cogliere, infine, la presenza di
Pirandello e di Freud nella ricerca pittorica di Arnaldo Mangini? Poniamo mente
alle definizioni. Dell’umorismo noi sappiamo che è il “sentimento del contrario”(4), ossia una singolare condizione di
riflessione che, azionandosi, mette un freno al riso liberatorio del comico e
ci fa pensosi; mentre il perturbante è la condizione per la quale gli oggetti,
esteriori ma soprattutto radicati in noi come oggetti del mondo interno, da
familiari mutano in presenze ‘sinistre’, straniere e minacciose, generando un
senso di profondo spaesamento. Entrambi i termini sono forme di conoscenza
della natura umana ed è in questa accezione che Arnaldo Mangini le intende,
intrecciandole nel suo teatro pittorico. Un teatro in cui nulla di quanto
rappresentato è frutto del caso: i cieli aperti e luminosi; le irreali
campagne, inondate da una luce che satura i colori; le cravatte multicolori e i
colletti che chiudono menti e bocche sataniche; gli archi che danno asilo a
nuvole in viaggio; l’evocazione del silenzio meridiano in cui si fissano
elementi di un rebus in cerca d’autore; l’u;niverso oggettuale clownesco che
punteggia gli scenari sono singole parti di una costruzione dell’opera sempre
cosciente nell’artista. “Un quadro - scriveva Baudelaire - è una macchina in cui tutti gli ingranaggi
sono intellegibili a un occhio esercitato; dove tutto ha la sua ragion d’essere,
se il quadro è un vero quadro; dove un tono è sempre chiamato a farne risaltare
un altro, dove un errore occasionale di disegno è talvolta necessario per non
sacrificare qualcosa di più importante.”(5)
Opere cruciali come Il mal di denti di
Apollinaire e Ci rivedremo a Filippi sembrano configurarsi agli
occhi del fruitore come teatro simbolico dell’interiorità dell’autore. Per
questo, a gettare uno sguardo d’insieme sul corpus di disegni e dipinti
di Arnaldo Mangini, presentati nella mostra personale alla Galleria “Lancillotto”
di Sarzana, si profila nei nostri occhi un’autobiografia attraverso figure e
paesaggi, nei quale la risata è tenuta al limite del grido o del rottame
verbale e gli oggetti, che punteggiano lo scenario di elementi ludici e
clowneschi ma in realtà straniati, sono tutt’altro che totem innocenti della
fiaba e del gioco.
Note:
(1) Per le opere citate nel testo
critico consultare il blog dell’artista: http://blog.arny.it/index.php/tag/pittura/
(2) Per i
termini “umorismo” e “perturbante” le edizioni consultate sono: L.
Pirandello, L’Umorismo e altri saggi,
a cura di E. Ghidetti, Giunti Editore, 1995, p.374; e S.Freud, Il perturbante,
Bollati Borginghieri
(3) L’espressione
“il disegno della cicogna” è utilizzata da Karen Blixen nel romanzo La mia
Africa (“Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò o altri
vedranno una cicogna?“). Su questa riflessione si incentra il saggio di Adriana
Cavarero, Tu che mi guardi tu che mi racconti. Filosofia della
narrazione, Feltrinelli, Collana Elementi, 2001, p.92
(4) L’esempio
chiarificatore della poetica umoristica pirandellina è quello celebre della “vecchia
signora”.
(5) C.
Baudelaire, Salon del 1846, in Scritti sull’arte, a cura di Ezio
Raimondi, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2004, pp. LIV-380
L’umorismo perturbante nel teatro pittorico di
Arnaldo Mangini, mostra personale di
pittura, Galleria “Lancillotto”, testo critico di Davide Pugnana. Vernissage
sabato 24 agosto, ore 18:30, via Lancillotto Cattaneo, n. 12, Sarzana (Sp).
Ingresso gratuito.
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