Una letteratura sterminata.
Sterminata
la letteratura intorno alle origini della Grande Guerra. Non erano ancora stati
sparati i primi colpi di cannone che già ciascuno dei Paesi belligeranti si
adoperava per attribuire ai propri avversari le responsabilità dello scoppio
della conflagrazione mondiale. Soprattutto negli anni del conflitto e in quelli
immediatamente successivi, la storiografia risentì del calore delle polemiche
nazionalistiche e della imponente produzione di documenti e memorie di uomini
di Stato e militari tendenti a spiegare all’opinione pubblica, spesso da punti
di vista settoriali se non addirittura personali, decisioni e scelte politiche,
iniziative strategiche e operazioni tattiche. Si trattava di lavori in genere
tendenziosi e propagandistici che ruotavano prevalentemente attorno al tema
delle responsabilità degli Imperi Centrali e del loro personale politico e
militare: questi, oltre a “premeditare” la guerra, avrebbero approfittato
dell’assassinio dell’arciduca austriaco a Sarajevo come di un avvenimento
favorevole che aveva offerto loro il pretesto, tanto insperato quanto
desiderato, per scatenare una guerra che avrebbe imposto l’egemonia germanica
sul mondo. Una letteratura comunque importante perché legata alla questioni,
che avrebbero avvelenato l’Europa nei decenni successivi: i trattati di pace e
le riparazioni di guerra.
Un fronte compatto.
Un
fronte storiografico compatto che, però, già a partire dagli anni venti iniziò
a mostrare le prime crepe. Questo avvenne quando la giovane Unione Sovietica
cominciò a far uscire materiali documentari che illustravano le responsabilità
del governo zarista e dei suoi alleati, Francia e Inghilterra, parimenti
coinvolti nella conduzione, già orientata in senso bellicista, della diplomazia
di quei Paesi e nella preparazione di un clima d’odio nei confronti della
Germania. Un’ondata di pensiero storico “revisionista” che segnò profondamente
soprattutto l’opinione pubblica francese e quella americana sino a quel momento
tenacemente attaccate alla tesi dell’unica responsabilità degli Imperi
Centrali: una tendenza storiografica che conobbe anche posizioni estreme che
attribuivano in particolare alla Francia e alla Russia, che avrebbero
scientemente precipitato il mondo nell’immane catastrofe di una guerra
mondiale, tutte le colpe, prossime e remote, del conflitto
Così,
a dieci anni dallo scoppio di una guerra che aveva radicalmente ridisegnato gli
assetti politici e sociali del continente europeo, il giornalista e scrittore
francese Alfred Fabre-Luce riassumeva la tormentata questione delle colpe e
responsabilità: “La Germania
e l’Austria hanno compiuto i gesti che hanno reso il conflitto possibile; la Triplice Intesa ha fatto quelli
che l’hanno resa certa”. Una formula, questa, che non arrestò negli anni
successivi, fino almeno alla seconda guerra mondiale, il confronto tra
storiografia antitedesca e storiografia revisionista: anni in cui si facevano
strada, però, anche impostazioni diverse per interpretare avvenimenti così
decisivi nella storia europea e mondiale. Lo scrittore pacifista francese Victor
Margueritte, per esempio, elevava un fiero atto d’accusa nei confronti di tutti
i governanti europei, formulando al tempo stesso un’assoluzione piena per tutti
i popoli, mentre nel 1927 lo storico sovietico Eugenij Viktorovic Tarle in una
sua celebre Storia d’Europa 1871 – 1919
proponeva un’interpretazione di quella tragica vicenda bellica come “preparata
dal giuoco complesso dei contrastanti interessi economici generali del
capitalismo in Europa”.
Eugenij Viktorovic Tarle. Le responsabilità del capitalismo.
Storico
russo già affermato nel suo Paese e apprezzato all’estero quando i bolscevichi
assaltarono il Palazzo d’Inverno, Eugenij Viktorovic Tarle (1874 - 1955) non
era marxista e non partecipò alla rivoluzione. Un decennio più tardi, nel 1927,
il suo libro Storia d’Europa, 1871-1919,
gli valse l’ingresso nella prestigiosa Accademia sovietica delle Scienze, ma
gli attirò anche gli strali polemici degli storici di regime più ortodossi che
l’accusarono di essere uno pseudo marxista, un interventista e uno storico
favorevole ai Paesi dell’Intesa. Accuse che gli comportarono un esilio durato
quattro anni.
