di Mimmo Mastrangelo
Precursore di un realismo in antitesi alla retorica e all'enfasi della cultura di regime. Questo è stato il cinema artigianale e popolare di Elvira Coda Notari (Salerno 1875- Cava dé Tirreni 1946), la prima donna italiana a ricoprire il ruolo di regista.
Un'autentica pioniera che, insieme al marito e fotografo, Nicola Notari, e al figlio Eduardo, ( in tutti film della madre rivestì il ruolo di Gennariello) mise su la Dora-Film, una di quelle case napoletane di produzione dei primi decenni del novecento che, tra l'altro, andarono a contrastare il dominio dell'industria filmica di Torino. Un'azienda a carattere familiare fu la Dora-Film che, grazie alla creatività, all'intelligenza e alla tenacia della Notari (non a caso la chiamavano "la carabiniera"), produsse circa sessanta lungometraggi distribuiti con enorme seguito di pubblico tanto nelle sale partenopee quanto nelle Americhe dove le storie narrate sullo schermo diventavano lo svago e "il pane nostalgico" di tanti italiani emigrati.
Quasi del tutto dimenticata o sconosciuta, la figura di Elvira Notari è stata di recente riscoperta grazie al critico Paolo Speranza e al filmaker salernitano Licio Esposito i quali, dopo aver curato su di lei una mostra, presentata ad Avellino, Napoli, Salerno e Cava dé Tirreni, hanno dato alle stampe il volume "La film di Elvira" (edizioni Cactus Film e Cinema Sud pag 156. euro 10,00) con contributi di Valentina Abussi, Paola Vacca, Gianfranco Pannone, Luca Di Girolamo, Giovanna Callegari, Sara Fiori , Angela Maria Fornaro, Antonio Farese, Salvatore Iorio, Patrizia Reso e Marialaura Simeone .
Dalle pagine del saggio viene fuori un' energica e poliedrica donna-artista che, oltre a dirigere gli attori (presi dalla strada), curava delle pellicole la scrittura, il montaggio e la stessa distribuzione, mentre il marito, da operatore di macchina, era attentissimo nel seguire tutte le sue direttive sulle riprese "en plein air" che dovevano poi fare da incipit a trame melodrammatiche.
"E' piccerella" (1921) , " 'A stanotte" (1922) e "Fantasia 'e surdato" (1927) possono definirsi i titoli più importanti di una cinematografia che, attingendo alla canzone popolare, ai locali romanzi d'appendice e alla classica sceneggiata napoletana, designavano sulla pellicola (sottoposta ad una innovativa tecnica di colorazione ) "una trattazione filmica delle disagiate condizioni sociali di intere sacche di popolazione, tra povertà, malattie e sciagure morali".
Nei lavori della Dora-Film la città di Napoli si presentava come il palcoscenico di un realismo dal basso, i cui protagonisti potevano vivere grandi passioni e sentimenti ma, al contempo, essere vittime o esecutori di violenze e malefatte. Per questa impostazione realistica che metteva allo scoperto un contesto urbano e sociale piuttosto malandato, il cinema della Notari, oltre ad essere deprezzato e tacciato di volgarità dalla critica, venne osteggiato dalle istituzioni fasciste intende a propagandare con la settima arte (e la cultura in generale) una ben altra e rassicurante immagine del Paese.
Invisa dal regime la Notari fu costretta a ritirarsi a vita privata nella casa paterna di Cava dè Tirreni, ma a lei che ha portato sullo schermo il dramma di creature fascinose ma indifese, "storie di abbandoni, gravidanze illegittime, soprusi e violenze", va dato atto di aver praticato, seppur inconsapevolmente, un antesignano ruolo di militanza di donna impegnata dentro una società (e in un'epoca) a forte dominio del maschio .
"La film di Elvira" Edizioni Cactus Film CinemaSud, 2016. pag.156, euro 10,00.
30 ottobre 2016
28 ottobre 2016
"Un giorno come pochi, il giorno che è" di Ilaria Stabile
![]() |
Robert Doisneau |
….a volte succede
che, quando incontri il bello, il buono, ogni cosa ti sembra più netta,
distinta, il bianco dal nero, il bene dal male, il sorriso dal pianto, te
stessa dal resto del mondo. D'improvviso. E senti che, ancora una volta, sei
cresciuta un po’ di più. Senza volerlo. Senza cercarlo. Dal buono e dal bello,
si impara tanto. Impari la chiarezza, la libertà e la fiducia, impari la natura
del legame, ciò da cui può nascere, la cura che chiede, la lealtà che pretende,
i contatti di cui vuol nutrirsi, le differenze con cui può vivere e i dolori
che può tollerare. Impari un modo nuovo di raccontarti il passato e un nuovo
modo di guardare negli occhi il presente, le persone, le cose e il mondo che si
muove; impari ad accogliere i desideri dimenticati e, forse, ne avverti di
nuovi e impari a non aver paura del futuro, ad aspettar che sia lui a darti le
risposte, senza pretenderle, senza temerle. Non so bene cosa sia.
So però che il
dolore, la delusione, il tradimento, talvolta, rischiano di ammazzarti,
ammazzare i tuoi desideri, le tue illusioni, le tue fantasie, i tuoi pensieri,
le tue certezze, ammazzare te. Il dolore, la delusione, il tradimento vogliono
e riescono, a volte, a spogliarti del tutto fino a lasciarti nuda. Nuda, a
chiederti senza riuscire a parlare: "Come? Perché? Ed ora?". E….e….e
dopo c'è soltanto una reticenza e dei puntini sospensivi che dicono quanto è
lunga la via della ricostruzione, lunga, faticosa e piena di respiri mozzati,
affanni, frammenti e tagli. Ma i puntini sospensivi, io lo so, diventano linee
prima o poi, il tuo respiro finalmente è libero e il passo si fa più veloce,
ora che un nuovo terreno senti sotto di te, a riprendere un passo chissà quando
interrotto . I buchi vengono riempiti e le illusioni sparite cedono il posto ai
desideri di vita.
Tanto tempo fa, c'era
un sorriso, forse troppo ingenuo e sempre aperto, confuso e cangiante. Poi
arrivò il crollo delle illusioni e, ahimè, quel fragile sorriso sembrò
andarsene e mai più poter tornare, in un campo in cui a giocar con furono
rabbia, paura e impotenza e loro... quando giocano, caricano duro!
No. E' questo
l'incanto. Un brutto incanto. Solo un brutto incanto, fatto da una maga
maldestra che colonizza mente, corpo e spirito. La maga della vita, però, è
maldestra perché, in fondo, ci vuol bene! Sembra maldestra ma la sua è
saggezza, sembra cattiva ma la sua invece è fiducia, fiducia in te perché sa
che sarai proprio tu a rompere il suo incantesimo, a prender la sua bacchetta
magica e a trasformare tutto.
Il sorriso allora
torna, torna sempre ma non uguale. Torna fermo, serio, fisso. Fisso a guardare
negli occhi il mondo. Perché allora saprà ciò che per cui sorride, cosa
guardare e soprattutto cosa volere guardare.
….e viene un giorno
in cui la nostra maga maldestra sorride con noi, contenta di esser stata
sconfitta, contenta di non esser lasciata da sola. Sara contenta perché vedrà
che, assieme, noi e la vita, avremo creato l'illusione più vera di tutte. Noi
stessi.
Ed ecco che arriva un
giorno come pochi, il giorno che è.
Grazie ai nostri
crolli, ai nostri nuovi sorrisi.
17
Agosto 2016
17 ottobre 2016
"La stella polare del signor Egli" di Alberto Guareschi
di Luciano Luciani
Grande viaggiatore nei luoghi della geografia, della memoria e della letteratura, Alberto Guareschi continua a dipanare il racconto in versi delle sue esperienze umane e culturali già iniziato una dozzina di anni or sono con la raccolta poetica Teatrini del signor Egli (Diabasis, 2004) e continuato oggi, elaborando un'originale mappa di territori nuovi e già battuti, esperienze reali e fantastiche, amicizie e amori, letture, citazioni e criptocitazioni dei Maestri amati: Leopardi, Proust, Beckett, Eliot, Hӧlderlin...
Titolo della sua ultima silloge Stella polare: un astro importante nella simbologia di tutti i tempi, punto di riferimento astronomico e metaforico di navigatori, carovanieri, nomadi ed erranti di ogni tempo e ogni tipo.
Anche in questa silloge l'Autore mantiene il suo "alter ego", il signor Egli, già protagonista del libro precedente: un personaggio sempre incerto, spaesato disorientato, che, come ha scritto un recensore, "deambula, oscillando come Monsieur Hulot". Deluso dal passato - "il patatrac di tutte le chimere" - e sospetteso della contemporaneità e delle sue conseguenze - "non voleva saperne il signor Egli/di tuffarsi nel web" - consegna ad Ariele, suo figlio, un messaggio esistenziale perennemente problematico e privo di certezze.
E lo fa in un dettato poetico limpido, colloquiale, pacato: il tono non si alza mai, la voce del poeta non risulta mai né acuta né stentorea e neppure si abbassa nell'uso accattivante del dialetto o degli inserti gergali, mantenendo sempre un'estrema misura e sobrietà dei propri mezzi espressivi.
Così affastella sogni e ricordi familiari, nostalgie di amici e riflessioni, partenze per viaggi mai programmati e ritorni non privi di un senso di delusione e disinganno.
Un filo sottile di ironia sovraitende a tutte le scelte del lessico e delle immagini, e quasi in ogni testo compare l'uso del contrappunto, il ricorso al controcanto di incisi, parentesi in corsivo in cui il signor Egli rivela il proprio pensiero profondo, improvviso e chiarificatore, da portare assolutamente sulla carta.
Monologhi, soliloqui apparentemente lievi, leggeri, i testi di Guareschi, ma provvisti di un nocciolo duro dai bordi slabbrati e taglienti: la percezione della solitudine dell'uomo contemporaneo, la sua paradossale resistenza all'oscuro destino di annientamento che lo sovrasta, una visione certo non ottimistica della condizione umana. Contravveleno necessario la fede imperterrita nella poesia e la sua ricerca, ragione ultima e "stella polare" dell'esistenza.
Nato a Parma, Alberto Guareschi vive da tempo a Lucca. Dirigente d'azienda, è stato tra i fondatori di Pratiche Editrice. Importante la sua attività di traduttore dal tedesco e dal francese di autori classici e contemporanei. Precedenti pubblicazioni poetiche: Verso Cipro, Guanda, 1963 e Teatrini del signor Egli, Diabasis, 2004.
Alberto Guareschi, Stella polare Poesie Lettere in versi Teatrini, Passigli editore, pp 122, Euro 14,50
12 ottobre 2016
"Questo è il mese dei radiosi incarnati del suolo" di Anna Laura Longo
di Annalisa Ciampalini
Leggere la raccolta di Anna Laura Longo,
pianista, artista visiva, saggista e poetessa, è stato coinvolgente,
impegnativo e molto interessante. Non è una lettura che inizia e finisce una
volta per tutte: questo perché i testi sono densi e includono aspetti che si
svelano gradualmente. In superficie sembrano non offrire spazio alcuno
all’esperienza umana, come se gli innumerevoli movimenti che si collocano
all’interno dei versi fossero totalmente indipendenti dalla presenza dell’uomo.
Ma, come dicevo, questo è quello che appare in superficie, perché il genere
umano è invece contemplato attentamente, studiato soprattutto nei sensi, ma
anche nella mente, in quanto responsabile del lavoro dei
sensi.
La raccolta può anche essere letta come scrittura di una ricerca che
vede tra i suoi fini quello di trovare una modalità per enfatizzare i sensi e di
stabilire corrispondenze tra questi.
Leggiamo infatti: “Un prolungamento del suono sfiora il collo adunco, / confluendo in un
cardigan/ ricercando luoghi di acerbo e vivo ristoro”. Versi da cui emerge
un suono potenziato, che diventa capace di sfiorare e
di ricercare.
Non solo: quello che emoziona nel processo
di scoperta delle poesie è che il possesso di una chiave di accesso alla piena
valorizzazione dei sensi, ma anche del pensiero, possa condurci verso una conoscenza
profonda del mondo, oppure verso una concezione nuova e appagante della
struttura che ci ospita e ci sovrasta.
A questo proposito possiamo riportare i
seguenti versi: “Segni di permutazione e
voli in crespi sentieri, /strabordanti aneliti per snodi vocali accesi/nei cui
larghi sfondi si ergono/evidenti forme di quasi-pendii/(ed inarrestabili sogni
avvenenti/come ululati). Tempo inverso/del segmento /se//ripescando il fluido
azzardo/il corpo mieteva e vellutava il giorno/di sapiente e inedita levità
aurorale.“
” Gli
esploratori si addenseranno acuti/ sulle presunte linee della scissione:/
indolore è il passo nel dibattito del rinnovamento.”Ecco
i versi di apertura della silloge.Certo la parola esploratori è specifica per
indicare l’atteggiamento di chi impara sperimentando. Gli esploratori sono
descritti acuti e hanno come ambito di
ricerca le “presunte linee della scissione”.
Mi piace leggere in questi tre
versi un auspicio rivolto a tutti i lettori, affinché possano procedere,
tramite i versi che seguiranno, lungo il cammino impervio ed emozionante di una
ricerca che porta alla conoscenza. La ricerca, condotta in modo personale,
creativo e sempre dinamico, è quindi un punto importante da cui la poesia di
Anna Laura Longo trae linfa vitale.
Riportiamo a questo proposito i versi
seguenti “Nuove impronte si
susseguono/armate di verticalismo. C’è un chiarore/nelle fenditure del manto
della conoscenza.” E pare che le cose da indagare siano contrassegnate da un
alone particolare, ai lettori sta individuarlo e osservarlo con i sensi attenti,
pronti a permutare tra loro.
I testi, mai facili, sono stilisticamente
ricercati, il suono delle singole parole sembra esser frutto di una scelta
accurata, ed è proprio grazie alla loro caratteristica sonora se esse si stagliano
con regalità all’interno del verso, quasi fossero indipendenti l’una dall’altra.
Ho avuto l’occasione di sentire alcune poesie lette dall’autrice stessa, ed è
difficile prescindere da questa emozionante esperienza nell’intento di parlare
della raccolta. È come se una voce prendesse vita da un territorio remoto, una
voce senza tempo e che riempie ogni luogo, che deve essere udita per forza.
Sembra
però che nessun essere umano possa prestare ascolto a una voce tanto sublime e
assoluta, che pertanto viene percepita unicamente come suono. D’altra parte,questa
importante caratteristica, si avverte anche attraverso una semplice lettura dei
versi, grazie al lavoro accuratissimo operato dell’autrice. Versi come “In auscultazione il corpo giungeva/commensurabilmente urtato da onde/
nella promiscua e intrepida sismicità del mare/” ne sono testimonianza.
E
ancora: “Dentro sfusi capelli assidui/ o
nei corsi d’acqua/ si riamalgama il Tempo, /versa suoni maturi. “
“Questo è il mese dei radiosi incarnati del
suolo” è una lettura impegnativa che lascia al lettore un’ansia benefica e
vitale attraverso la quale perseguire una ricerca interiore e successivamente
rivolta verso l’esterno. È un esempio di coniugazione riuscita tra parola
poetica e un’indagine acuta tra le corrispondenze delle variabili che
definiscono la sfera di ciò che può essere percepito.
Anna Laura Longo. Questo è il mese dei radiosi incarnati del suolo.Oedipus. £ 10,00
11 ottobre 2016
2a postilla a “Psicoanalisi immaginaria di Frida Kahlo” di Riccardo Dalle Luche e Angela Palermo
abbozzo di una
fenomenologia della pittura di Frida Kahlo
di Riccardo Dalle Luche
“(…)
la carne in quanto sofferente, informe (…)
visione d'angoscia, identificazione di
angoscia,
ultima rivelazione del tu sei questo
– Tu sei questa cosa che è la più lontana da
te, la più informe.”
(J.Lacan, Il seminario
II, 1954-5)
Ermeneutica vs. fenomenologia nell’opera di Frida Kahlo
Il libro su Frida
Kahlo, scritto con Angela Palermo, è
principalmente il frutto di un procedimento ermeneutico che mette in luce come
nell’ormai celebre artista messicana la vita e l’opera si rinviino l’una con
l’altra, in un percorso di ricerca di un’identità che sembra ripetutamente sul
punto di collassare ma che, grazie alle risorse creative e di personalità di
questa donna straordinaria, si ricostituisce in forme sempre nuove. Il nostro lavoro ha anche consentito di
identificare nell’opera la commistione di elementi consci e inconsci,
apparentemente inconciliabili, che sorreggono l’impianto “surrealistico” della
sua opera pittorica, per quanto commisto con numerosi altri generi e,
soprattutto, diversamente dalla maggioranza dei surrealisti, chiarificabile dal
lavoro interpretativo, cioè in buona misura riducibile alla logica del conscio.
Ma la forza e la importanza sia estetica che
euristica dell'opera di Frida può forse esser colta anche ad un livello del
tutto superficiale, che non necessita di alcuna interpretazione, quello della
rappresentazione esplicita di vissuti corporei estremi (fisici e emotivi),
riferibili immediatamente ad una integrità fisica e psichica in bilico sulla
catastrofe dello smembramento (sia corporeo che affettivo): insomma, nella soluzione insolita, anche se non del
tutto inedita, di rappresentarsi non
solo come corpo, come avviene in qualsiasi autoritratto, ma come corpo
e carne.