La Storia d’Europa
1871-1919 ridimensionò radicalmente
la questione, agitata in chiave soprattutto nazionalistica, delle maggiori o
minori “responsabilità” nel conflitto di questo o quel governo europeo, per
concentrare invece l’attenzione sulle dinamiche economiche e finanziarie del
periodo 1871-1914,
Secondo
lo storico sovietico, “mai, prima d’allora, in tutta la storia del capitalismo
moderno, l’industria, il commercio, la borsa, l’agricoltura, i trasporti
avevano avuto a propria disposizione capitali liberi così ingenti”. La
formazione e l’espansione di formidabili capitali che finanziavano e
organizzavano tutta la vita commerciale e industriale dei moderni Paesi
capitalistici avevano favorito il formarsi di un’ “economia mondiale” che non
determinava affatto però il quadro idilliaco dell’emulazione pacifica sognato
sin dalla metà del secolo XIX da
studiosi e utopisti politici come Buckle o Cobden. Ne era derivato un conflitto
tra potenze imperialistiche: in ogni Paese gli industriali si erano adoperati
per spingere i loro Stati a intervenire in armi per conquistare nuove risorse
di materie prime e vantaggiosi mercati di sbocco per le merci. Un comportamento
simile fu tenuto dalle banche e dalle borse che, soprattutto negli anni prima
del 1914, chiedevano un attivo appoggio diplomatico e militare dovunque si
proponessero di investire i capitali disponibili. Una condotta che unificava
gli industriali tedeschi ai capitalisti inglesi, i capi della Borsa parigini ai
grandi commercianti russi. A tutto ciò, secondo Tarle, non corrispose, poi,
un’adeguata presa di coscienza dei rischi insiti in quella particolare fase
della politica e dell’economia europee da parte della classe operaia del
continente e delle sue organizzazioni politiche e sindacali che, soddisfatte delle
conquiste economiche e sociali ottenute negli ultimi decenni in termini di
mantenimento dei posti di lavoro e di aumenti salariali, avevano abbandonato le
parole d’ordine rivoluzionarie e della solidarietà internazionalista di classe.
Il dibattito storiografia dopo il 1945.
Se
nel dibattito storiografico fece, dunque, allora il suo ingresso il tema della
Grande Guerra come conflitto tra potenze imperialistiche, non per questo si
esaurì il confronto sulla questione delle colpe e responsabilità, riacceso
inevitabilmente dal secondo conflitto mondiale, dai suoi tragici esiti, dalla
nuova sconfitta della Germania. Nel clima ancora caldo della lotta antinazista,
ripercorrendo la sterminata documentazione già nota, ripropose l’argomento
della colpevolezza tedesca, lo storico inglese di convinzioni laburiste A. P.
J. Taylor con il suo libro L’Europa delle
grandi potenze da Metternich a Lenin 1848-1918, 1961 (titolo originale The struggle for mastery of Europe 1848-1918,
apparso nel 1954). Un orientamento ripreso con vigore e la forza di nuovi
materiali d’archivio dallo storico tedesco Frantz Fischer, con un lavoro
rimasto famoso perché letto ben oltre la cerchia ristretta degli storici di
professione, Assalto al potere mondiale,
1965, che mise inconfutabilmente in luce i piani aggressivi elaborati dal
governo e dai militari tedeschi prima e durante il conflitto voluto a tutti i
costi dalle forze economiche dell’impero germanico.
Wolfgang J. Momsenn. Il deficit di democrazia della Germania.
Wolfgang
J. Momsenn (1930 – 2004), appartiene alla generazione di storici tedeschi
indotta dalle tragiche vicende del secondo conflitto mondiale a indagare sulla
continuità tra la Germania
dell’età guglielmina e quella nazionalsocialista. Studioso della storia tedesca
e inglese nei secoli XIX e XX, Momsenn nel suo L’età dell’imperialismo 1885-1918 sostenne che alla modernizzazione
economica della Germania non avrebbe corrisposto un’adeguata modernizzazione
sul piano politico e civile come invece era avvenuto per la Gran Bretagna. Una
fragilità del tessuto politico e un deficit di democrazia che, intrecciati con
un poderoso sviluppo industriale, con le tradizionali aspirazioni tedesche
all’espansione territoriale, col nazionalismo e il militarismo prussiano,
fecero ricadere sulla Germania il peso delle maggiori responsabilità nello
scoppio del primo conflitto mondiale. Infatti, mentre nei dieci anni che
precedettero il conflitto si assisté in Inghilterra a un’ampia diffusione dei
principi politici del liberalismo riformista e radicale, in Germania, negli
stessi anni, l’idea dello Stato democratico ristagna o arretra. Così, in
Inghilterra le elezioni del 1906 portarono ben 54 rappresentanti laburisti alla
Camera dei Comuni e il governo liberale fu sollecitato ad “andare oltre gli obiettivi
del Labour Party tramite una generosa politica di riforme sociali”; in
Francia, nello stesso anno, Clemenceau, su mandato degli elettori, formò un
governo fondato su una larga maggioranza radicalsocialista con l’appoggio dei
socialisti, che, tra divisioni e contraddizioni, entrarono stabilmente e da
protagonisti nella vita politica del Paese e contribuirono al progressivo
ordinamento democratico dello Stato; in Germania, invece, nonostante le
speranze di una nuova stagione di progresso democratico all’interno del Paese,
il sistema politico e sociale rimase prigioniero degli interessi dei gruppi più
conservatori. Si mantenne il potere di comando del Kaiser sottratto a ogni
controllo, i politici non riuscirono a ridimensionare il ruolo sino ad allora tenuto
dai militari nelle scelte governative e la Germania continuò a essere governata con metodi
autoritari mentre la politica estera di Guglielmo II era guidata da
preoccupazioni nazionalistiche e la classe dirigente tedesca la usava per
tenere a bada le richieste di democrazia che provenivano dall’interno del
Paese. Politici, militari, grandi industriale costituivano per Momsenn un
blocco di potere destinato a rimanere sostanzialmente intatto anche negli anni
tumultuosi della repubblica di Weimar per approdare, con reciproca
soddisfazione, al Terzo Reich.
Pesantissimi,
per il vecchio continente, gli esiti politici, materiali e morali del conflitto
che ne seguì.
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