Senza questo
peculiarità espressiva Frida sarebbe stata assimilabile ad una
delle migliaia di artiste del mondo intero che, soprattutto negli ultimi
centocinquant'anni, con risultati spesso
eccellenti, si sono soffermate sul ritratto, l'autoritratto e la
rappresentazione del corpo femminile, senza con questo volerne oltrepassare i
limiti esteticamente fruibili. La pittura di Frida, invece, non è diventata
celebre in virtù delle qualità estetiche, minori, ad esempio, rispetto ai
quadri del celebre marito, Diego Rivera, molto più belli dei suoi, ma anche
molto più scialbi, perché privi di spessore, di significato (se non ideologico
e propagandistico), e soprattutto privi del potere che l'arte di Frida ha in
massima misura: la capacità di stupire, di inquietare, di perturbare, di farci
soffermare a riflettere. Questa qualità essenziale della pittura di Frida
deriva dal fatto di introdurre così spesso, soprattutto nei momenti
emotivamente più difficili della sua vita,
la rappresentazione del proprio Sé lacerato, smembrato, proprio
attraverso la commistione della rappresentazione del corpo e della carne.
Vedremo in dettaglio nei vari quadri come ciò avviene. Diciamo però subito che tre
sono le modalità di Frida di rappresentare la carne:
a)
la prima è quella di dipingere e mostrare le
parti corporee connesse alle funzioni vitali e alla riproduzione della vita ,
che di regola sono mantenute fuori scena (sono “oscene”) ed estranee alle
finalità dell'estetica, tanto che quando compaiono in superficie determinano
l'imbarazzo dello sguardo dell'osservatore, se non la ripugnanza, come è
accaduto e tutt'ora accade a quadri perturbanti come L'origine del mondo
di Courbet, alle foto degli organi
genitali di Mapplethorne, ai sessi femminili giganteschi di Mattia
Moreni;
b)
il secondo modo è quella di mostrare gli organi
del corpo, cuori, arterie, sangue,
colonne vertebrali, bacini, uteri con feti, con una precisione anatomica
e naturalistica impeccabile ma disgiunta totalmente da finalità conoscitive o
didattiche mediche; questi organi interni sono incongruamente visibili alla
superficie corporea, oppure sono completamente distaccati e dislocati dal corpo
a cui appartengono, sia fisicamente che nei loro significati simbolici;
c)
una terza
apparizione della carne in Frida, in due quadri appartenenti a due periodi
diversissimi, è quella legata all'alimentazione carnivora, carni morte o già in
putrefazione: nel primo quadro (Il mio vestito è appeso là, 1933 )
questa massa sanguinolenta ed informe appare in un bidone dell’immondizia ad
indicare l’opulenza società americana (rispetto .a quella messicana), e destinata
allo spreco e all’evacuazione (in questa direzione va il modernissimo w.c.
sorretto dalla colonna).
Nel secondo (Senza speranza, 1945), relativo al
periodo di anoressia e depressione sofferti da Frida, la stessa massa, nella
quale si riconoscono teschi, polli, sfilze di salsicce, pesci morti, brandelli
di carne informe che stravasano dall’enorme imbuto infilato nella sua bocca, è
un’iperbole dell’alimentazione forzata e del vissuto dell’anoressica, per la quale
gli alimenti non sono fonte di vita ma di ripugnanza e orrore, oggetti
fobici : un quadro che in una sola immagine compendia tutti i vissuti dei
soggetti che oggi si curano per i cosiddetti disturbi alimentari, anoressie di
varia natura e/o forme di restrizione
alimentare vegetariane, vegane o ortoressiche.
Abbozzo di una fenomenologia della carne
Se la fenomenologia del corpo ha una sua ricca tradizione
novecentesca, generata da Husserl e dai suoi discepoli, basata sulla
distinzione spesso poco chiara e banalizzata tra corpo soggetto/corpo
persona/ corpo proprio (Leib), e corpo oggetto/corpo cosa/corpo fisico (Körper)
(Galimberti), molto più scarna, ci sia scusato il gioco di parole, è la
letteratura fenomenologica sulla carne.
Tolto Michel Henry, che,
sulla scia di Husserl, Sartre e Merleau-Ponty,
tenta di impostare un discorso rigorosamente fenomenologico
dell'incarnazione, anche in senso religioso, ho trovato rilevanti riflessioni
sulla carne soltanto in un autore eccentrico, un neurologo e uno
psichiatra, sia pure di rigorosa formazione fenomenologica, come Lorenzo Calvi,
e in alcuni spunti di Lacan e dei suoi epigoni tardivi come Giancarlo Ricci. In
occidente il pensiero sulla carne ha comunque due, fondamentali e vetuste
radici: quella cattolica e quella anatomica e organicista (entrambe ben
presenti nell'opera di Frida Kahlo), che spesso si introducono occultamente o
implicitamente in molti dei discorsi dedicati al corpo.
Calvi osa timidamente, in una nota ad un suo scritto,
esternare il suo pensiero definitivo sulla carne come “terza epifania della corporalità”, accanto al corpo oggettivo, anatomico e
organico ( Körper) e al corpo soggettivo o corpo vissuto (Leib):
del primo ha l'anonima, del secondo l'irrealtà: “Sul piano eidetico, la carne è
l'intuizione del magma fecale e viscerale. Sul piano ontologico, è lo stato
originario, preintenzionale e pretematico del corpo, di cui, nella cultura
occidentale, conosciamo la tematizzazione della tradizione giudaico-cristiana
con tutto il suo correlato di impurità e di pesantezza, di peccato e di colpa.
Nei disturbi mentali si ha consumo del Leib a opera della carne”,
mentre, potremmo proseguire noi, nelle malattie fisiche principalmente si ha
consumo del Leib ad opera del
corpo fisico (Körper): si ha, cioè, la consunzione
del corpo perché l’organismo è malato. Se il Körper, cioè, è
qualcosa di ben identificabile, secondo l’ottica meccanicistica, la carne
è “informe”, “un brandello di materia
che vive da sé”, “un organo senza corpo” (Ricci), e si sottrae quindi ad un logos
scientifico ed è piuttosto il frutto di una riduzione fenomenologica,
immaginaria, attuata dal soggetto, sulla
base di ciò che “sente”, “percepisce” (nel piacere e nel dolore), ma che non sa
e non può definire.
Se la proprietà del corpo/Körper , oggetto immediato
ed esclusivo dell’attenzione e dell’opera della maggioranza dei medici, è
quello di “funzionare” (ad esempio avendo organi sensoriali integri), quello
del Leib è di “provare” in modo preciso o comunque definito, quello
della carne è di sentire, godere, dolere in modo diffuso, difficilmente
definibile e non memorizzabile (non mentalizzabile): i godimenti viscerali, ad
esempio quelli sessuali, sono maggiori, nella loro oscurità, di quelli della
pelle e del gusto, i dolori viscerali sono molto più insopportabili di quelli
cutanei o degli arti, proprio per la loro mancanza di localizzazione precisa,
di identificabilità. Fenomenologicamente infatti, scrive Henry, “la carne si
lascia descrivere come carne affettiva –non essendo che quella, una carne
vivente che sente e prova se stessa in un’impressionabilità e una affettività
consustanziale alla sua essenza” (p. 174). Se per i mali del Körper ci si può rivolgere ad un medico, per quelli
del Leib si sanno cause e motivi,
i piaceri e i dolori della carne non si possono che subire. E’ per questo potenziale di
spossessamento della volontà e dell’identità, di definibilità e trasparenza,
che la carne è così regolarmente fonte di angoscia ed entra o alimenta così
prepotentemente in quelli che definiamo “disturbi psichici”.
Vi è poi un livello
“intermedio” di manifestazione della carne, là dove essa si affaccia alla
superficie del corpo (cavo orale, genitali e ano), creando le cosiddette zone
erogene. Si può dire che l'intera fenomenologia dell'amore potrebbe fondarsi su
questa proprietà della carne di manifestarsi all’esterno e di sentire in
virtù della presenza di un altro che, per la sua capacità di far(si)
sentire, può diventare l'Altro, unico e insostituibile: l’amato. Non a caso
detti e precetti tradizionali e religiosi indicano nella “comunione della
carne” l’essenza del matrimonio, nei “peccati della carne” l’oggetto del vizio
capitale della lussuria, della “compatibilità del sangue” l’essenza di
un’unione sessuale felice. D’altro canto quando, per un traumatismo,
l'involucro cutaneo si lacera, compare quella che il linguaggio comune chiama
“la carne viva”, proprio per metterne in risalto l'estrema sensibilità. Se la
rappresentazione delle ferite e del martirio ha tutta una sua tradizione nella
pittura sacra (martirio di Cristo e dei Santi), ed anche nella importante
quanto poco valorizzata tradizione degli ex voto, tutti gli aspetti carnali
dell’amore, oltre ad essere stati per millenni identificati come elementi di impurità
e di interdizione da buona parte delle religioni, appartengono alla sfera
dell’”antiestetico” (Ricci) , dell’osceno, del non guardabile, del non
rappresentabile; sono proprio questi infatti i soggetti che indicano il limite
tra rappresentazione artistica e rappresentazione pornografica (che da questo
punto di vista può essere considerata un tentativo disperato di padroneggiare
il potere angoscioso della carne).
Come si è detto, invece,
la carne, gli organi interni, gli organi genitali e il sangue fanno la
loro apparizione impudica e assolutamente naturalistica nei quadri di Frida
Kahlo in entrambe le sfere: quella sessuale/sentimentale (sfera del sentire
piacere o mancanza di piacere o della mancanza tout court) ed in quella
delle lacerazioni traumatiche (sfera del sentire dolore), a partire dai due
quadri che si riferiscono all’aborto del 1932 (Il letto volante e Frida
e l’aborto), in particolare il primo dove gli organi interessati all’aborto
sono estroflessi al corpo sanguinante di Frida come connessi da fili-capillari.
Ne La mia nascita,
dipinto dopo l’aborto e la morte della madre, Frida partorisce se stessa adulta
in una rappresentazione cruenta e
veristica del parto, forse la prima nella storia dell’arte.
L’estroflessione
degli organi, ad esempio del cuore, in Memoria del cuore del 1937 è in
altri quadri connesso ad un’imago corporea ridotta alle semplici vesti , ad un
uro simulacro vuoto, privo di ogni interiorità, privo di carne.
Ne Le due Frida
entrambe hanno il cuore ben in mostra al centro del petto, ma uno è integro,
l’altro è sezionato in due cosicchè la seconda Frida è tenuta in vita da una
sorta di circolazione extracorporea che parte dalla prima e può solo pinzettare
un’arteriola per evitare la definitiva emorragia.
Il sangue cola dai
soggetti dipinti fin sopra le cornici sia in Qualche colpo di pugnale
(1935) che ne Il suicidio di Dorothy Hale (1938-9). Nei bellissimi ,
tardivi disegni, Autoritratto come una vulva (1947 e Il fenomeno
imprevisto (nel Diario) sono invece i genitali a proporsi in primo piano:
in particolare nel primo, si propone una totale identificazione del Sé col il
proprio sesso, la propria carne, il proprio sentire, la propria Natura. Infine,
è nel celebre La colonna rotta (1944) che Frida si mostra ancora una
volta come mero sembiante corporeo vuoto, sostenuto da una colonna
vertebrale/colonna dorica, spezzata.
Si può quindi dire che, accanto ai molti autoritratti nei
quali, pur nel contesto di simbologie e allegorie, sono il corpo o il volto ad
essere al centro della rappresentazione, inserendosi a pieno diritto nella
tradizione della ritrattistica, sono molti i quadri in cui questa tradizione
viene rivoluzionata, perché la rappresentazione del corpo va di pari passo con
la rappresentazione della carne, o, come nel caso dei simulacri vuoti, della
sua assenza. Si può dire che i confini corporei di Frida appaiono o permeabili,
o trasparenti, o svuotati di ogni consistenza, in un gioco espressivo che
mostra, appunto, la centralità, se non il ruolo sovrastante, che la carne ha
nella sua vita a sostegno o, al contrario, a minaccia della sua identità. La
carne è, fenomenologicamente, l’a-priori del soggetto (Calvi), ma la carne di
per sé non ha soggettività, è assenza di soggetto (Ricci). In quanto tale è la
minaccia maggiore all’identità soggettiva alla quale possono andare incontro
gli esseri umani dopo un trauma o per una malattia (anzi si può dire tout
court che la percezione della carne è traumatica, e per questo mette in marcia tutta una
serie di disturbi ansiosi, fobici, ossessivi, post-traumatici), ma, come nel
caso di Frida, è anche la risorsa attraverso la quale ri-soggettivarsi,
ripartendo dalla matrice informe ma vitale del Sé: ad esempio attraverso il
sesso, com’è successo a Frida e come ampiamente diciamo nel capitolo del libro
sull’immaginario post-traumatico.
Frida Kahlo e la tradizione della carne nell’arte
E’ chiaro che l’aver intrapreso gli studi medici e aver
studiato anatomia (progetto fallito solo per l’evenienza dell’incedente, dal
quale Frida è uscita con l’identità di pittrice), non può non aver influenzato
queste particolarità espressive. Del resto, a parte la tradizione
rappresentativa del martirio di Cristo o dei Santi, ed il breve periodo della
moda delle nature morte con animali morti e pezzi di carne, è proprio in campo
medico che si è avuta la rappresentazione para-artistica della carne, sia pure
attraverso la mediazione del corpo/körper, ad esempio negli atlanti di
anatomia ma, soprattutto, nei preparati anatomici in cera , veri capolavori
artistici sia pure con finalità didattica, realizzati tra il 1775 e la metà
dell’ottocento da vari modellatori come Clemente Susini, che si possono ancora
oggi ammirare ad esempio al Museo di Scienze Naturale di Firenze. Ancor prima
il maestro ceroplasta Zumbo aveva immortalato i cadaveri degli appestati e i
pittori olandesi dipinto le dissezioni anatomiche (Rembrandt: La lezione di
anatomia del dottor Tulp, 1632 e
quella meno nota “del dottor Leyman “, 1656; ma anche Michiel van
Mierevelt, la Lezione di anatomia del dottor Willem van der Meer 1617),
nelle quali alla rappresentazione del corpo del cadavere si affianca la
rappresentazione degli organi dissezionati, della carne di cui è fatto il
corpo.
Contrariamente al tema dei cadaveri e nei morti che non ha
mai cessato di avere i suoi cultori anche nell’800, tra i quali anche il
Courbet autore di L’origine du monde (Lopopolo 2016), la carne ha
trovato di nuovo la possibilità di esprimersi nella grande arte solo nel ‘900,
ad esempio nell’opera di Herbert Boeckl, che negli anni ’30 riprende i quadri
sulle lezioni anatomiche in chiave moderna, esaltando gli aspetti più
raccapriccianti,
oppure in Sex
murder, di Otto Dix, così simile a Qualche colpo di pugnale di Frida
Kahlo,
Vicino a certe opere
di Frida, possono essere considerate
alcune figure di Francis Bacon, nelle quali la deformazione del corpo allude
all’esposizione della carne oppure dei tratti animali del corpo, come nei Tre studi per la crocifissione
(1962), nei quali, in una sorta di escalation, si passa dalla
rappresentazione dei corpi a quella della carne sanguinolenta ed infine ai
pezzi di macelleria.
Last but not least dobbiamo solo ricordare, ma questo
aprirebbe tutto un altro discorso, come la carne abbia una sua
importantissima rappresentazione nella storia del cinema, non solo perché è
alla base del sottogenere splatter (che significa spargere sangue) del
genere horrror, ma anche perché più di recente anche autori importanti
come Cronenberg, Greenaway, Lars von Trier e Kim Ki-Duk in varie loro opere
hanno voluto recuperare la potenza estrema del dolore e del piacere della carne
per “far sentire” allo spettatore cinematografico, per la prima volta, il
potere della visione di immagini verso le
quali normalmente tutti noi ci difendiamo drasticamente.
In Frida, cha a
questo punto dobbiamo considerare un’antesignana anche su questo punto, la
rappresentazione della carne è connessa intimamente alla rappresentazione di sé
e dei propri vissuti, del corpo, delle funzioni e dei vissuti delle donne, di
tutte le donne; il carattere perturbante delle sue apparizioni è in qualche
modo addolcito dal percorso di decifrazione ermeneutica, che le individua come
basi corporee di un ragionamento che si potrebbe anche definire, in senso lato,
fenomenologico o, forse, filosofico tout court; ed è questo che fa della
sua opera un unicum, non solo nel campo della storia dell’arte, ma anche
della fenomenologia del corpo.
Bibliografia:
Calvi L.: La carne, la scelta, l'epoché. In: Calvi L.: La
coscienza paziente, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013, pp. 33-43.
Galimberti U. (1983): Il corpo.- Freltrinelli, Milano.
Henry M.:
Incarnation. Une philosophie de la chair. Seuil, Paris, 2000.
Lopopolo D.: La morte nell’arte. Astenersi impressionabili.
http://www.spettakolo.it/2016/03/28
Ricci G.: Il corpo e la carne. Sui disegni di Francesca
Magro. www.giancarloricci.net/il-corpo-e-la-carne/
2016
08 ottobre 2016
Leggendo "Psicoanalisi immaginaria di Frida Kahlo" di Riccardo Dalla Luche e Angela Palermo
di Lucia Del Sarto
Grazie agli autori, Angela Palermo e Riccardo Dalle Luche, per il viaggio che mi hanno portata a fare dentro di me.
La vita non è solo esteriorità, è sopratutto interiorità, per essere poi...esteriorità.
… Frida kahlo....
Dai colori sgargianti e da quell'espressione magnetica e penetrante, quanto distaccata.
Forze contrapposte giacciono in lei da renderla tanto fragile quanto forte, in quella espressività viva che non aspetta altro che essere riversata al di fuori di sé.
Un corpo torturato dal dolore, dalla sofferenza, fa da contenitore a energie vitali spumeggianti, quanto demoralizzanti.
Una Vita piena di Contrasti di alti e bassi, di amore e di odio, di ombre e di luce, di colore, tele, ritratti di pezzi di vita.
Quella vita sentita e goduta, con quella necessità di maternità andata più volte non a buon fine, da smorzare quell'energia quasi mascolina, acuta e penetrante.
Avere in grembo un figlio di Diego era forse per lei come possederlo appieno.
Per poi, chi sa, alla nascita vederlo come una sua estensione, da renderla appagata e rassicurata per sempre.
Tutto era visto in relazione al suo amato diventandone parte, come un radicarsi nell'altro... per questo sofferente ad ogni suo allontanamento, da sentirsi un nulla.
Quel nulla che poi alla fine diventa tutto.
Vivere in relazione dell'altro, ma anche amori passionali per entrare sempre più in contatto con quella parte forte e sana, che la renderà in seguito più libera. Rovesciando i ruoli dei due protagonisti.
Tutto ciò che accade nella vita ha un suo significato, anche se a volte non lo comprendiamo.
Lei è riuscita a far tesoro di tutto il suo vissuto senza rimpianto, e a trasformarlo in potenzialità.
Ogni cosa portata all'extremis, come essere legata a un doppio filo da non riconoscere più la sua vera natura, confondendo quella linea che separa il sonno dalla veglia, il giorno dalla notte, il bianco dal nero.
Un viversi attraverso la grande personalità di Diego, standogli al fianco per inondarsi, e colmare quei vuoti che, se non fosse stato così, forse, non sarebbe stata in grado di far uscire tutta la sua originalità, tutte le sue sfaccettature portate fino all’esasperazione.
E lei dove era...
Forte e fragile...
Nella sofferenza ci si focalizza ancor di più nella situazione, identificandoci a tal punto da non vedere e riconoscere l'opportunità di intravedere la propria zona di ombra, accettandola.
Il trauma avrà fatto questo, avrà riportato in luce in lei questa parte che gridava di esser vista e vissuta?!...anche se in modo forzato dovuto allo shock subito...non so, pensieri che vagano ad alta voce.
Sarà da tutto ciò che è scaturita quella forza e intelligenza acuta ed emotiva, che le ha permesso di riprendere in mano totalmente se stessa, anche attraverso i suoi dipinti.
Si parla di punto zero, di un nuovo inizio, di un ricominciare, di un nuovo punto di partenza dato dal trauma, dalla lunga sofferenza imposta e forzata dallo stato fisico.
Un po' come dovrebbe capitare nella vita davanti alla sofferenza. Ci dovrebbe essere sempre qualcosa da comprendere, da imparare, se no, la sofferenza di per sé non avrebbe ragione di esserci...a parte quella fisica.
Un nuovo rivedersi...chi sa se inconsciamente volesse proprio questo.
E quando non riusciamo coscientemente a realizzarlo, l'esistenza mette in moto per noi eventi anche disastrosi, in modo che prendiamo coscienza sul da farsi.
E come leggiamo nel libro, lo star bloccata nel letto può dare la possibilità di vedere e rivedersi, riflettere per rinnovarsi.
Rinnovamento forse portato all'estremo per le sue condizioni fragili precarie, facendole pensare che la vita è una, e breve....da rincorrerla quella vita, assaggiarla in tutte le sue parti, con tutta se stessa, e oltre...
L'insegnamento di vita sarà forse questo. Distaccarsi dalla manipolazione e dai bisogni per colmare vuoti affettivi.
Che cosa è, infatti, la vita se non un alternarsi di alti e bassi, per poi ad un tratto trovarsi in quel mezzo che chiamiamo equilibrio, dove giace la saggezza di colui che sa, che si è lasciato vivere e morire più volte.
07 ottobre 2016
"Psicosi delle 4.48" di Sarah Kane diretto da Giorgia Filanti e Enrico Morcacci
di Silvia
Chessa
Giorgia
Filanti ha debuttato, con il testo Psicosi
delle 4.48 (di Sarah Kane), diretto da lei stessa con Enrico Morcacci, il
19 Settembre, al Teatro Lo Spazio, di Roma.
Sull'opera
di Sarah Kane, è doveroso spendere due parole, per coloro che, come me, non la
conoscevano abbastanza bene fino ad oggi (o non la conoscono affatto), malgrado
la sua diffusione ed i riconoscimenti ufficiali che ne attestano la grandezza e
specificità.
Sarah Kane,
scrittrice e drammaturga britannica, è autrice di cinque testi teatrali, dei
quali, questo, "4.48 Psychosis", è, a buon diritto, considerato il
suo testamento spirituale ed è, di fatto, un sogno-delirio incubo dove si assaporano
e si scandagliano le sue visioni, fobie, allucinazioni .. quelle di un'anima
devastata e di una mente dissociata con lampi di rovente lucidità.
Poemetto
dolorosissimo, dunque, e massacrante che suscita di solito reazioni estreme, in
quanto è pertugio aperto sulla sensibilità di Sarah ma, in generale, sul
panorama contemporaneo della psicosi (Sarah Kane è morta, suicida, a 28 anni,
nel 1999).
In questa
opera ella ci appare ora bambina, vulnerabile, indifesa, preda di autoaccuse,
ora rabbiosa e violenta come una erinni, protagonista di un attacco al mondo
delle convenzioni, delle falsità. - (“Ti ho creduto, ti ho amato, non è
perderti che mi addolora,quanto le tue fottute stronzate mascherate da
annotazioni mediche”)-, e degli orrori
vari ("il fantasma maligno della morale comune"); orrori che forse
uccidono più delle private delusioni alle quali non sappiamo dare soluzione o
convivibilità ("sono un fallimento come persona", "sono
colpevole", "vengo punita") e di certo acuiscono lo stato di
estrema sofferenza di un'anima che già patisce di suo (l’abbandono da parte
della persona amata… l'estenuante ricerca della figura paterna che, pur
assente, la compenetra e le è dentro, e non solo geneticamente o
epidermicamente: c'è senza liberarla, trasuda e impregna l'aria ma senza averla
mai abbracciata, cercata, protetta, inclusa nei suoi pensieri di padre vacante,
ma dalla figlia inseguito, interrogato in interiori dialoghi e domande..).
Si trapassa,
con la spada insanguinata di parole acuminate, e si radiografa, la Kane, coi
suoi occhi aguzzi e mordaci, in questo funesto testo. Poi, elegge il suicido, e
muore. Muore in un momento di massima energia e forza vitale - (“la pollastra
balla ancora, la pollastra non si ferma”). Forza che pervade le sue alte grida
a se stessa, frutto di un ego auto-ostile, e parimenti grida al mondo, altro da
sé ma altrettanto deludente, falso ed ostile.
Massima
vitalità, dunque, ma, allo stesso tempo, l'apice del negazionismo esistenziale,
radicale rifiuto delle convenzioni e manipolazioni del mondo in generale e
della scienza psichiatrica, in specifico (che le ripete come un mantra, senza
beneficio, il trito e ritrito "non è colpa tua", oppure le prescrive
veleni farmacologici atti ad ottunderle la mente)
Nella
versione teatrale proposta da Giorgia Filanti, sotto la direzione di Enrico
Morcacci, la scenografia si presenta essenziale, quasi di beckettiana memoria,
utile ad convogliare il fulcro dell'attenzione nel cuore del dramma.
Il senso di
inquietudine, cifra marcante dell'opera, è suscitato con immediatezza
acustico-visiva mercè la proiezione integrale del video del brano Chandelier, di Sia, laddove estetica e
contenuto (immagini, musica e testo) che evocano perfettamente spettri, abusi
(one two drink..) ed arcaiche paure
inscenate dalla prodigiosa talentuosità di una danzatrice bambina, la quale,
come un folletto impazzito, esplode il suo talento in una ambientazione tetra e
claustrofobica, potendo, altresì, vantare una espressività mimico-facciale
impressionante. Impressionante come ogni elemento di questo video, scelto
magistralmente per introdurre lo spettacolo.
Nel corso
della sua ottima performance, Giorgia ha caricato di rabbia la rabbia, di
dolore il dolore, di provocazione ogni provocazione, assumendo in sé e
scandendo ogni sillaba di un testo già forte che trasuda traumi e sofferenze,
ma anche punte di raro humour noir. -(“Non mi sono mai uccisa prima quindi non
cercate precedenti.”)
Ha speso
largamente ogni sua energia fisica, anche con ripetute corse attorno al
pubblico (additato, accarezzato ..coinvolto senza filtri e reso partecipe fino
all'inclusione nell'opera stessa); e, levandosi di dosso ogni pudore o riserva,
ha svestito ed incarnato rabbia e disperazione, allargando lo sguardo in
fissità deliranti accecate di lucida follia..
Affronta di petto la
questione. E la questione è: l'impossibile fondersi di anima e corpo, malgrado
il loro essere intrinsecamente connessi. La decisione di congedarsi dalla
esistenza e dagli altri (espressa in parole, parolacce, gesti estremi e finali ..) mista alla
richiesta, urlata, di essere, dagli altri, vista, guardata. Cosa che significa
essere accettata, riconosciuta, amata.
-"Vaffanculo,
vaffanculo, vaffanculo per rifiutarmi non essendo mai lì, vaffanculo per farmi
sentire una merda, vaffanculo per dissanguarmi di vita e d'amore, vaffanculo a
mio padre per avermi distrutto la vita, e vaffanculo a mia madre, per non
averlo lasciato, ma più di tutti, vaffanculo dio, che mi costringe ad amare una
persona che non esiste"-
..e poi..
-"Guardatemi
scompaio
Guardatemi
scompaio
Guardatemi
guardatemi
guardate"-
L'umanità,
oggi e sempre, è piena di creature sofferenti, malate nella mente oppure nel
corpo, ove mai si riuscisse a scinderli, creature, come la Kane, di acuta
sensibilità, le quali stanno scomparendo, ma, finché non lo sono, credo ci chiedano di non essere
invisibili, giacché l’invisibilità è morte peggiore di quella corporale, bensì
di essere viste, guardate, fissate bene, tenute a mente.
Il teatro,
sede di catarsi per eccellenza, rende possibile la catarsi dello sguardo
proprio nell’altrui e tangibile la metamorfosi della malattia, del singolo, e
della società (individuo e società che sono connessi, anch’essi, come corpo e
mente, ed, attualmente, sono ammalati entrambi).
La malattia
trasforma il corpo di una donna-emblema del male di vivere e della società
sconfitta, lo raggomitola, lo atterra, lo ingabbia nei suoi deliri kafkiani,
nel suo proiettarsi immaginificamente in uno scarafaggio
-
“Come
se fossi scivolata come uno scarafaggio sugli schienali delle loro sedie” - , poi ne attacca la mente, vi si insidia come
un tarlo, la percuote, la scuote febbrilmente..ma non del tutto, se quella
mente, colpevolizzata dalla società (che nega lo sguardo per dirigerlo altrove,
vergognandosi dei suoi membri, meno belli e sani, o cerca di acquietarli con
false paroline, vuote di vera comprensione), ancora si concede di disquisire e
puntualizzare le differenze fra similitudine e metafora, suscitando in noi
rispetto e tenerezza.
Come lo
suscita ogni apparente incongruenza o corto circuito emotivo.. la razionalità
che rema nel naufragio dell'irrazionale.
Una
performance teatrale, quella di Giorgia, coraggiosissima e viscerale, che
lascia giustamente scioccati (come si
dovrebbe prefiggere chi resuscita e rianima quest'opera), benignamente
'disturbati'.
Forse, se si
vuole trovare un motivo di perfettibilità alla
sua resa, avrei voluto assistere ad un grammo di malinconia, ad un
millimetro di cedimento, ad un barcollio della schiena, un bisbigliato, un impaccio imprevisto o disagio del corpo
(che è tonico, tutto nervi e scattosità come nel testo-testamento è esposto con
smaccata autoironia -"la pollastra ancora balla"- ..ma sappiamo anche
che sta destinandosi a scomparire...ed io lo avrei decomposto, argentato,
insomma trasfigurato per un attimo..); questo accorgimento avrebbe alluso ad una
vecchiaia precoce, che poi sarebbe la stanchezza del cuore, altro caposaldo
dell'opera, o il traballare di una volontà che sebbene granitica è pur sempre
umana dunque scalfibile, come ineffabile
e tremante è il dolore
-“tremo
senza ragione e inciampo nelle parole e non ho nulla da dire sulla mia
"malattia" che in ogni caso consiste semplicemente nell'essere
consapevole che nulla ha senso perché sto per morire”-
Ecco, forse, qui per rendere appieno tutta la gamma
delle emozioni coinvolte in questa tragedia contemporanea e struggente, da
togliere il fiato, ed al fine di ottenere un coinvolgimento totale e fatale,
toccando tutte le corde del pubblico, poteva bastare un incrinarsi della voce
dell’attrice protagonista..o qualcosa di tenero, vago ed incerto, atto a tradurre,
in atto, e compensare, ogni eventuale manchevolezza o intraducibilità di un
testo come questo, che si potrebbe al limite anche considerare come un’opera
compiuta ma mai rivisitata in quanto, essendo appena precedente alla morte
dell’autrice, non poté essere oggetto di perfezionamenti o rimaneggiamenti, da
parte dell'autrice stessa.
Piccoli
accorgimenti, semmai, da inserire in una lodevole interpretazione, che ho
trovato appassionante e coinvolgente, quasi spericolata, nel tuffarsi e
condurci, a picco, nel vortice di
delirio e dolore.
05 ottobre 2016
L'industralizzazione in Lucchesia 1880 - 1901 di Francesco Petrini
di Luciano Luciani
Libro di grande interesse storico questo Aspetti dell'industrializzazione in Lucchesia 1880 - 1901. Il volume, risultato della rielaborazione e dell'arricchimento documentario di un saggio dallo stesso titolo apparso trent'anni fa sul n. 5 di "Documenti e studi", semestrale dell'Istituto Storico della Resistenza di Lucca, mantiene tutti i caratteri che ne determinarono, allora, il generale apprezzamento. Soprattutto il fatto che ricerche di questo genere erano - e sono rimaste – piuttosto rare. A metà del secolo scorso si contavano sulle dita di una mano gli autori che avevano affrontato i contenuti, i processi e i protagonisti della rivoluzione industriale italiana: Corrado Barbagallo, Le origini della grande industria contemporanea (1750-1850)), 1929-1930; Roberto Tremelloni, Storia dell’industria italiana contemporanea. Dalla fine del ‘700 all’Unità, 1947; Antonio Fossati, Lavoro e produzione in Italia dalla metà del secolo XVIII alla II guerra mondiale, 1951 e, il più famoso di tutti, Rodolfo Morandi, Storia della grande industria in Italia, 1959: studi di storia economica che si erano poi riversati nella ricostruzione e interpretazione della nostra vicenda nazionale unitaria, con i lavori di Gerschenkron, Caracciolo, Cafagna, Romeo...
Sugli esordi della rivoluzione industriale di Toscana, aveva cominciato a lavorare fra la fine degli anni Cinquanta, lo storico marxista Giorgio Mori, che non aveva mancato di cogliere l’importante novità industriale-capitalistica rappresentata dallo Iutificio di Emanuele Balestrieri: “un grandioso stabilimento” lo definisce il Mori, che occupava un’area di 150.000 mq, di cui 20.000 fabbricati che dava lavoro alla fine dell’Ottocento a circa 1500 addetti alla filatura e alla tessitura, con l’istallazione di 10.000 fusi e 300 telai meccanici: una grossa novità, non solo sul piano provinciale e regionale, ma anche nazionale. Non va dimenticato, infatti, che in quel periodo, gli anni Ottanta del XIX secolo, la quasi totalità delle industrie tessili presenta - e presenterà ancora per alcuni decenni - caratteri spiccatamente agricoli. Manifatture importanti come quelle della seta e della lana, sono ancora frazionate in migliaia di piccole aziende domestiche con impianti artigianali e modi di lavorazione patriarcali; sono sparse nella campagna e sono servite da contadini divenuti solo occasionalmente operai e il lavoro artigianale-industriale è percepito come accessorio e pronto a essere disertato non appena le attività agricole e i lavori campestri lo richiedano.
Cogliamo meglio, quindi, tutto il peso e tutte le novità dell’iniziativa economica del Balestreri, così ben raccontata da Petrini che divide il suo lavoro in due parti: ”Vita e opere di un imprenditore”; “Aspetti della condizione operaia nel Comune di Lucca”.
Partiamo dal primo punto.
Chi è Emanuele Balestreri? È un uomo del Risorgimento, di seconda generazione risorgimentale; troppo giovane per la poesia, del nostro processo di unificazione nazionale - il ’48 ; il ’59, la spedizione dei Mille - in età, però, per la prosa risorgimentale: il difficile avvio dell’Italia unita; la dolorosa presa di coscienza dei suoi numerosi e gravi problemi: la questione meridionale; la questione sociale; la questione cattolica…
Genovese, volontario in marina a 20 anni, Balestreri torna claudicante dalla III guerra d’indipendenza. Liberale crispino, appartiene a quell’area politica che aveva abdicato rispetto alle aspirazioni repubblicane per abbracciare la monarchia e che, dopo il passaggio del potere della Destra alla Sinistra storica, era arrivata al governo del Paese, che avrebbe mantenuto sino al marzo 1896, all’indomani della tragedia di Adua con le definitive dimissioni del Crispi. Il tempo dello statista siciliano coincide, più o meno, col tempo dell’esperienza dell’imprenditore genovese e della sua avventura industriale a Lucca. Alcuni caratteri li accomunano: entrambi spregiudicati nei rapporti economici e politici, tutti e due autoritari e dirigisti costituiscono un mix di nuovo e di vecchio. Balestreri realizza un’azienda all’avanguardia per la modernità degli impianti (quattro motrici per fornire energia all’intero stabilimento; una lavorazione a ciclo completo, la luce elettrica per il lavoro notturno), ma vive con disagio tutti i vincoli propri di un rapporto col territorio e più in generale l’intero sistema delle relazioni politiche, sociali, culturali col Morianese e con Lucca. Per esempio, quando ha bisogno dell’acqua per le sue attività industriali, in maniera del tutto unilaterale se la prende, togliendola all’agricoltura e ai contadini della zona, dando vita così a un interminabile contenzioso col territorio, i suoi abitanti e i suoi rappresentanti. Una polemica insanabile che finirà per logorarlo anche presso i suoi stessi colleghi, quegli industriali lucchesi, che non lo amano granché e che hanno accettato, obtorto collo, la presenza della sua manifattura: un’industria che per le sue esigenze produttive disfaceva e non poco vecchi equilibri, ne produceva e fondava di nuovi, creava interessi diversi da quelli tradizionali e consolidati. Profondo il sentire ant-Balestreri di larghi strati del conservatorismo e del moderatismo lucchesi che, infatti, non permetterà mai all’industriale genovese di intraprendere una significativa carriera politica. Né va meglio a Balestreri l’impresa di rendere Ponte a Moriano una “città-sociale”, sul modello di quelle realizzate da un altro industriale del tessile, Alessandro Rossi, proprietario della Lanerossi che nel Veneto, a Schio, modifica addirittura la struttura urbanistica della città; costruisce nuovi quartieri abitativi per gli operai e impianta strutture sociali - asili nido per i figli delle lavoratrici; scuole tecniche; un teatro, ben quattro linee di collegamenti ferroviari con i paesi vicini per la mobilità dei lavoratori - che trasformano la cittadina in uno straordinario polo industriale centro del progetto filantropico-paternalista del Rossi.
Ben più modesti gli interventi sociali del Balestreri a Ponte a Moriano: le abitazioni operaie dette “Le Torrette” a Ponte a Moriano; una Società operaia di mutuo soccorso con pochi operai, però, e tanti maggiorenti a presiederla; una Scuola serale per i figli dei soci; una discussa Cooperativa di Consumo tra gli operai e gli impiegati della fabbrica. Niente di paragonabile, forse anche perché estranea agli orizzonti ideologici dell’industriale genovese, all’esperienza totalizzante e interclassista di Rossi nel Veneto.
In questa prima parte del lavoro, Petrini, sta bene attento a mantenere le giuste distanze dal Balestreri: non ci si identifica, come accade spesso in tante biografie e a non pochi biografi che di sovente finiscono per “innamorarsi” del personaggio oggetto di studio. A Petrini, con l'industriale genovese, non succede: di lui conosciamo le luci, le ombre e anche le zone più in ombra: la sua passione per le donne; un temperamento impulsivo che non disdegna le reazioni violente ai torti, veri o presunti, subiti. E, per meglio delinearne il carattere e la percezione diffusa di questa prorompente personalità, in tempi e ambienti diversi l’Autore utilizza, quando possibile, anche le fonti orali: le voci del villaggio operaio che si sono tramandate di padre in figlio, sono diventate lessico familiare e senso comune.
Una scrittura, quella di Petrini, documentata e controllata: una ricostruzione storica documentata sine ira ac studio: un atteggiamento equanime, obbiettivo… Che giustamente, almeno a mio parere, s’incrina nella seconda parte del libro "Aspetti della condizione operaia nel Comune di Lucca" quando l'Autore espone le cifre, i dati, terribili, tragici degli interminabili orari di lavoro, dei salari da fame, delle pessime condizioni igienico-sanitarie, delle malattie professionali e sociali diffuse, della deprivazione complessiva – anche culturale, anche umana, – a cui furono sottoposte generazioni soprattutto di donne e fanciulli tra la sostanziale indifferenza di autorità, istituzioni, intellettuali.
Questi dati, queste cifre debbono essere state per l’Autore un doloroso pugno nello stomaco che Petrini ci gira pari pari. Il moralista che è in lui s’inalbera, s’indigna: e lo dimostrano sia la scelta degli argomenti che illustrano le condizioni materiali di vita del proletariato lucchese, sia la costruzione delle sequenze di testi argomentativi, sia la selezione delle citazioni. Un climax, quello compiuto dall’Autore in questa sezione del libro, che ottiene il suo punto di maggiore dolorosa intensità nella storia di una vita operaia spezzata: quella di Ester Fenili, operaia dello iutificio, che nel 1901, a poco più di 30 anni, si dà la morte per sfinimento, per stanchezza, per la tristezza di una vita non degna di essere vissuta. Con i pochi materiali a disposizione, Petrini ricostruisce una povera storia di una vita povera: povera al limite della miserabilità, ma soprattutto senza speranza, senza prospettiva, senza sogni.
Stasera è l’ultima che vengo a casa tua è il titolo dell’ultimo capitoletto di questo segmento di libro, pagine particolarmente partecipate, intense, commosse in cui davvero Francesco Petrini mi è sembrato all’altezza di quanto auspicato da Gramsci proprio cento anni fa: “Il proletariato non vuole predicatori di esteriorità, freddi alchimisti di parolette, vuole comprensione intellettuale, simpatia piena d’amore”.
Francesco Petrini, L'industralizzazione in Lucchesia 1880 - 1901, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2016, pp. 175, Euro 16,00
Libro di grande interesse storico questo Aspetti dell'industrializzazione in Lucchesia 1880 - 1901. Il volume, risultato della rielaborazione e dell'arricchimento documentario di un saggio dallo stesso titolo apparso trent'anni fa sul n. 5 di "Documenti e studi", semestrale dell'Istituto Storico della Resistenza di Lucca, mantiene tutti i caratteri che ne determinarono, allora, il generale apprezzamento. Soprattutto il fatto che ricerche di questo genere erano - e sono rimaste – piuttosto rare. A metà del secolo scorso si contavano sulle dita di una mano gli autori che avevano affrontato i contenuti, i processi e i protagonisti della rivoluzione industriale italiana: Corrado Barbagallo, Le origini della grande industria contemporanea (1750-1850)), 1929-1930; Roberto Tremelloni, Storia dell’industria italiana contemporanea. Dalla fine del ‘700 all’Unità, 1947; Antonio Fossati, Lavoro e produzione in Italia dalla metà del secolo XVIII alla II guerra mondiale, 1951 e, il più famoso di tutti, Rodolfo Morandi, Storia della grande industria in Italia, 1959: studi di storia economica che si erano poi riversati nella ricostruzione e interpretazione della nostra vicenda nazionale unitaria, con i lavori di Gerschenkron, Caracciolo, Cafagna, Romeo...
Sugli esordi della rivoluzione industriale di Toscana, aveva cominciato a lavorare fra la fine degli anni Cinquanta, lo storico marxista Giorgio Mori, che non aveva mancato di cogliere l’importante novità industriale-capitalistica rappresentata dallo Iutificio di Emanuele Balestrieri: “un grandioso stabilimento” lo definisce il Mori, che occupava un’area di 150.000 mq, di cui 20.000 fabbricati che dava lavoro alla fine dell’Ottocento a circa 1500 addetti alla filatura e alla tessitura, con l’istallazione di 10.000 fusi e 300 telai meccanici: una grossa novità, non solo sul piano provinciale e regionale, ma anche nazionale. Non va dimenticato, infatti, che in quel periodo, gli anni Ottanta del XIX secolo, la quasi totalità delle industrie tessili presenta - e presenterà ancora per alcuni decenni - caratteri spiccatamente agricoli. Manifatture importanti come quelle della seta e della lana, sono ancora frazionate in migliaia di piccole aziende domestiche con impianti artigianali e modi di lavorazione patriarcali; sono sparse nella campagna e sono servite da contadini divenuti solo occasionalmente operai e il lavoro artigianale-industriale è percepito come accessorio e pronto a essere disertato non appena le attività agricole e i lavori campestri lo richiedano.
Cogliamo meglio, quindi, tutto il peso e tutte le novità dell’iniziativa economica del Balestreri, così ben raccontata da Petrini che divide il suo lavoro in due parti: ”Vita e opere di un imprenditore”; “Aspetti della condizione operaia nel Comune di Lucca”.
Partiamo dal primo punto.
Chi è Emanuele Balestreri? È un uomo del Risorgimento, di seconda generazione risorgimentale; troppo giovane per la poesia, del nostro processo di unificazione nazionale - il ’48 ; il ’59, la spedizione dei Mille - in età, però, per la prosa risorgimentale: il difficile avvio dell’Italia unita; la dolorosa presa di coscienza dei suoi numerosi e gravi problemi: la questione meridionale; la questione sociale; la questione cattolica…
Genovese, volontario in marina a 20 anni, Balestreri torna claudicante dalla III guerra d’indipendenza. Liberale crispino, appartiene a quell’area politica che aveva abdicato rispetto alle aspirazioni repubblicane per abbracciare la monarchia e che, dopo il passaggio del potere della Destra alla Sinistra storica, era arrivata al governo del Paese, che avrebbe mantenuto sino al marzo 1896, all’indomani della tragedia di Adua con le definitive dimissioni del Crispi. Il tempo dello statista siciliano coincide, più o meno, col tempo dell’esperienza dell’imprenditore genovese e della sua avventura industriale a Lucca. Alcuni caratteri li accomunano: entrambi spregiudicati nei rapporti economici e politici, tutti e due autoritari e dirigisti costituiscono un mix di nuovo e di vecchio. Balestreri realizza un’azienda all’avanguardia per la modernità degli impianti (quattro motrici per fornire energia all’intero stabilimento; una lavorazione a ciclo completo, la luce elettrica per il lavoro notturno), ma vive con disagio tutti i vincoli propri di un rapporto col territorio e più in generale l’intero sistema delle relazioni politiche, sociali, culturali col Morianese e con Lucca. Per esempio, quando ha bisogno dell’acqua per le sue attività industriali, in maniera del tutto unilaterale se la prende, togliendola all’agricoltura e ai contadini della zona, dando vita così a un interminabile contenzioso col territorio, i suoi abitanti e i suoi rappresentanti. Una polemica insanabile che finirà per logorarlo anche presso i suoi stessi colleghi, quegli industriali lucchesi, che non lo amano granché e che hanno accettato, obtorto collo, la presenza della sua manifattura: un’industria che per le sue esigenze produttive disfaceva e non poco vecchi equilibri, ne produceva e fondava di nuovi, creava interessi diversi da quelli tradizionali e consolidati. Profondo il sentire ant-Balestreri di larghi strati del conservatorismo e del moderatismo lucchesi che, infatti, non permetterà mai all’industriale genovese di intraprendere una significativa carriera politica. Né va meglio a Balestreri l’impresa di rendere Ponte a Moriano una “città-sociale”, sul modello di quelle realizzate da un altro industriale del tessile, Alessandro Rossi, proprietario della Lanerossi che nel Veneto, a Schio, modifica addirittura la struttura urbanistica della città; costruisce nuovi quartieri abitativi per gli operai e impianta strutture sociali - asili nido per i figli delle lavoratrici; scuole tecniche; un teatro, ben quattro linee di collegamenti ferroviari con i paesi vicini per la mobilità dei lavoratori - che trasformano la cittadina in uno straordinario polo industriale centro del progetto filantropico-paternalista del Rossi.
Ben più modesti gli interventi sociali del Balestreri a Ponte a Moriano: le abitazioni operaie dette “Le Torrette” a Ponte a Moriano; una Società operaia di mutuo soccorso con pochi operai, però, e tanti maggiorenti a presiederla; una Scuola serale per i figli dei soci; una discussa Cooperativa di Consumo tra gli operai e gli impiegati della fabbrica. Niente di paragonabile, forse anche perché estranea agli orizzonti ideologici dell’industriale genovese, all’esperienza totalizzante e interclassista di Rossi nel Veneto.
In questa prima parte del lavoro, Petrini, sta bene attento a mantenere le giuste distanze dal Balestreri: non ci si identifica, come accade spesso in tante biografie e a non pochi biografi che di sovente finiscono per “innamorarsi” del personaggio oggetto di studio. A Petrini, con l'industriale genovese, non succede: di lui conosciamo le luci, le ombre e anche le zone più in ombra: la sua passione per le donne; un temperamento impulsivo che non disdegna le reazioni violente ai torti, veri o presunti, subiti. E, per meglio delinearne il carattere e la percezione diffusa di questa prorompente personalità, in tempi e ambienti diversi l’Autore utilizza, quando possibile, anche le fonti orali: le voci del villaggio operaio che si sono tramandate di padre in figlio, sono diventate lessico familiare e senso comune.
Una scrittura, quella di Petrini, documentata e controllata: una ricostruzione storica documentata sine ira ac studio: un atteggiamento equanime, obbiettivo… Che giustamente, almeno a mio parere, s’incrina nella seconda parte del libro "Aspetti della condizione operaia nel Comune di Lucca" quando l'Autore espone le cifre, i dati, terribili, tragici degli interminabili orari di lavoro, dei salari da fame, delle pessime condizioni igienico-sanitarie, delle malattie professionali e sociali diffuse, della deprivazione complessiva – anche culturale, anche umana, – a cui furono sottoposte generazioni soprattutto di donne e fanciulli tra la sostanziale indifferenza di autorità, istituzioni, intellettuali.
Questi dati, queste cifre debbono essere state per l’Autore un doloroso pugno nello stomaco che Petrini ci gira pari pari. Il moralista che è in lui s’inalbera, s’indigna: e lo dimostrano sia la scelta degli argomenti che illustrano le condizioni materiali di vita del proletariato lucchese, sia la costruzione delle sequenze di testi argomentativi, sia la selezione delle citazioni. Un climax, quello compiuto dall’Autore in questa sezione del libro, che ottiene il suo punto di maggiore dolorosa intensità nella storia di una vita operaia spezzata: quella di Ester Fenili, operaia dello iutificio, che nel 1901, a poco più di 30 anni, si dà la morte per sfinimento, per stanchezza, per la tristezza di una vita non degna di essere vissuta. Con i pochi materiali a disposizione, Petrini ricostruisce una povera storia di una vita povera: povera al limite della miserabilità, ma soprattutto senza speranza, senza prospettiva, senza sogni.
Stasera è l’ultima che vengo a casa tua è il titolo dell’ultimo capitoletto di questo segmento di libro, pagine particolarmente partecipate, intense, commosse in cui davvero Francesco Petrini mi è sembrato all’altezza di quanto auspicato da Gramsci proprio cento anni fa: “Il proletariato non vuole predicatori di esteriorità, freddi alchimisti di parolette, vuole comprensione intellettuale, simpatia piena d’amore”.
Francesco Petrini, L'industralizzazione in Lucchesia 1880 - 1901, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2016, pp. 175, Euro 16,00
02 ottobre 2016
"L'abbraccio" foto di Gianni Quilici
di Caterina Donatelli
A
volte le tue foto le 'vivo' come una possibilità. Un furto del tempo reale dove
poter accedere.
Inoltre, o di conseguenza, mentre le vedo non
mi sento spettatrice solitaria dentro lo spazio tra me, l'immagine e quello che
suscita, ma mi percepisco come estensione dell'attimo. E’ come se fossi anch'io lì, dietro a te che
scatti.
Penso
che ci siano diversi piani di osservazione di una fotografia per definirla
'bella', però trovo estremamente interessante, come in questo caso, anche quel
tipo di scatto che con poco, trova una sua magia per l'osservatore.
Gianni Quilici. Cape Dastris, Corfù. Settembre 2016.
Gianni Quilici. Cape Dastris, Corfù. Settembre 2016.
Iscriviti a:
Post (Atom)